Autonomie e regionalismo nell’Italia di oggi

Valerio Onida[1] 

Intervento presentato al seminario “La Regione Piemonte e il regionalismo: dal passato al futuro”, organizzato dal Consiglio regionale del Piemonte in collaborazione con il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e con l’Università del Piemonte Orientale, svoltosi il 14 novembre 2018 a Torino, presso l’Aula consiliare di Palazzo Lascaris.

Penso che questa sia una buona occasione di riflessione sul regionalismo italiano.  Uno dei difetti fondamentali della discussione che si è svolta in occasione del referendum del 2016 sulla riforma costituzionale è stata proprio l’ampia sottovalutazione di questo aspetto del sistema costituzionale, o il punto di vista unilaterale da cui è stato considerato. Personalmente ho sempre ritenuto che l’aspetto peggiore di quella riforma fosse proprio l’intervento riduttivo che tentava di effettuare sul sistema regionale.

È opportuno e doveroso riflettere sul regionalismo, che – come ha ricordato anche il collega Costanzo – alle origini della Costituzione è stato visto come una grande novità; secondo Meuccio Ruini era la più grande novità della Costituzione. Invece, come si sa, il regionalismo ha poi conosciuto una storia tormentata e sfilacciata nel tempo. C’è stato un primo periodo di totale “congelamento” fino al 1970, e un trentennio successivo in cui lentamente, ma in qualche modo progressivamente, si è cercato di tradurre il regionalismo nei fatti, nella legislazione ordinaria e nella struttura degli apparati pubblici: incontrando dapprima serie resistenze negli apparati centrali e, successivamente, conoscendo un momento di più larga apertura, prima col DPR n. 616 del 1977 e poi con le leggi cosiddette Bassanini degli anni ’90, sfociate nel 2001 nella riforma costituzionale.

Tale riforma, come sappiamo, sulla carta era (ed è) una riforma di forte regionalizzazione. Ma qui nasce quello che mi pare un vero paradosso del sistema istituzionale italiano: dal 2001 ad oggi, in presenza di un assetto costituzionale fortemente rinnovato, per alcuni aspetti con eccessi, nel senso della regionalizzazione, si è assistito invece ad una sorta di nuovo “congelamento” del sistema regionalistico e autonomistico e ad un progressivo, ma veloce, processo di ri-centralizzazione di funzioni.

Il paradosso è evidente. Nel 2001 entra in vigore una riforma che allarga molto le materie di competenza, soprattutto concorrente, delle Regioni. Come si sa, le materie di competenza concorrente sono quelle sulle quali spetta allo Stato dettare i principi fondamentali e spetta alle Regioni svolgere tali principi e adattarli alle singole realtà con una legislazione di dettaglio. Il modello legislativo statale che questo tipo di competenza presuppone è quello della “legge quadro”, cioè di una legge che si limita a fissare principi fondamentali, per lasciare poi spazi significativi all’interno dei quali le diverse comunità regionali possano disciplinare diversamente la materia. Ebbene, dal 2001 ad oggi, non si ha traccia del varo di vere leggi quadro, letteralmente scomparse, non solo come nome e intitolazione, ma anche come sostanza. Si hanno interventi sempre più dettagliati delle leggi statali anche nelle materie spettanti alle Regioni: tanto che risulta talora difficile distinguere ciò che è principio da ciò che è dettaglio.  La stessa Corte Costituzionale fa fatica a distinguere, quando si trova di fronte a controversie nelle quali si sostiene che il legislatore statale sia entrato troppo nel dettaglio. Certo, ci sono talora dei dettagli che sono essenziali perché il principio possa sopravvivere, ma il fatto è che la legislazione statale si è mossa spesso quasi come se non ci fossero le competenze regionali. Altro aspetto ben noto è l’uso estensivo fatto dallo Stato di certe sue competenze qualificate dalla Costituzione come esclusive, ma tali da consentire, specie se intese in senso largo, di interferire anche negli spazi di competenze regionali (si parla infatti di competenze “trasversali”): sono noti i casi della tutela della concorrenza (anche a causa, probabilmente, di una “descrizione” costituzionale troppo restrittiva delle competenze statali in materia di attività produttive); dell’ordinamento civile, esteso alla disciplina dell’impiego negli apparati pubblici; del coordinamento finanziario, nel cui nome lo Stato disciplina sempre più nel dettaglio l’attività di spesa delle Regioni.

Dunque, il primo paradosso sta in una prassi legislativa statale che, in qualche modo, ha dimenticato che esistono le Regioni, o al più ne ha preso atto quasi come se talvolta fossero degli impedimenti al conseguimento degli obiettivi politici.

Talvolta, si deve dire, anche le stesse Regioni ci hanno messo del loro: come ad esempio quando alcune Regioni hanno preteso di fare delle leggi che escludessero qualsiasi coinvolgimento delle stesse nella soluzione dei problemi dello smaltimento dei rifiuti radioattivi, in nome della “Regione denuclearizzata”. È ovvio infatti che il tema dei rifiuti nucleari non poteva che essere risolto sul piano nazionale, certamente attraverso una concertazione con le Regioni, e con la Regione volta a volta specificamente interessata, ma non certo chiamando “fuori” a priori alcune di esse.

Ma molto del suo ha messo lo Stato, nel senso di agire spesso come se le Regioni non esistessero, o come se le competenze regionali fossero un inconveniente un po’ fastidioso del quale liberarsi con una serie di meccanismi e di espedienti. 

Anche la Corte costituzionale ci ha messo del suo: più che altro nel senso che ha spesso seguito gli orientamenti del legislatore statale, manifestando piena comprensione per le esigenze di unità e di uniformità che le leggi statali manifestavano, facendo poco (talora poco potendo fare) per contrastare efficacemente una modalità di legiferare, quella appunto dello Stato, che per lo più ignora la distinzione fra principi e dettagli e non si preoccupa di fissare un quadro nel cui ambito le autonomie regionali possano a lorio volta esprimersi.

Questo naturalmente è dovuto anche al modo in cui, in generale, si legifera nel nostro Paese: spesso non si fanno leggi per fissare principi e limiti, ma per intervenire su singole situazioni, talvolta su casi concreti. Questo modo di esercizio della legislazione trova spazio non solo in Parlamento, ma anche nelle iniziative del Governo: si pensi alle leggi di bilancio, già leggi finanziarie o di stabilità: sono leggi omnibus, nelle quali entra di tutto, anche ciò che non c’entra e non dovrebbe entrarci con l’oggetto di queste leggi, che non dovrebbero contenere disposizioni micro-settoriali o di tipo ordinamentale, mentre invece si trovano continuamente in esse  norme di questo tipo, anche di estremo dettaglio. In sede parlamentare, poi, l’attività emendativa ha luogo molto spesso attraverso l’aggiunta di micro-disposizioni ulteriori, anche estranee all’oggetto originario del provvedimento.

Questo modo di fare le leggi non è adatto, in particolare, ad uno Stato regionale, in cui la legge statale dovrebbe lasciare spazio agli adattamenti regionali. Ma questo è un tema che non riguarda solo il regionalismo, bensì riguarda aspetti più generali del modo in cui si esercitano le funzioni pubbliche.

La Corte costituzionale qualche volta ha cercato di porre rimedio a questi difetti, affermando per esempio che nelle leggi di conversione dei decreti legge non si possono inserire norme che non hanno a che fare con l’oggetto del decreto. Però bisogna prendere atto che quest’opera della Corte costituzionale è difficile, perché l’intervento della Corte avviene quando la legge è ormai in vigore, magari da tempo; e inoltre sancire l’incostituzionalità di una legge non per quello che dice, ma per il contesto o per il modo in cui lo dice, è sempre problematico, soprattutto quando questo avviene non nell’immediatezza dell’approvazione della legge, ma a distanza di tempo.

L’altro aspetto fondamentale del paradosso del nostro regionalismo è quello finanziario. La riforma del 2001 presupponeva che si desse vita ad una vera autonomia finanziaria regionale, mentre, come si sa, la legge sulla finanza regionale del 1970 si muoveva in un’ottica di forte accentramento della manovra fiscale e finanziaria, e quindi di una finanza regionale sostanzialmente “derivata” (si ricordi il cosiddetto “fondo comune”, alimentato dal gettito tributario statale e ripartito dallo Stato fra le Regioni). Certamente questa scelta si spiegava anche col timore che una più spinta autonomia finanziaria creasse o aggravasse le disparità fra territori più e meno ricchi. Ora, l’obiettivo della perequazione è fondamentale e irrinunciabile, in un Paese caratterizzato ancora da forti disparità territoriali, e in cui quindi è necessario prevedere meccanismi di effettiva solidarietà interregionale. Ma il punto sono i modi in cui essa si realizza: che non dovrebbero essere quelli di una drastica centralizzazione delle politiche di spesa, ma piuttosto meccanismi espliciti e trasparenti di solidarietà e di trasferimenti interregionali. 

L’assetto finanziario da sempre ha funzionato come elemento di centralizzazione, perché, se si decentra la competenza a legiferare e ad amministrare, ma poi sul piano finanziario il controllo rimane tutto al centro, è ovvio che il decentramento non funziona davvero.

Dopo la riforma del 2001 si era avviato il processo del cosiddetto federalismo fiscale: che però non è stato attuato.  Il federalismo fiscale si realizza con una ripartizione delle entrate, assegnando alle Regioni e agli enti locali uno spazio, ovviamente controllato e vigilato nei suoi confini dalla legislazione statale, entro il quale gli enti autonomi possono esercitare forme di autonomia impositiva, rispondendo politicamente agli elettori del modo in cui riscuotono e spendono le corrispondenti risorse. Vi deve essere insomma uno spazio di autonomia non solo sul lato della spesa, quanto cioè al modo in cui vengono impiegate le risorse disponibili per le attività previste dalla legge, ma anche sul lato dell’entrata. Lo stabilisce esplicitamente l’art. 119 della Costituzione, il quale prevede che Regioni ed enti locali “hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa”, “hanno risorse autonome”, e “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (i principi, perché quest’ultima materia è attribuita alla competenza concorrente di Stato e Regioni).

Ebbene, la storia degli ultimi anni ci mostra come sul piano tributario si sia verificato piuttosto un processo di centralizzazione: si sono spostate verso lo Stato risorse provenienti da imposte che erano state costruite come locali; si sono ristretti i margini di autonomia degli enti locali e delle Regioni nell’esercitare il loro potere impositivo. Le Regioni forse non si sono battute molto per accrescere tali margini, magari sul presupposto che l’esercizio del potere impositivo in genere non faccia guadagnare consensi, se non quando si adottano provvedimenti di riduzione del carico fiscale. Questo però comporta che non si attua una vera e piena forma di autonomia.

Senza autonomia finanziaria e impositiva, non è c’è vera autonomia. Anche questo è un paradosso della riforma del 2001, realizzata sul piano costituzionale e poi abbandonata e spesso contraddetta, nello spirito, dalla legislazione ordinaria.

Si aggiunga poi il fatto – già citato dal Prof. Costanzo – che i meccanismi di raccordo fra Regioni e Stato sono stati abbandonati ad una sperimentazione caso per caso, per lo più affidata a Conferenze nelle quali la singola Regione ha ovviamente una voce molto relativa. Nemmeno si è mai realizzato quell’unico timido tentativo di inserimento del circuito regionale nella deliberazione delle leggi statali, che era la previsione, in Parlamento, della Commissione per le questioni regionali, che avrebbe dovuto, secondo l’articolo 11 della legge costituzionale di riforma, essere integrata da rappresentanti delle Regioni e degli Enti locali ed esprimere dei pareri che, benché  non vincolanti, avrebbero avuto un’incidenza anche procedimentale, in quanto il superamento del parere negativo di questa Commissione avrebbe richiesto deliberazioni a maggioranza assoluta dell’assemblea.

***

Questo è lo stato del regionalismo in generale in Italia Ma poi ci sono le singole Regioni. Noi siamo in Piemonte e quindi la riflessione dovrebbe anche avere questo oggetto. Ho visto che il manuale oggi presentato, giustamente, ha preso le mosse dalla storia, anche pre-costituzionale, della Regione Piemonte. Io non sono in grado di dire molto su questa Regione, perché non ho conoscenze ed esperienze al riguardo. Credo però che sarebbe bene avviare una riflessione approfondita anche sulle singole esperienze regionali.

Il Piemonte è una Regione grande, ha una storia e un ruolo particolarmente rilevanti nel sistema italiano. È una Regione che ha vissuto molti cambiamenti, anche sul piano delle vicende politiche, avendo visto, forse più di altre, una certa alternanza di schieramenti politici al governo. Ha un’esperienza legislativa specifica, che andrebbe conosciuta e studiata.

Vi è in ogni caso un elemento che ad uno studioso di Regioni in generale balza subito agli occhi: il contenzioso con lo Stato, che nell’ultimo decennio ha caratterizzato, in maniera accentuata, la giurisprudenza della Corte costituzionale, non vede il Piemonte tra le regioni più frequentemente implicate. Dal 2009 al 2018 (dati aggiornati al 31 dicembre 2018) su 52 pronunce della Corte Costituzionale che riguardano la Regione Piemonte, sono 23 i giudizi concernenti  questioni in via principale sollevate dallo Stato su leggi della Regione Piemonte; 29 sono i giudizi concernenti questioni sollevate dalla Regione Piemonte, in genere non da sola, ma insieme ad altre Regioni, su leggi statali (di essi 15 giudizi risalgono al 2009, e 11 di essi si riferivano  allo stesso ricorso contro il “codice dell’ambiente”  approvato con d.lgs. n. 152 del 2006), con esiti per lo più di rigetto. Ci sono poi due casi di conflitti di attribuzione sollevati dalla Regione contro organi statali, e infine 15 pronunce che discendono da questioni incidentali sollevate dai giudici comuni (ordinari o amministrativi) relativamente a disposizioni di leggi regionali del Piemonte.

Questo dato statistico – in parte forse spiegabile in base ai rapporti politici fra le maggioranze regionali e quelle parlamentari negli stessi periodi di tempo – non è senza significato: se facessimo la stessa indagine per la regione Lombardia, o per la regione Veneto, o per la regione Sicilia, troveremmo presumibilmente numeri decisamente più elevati di controversie. Il significato di questi dati andrebbe poi approfondito: minore contenzioso “passivo” (ricorsi contro leggi regionali) può significare maggiore attenzione del legislatore regionale ai propri limiti o invece minore propensione all’innovazione legislativa su temi di confine; minore contenzioso “attivo” (ricorsi della Regione contri leggi statali) può significare maggiore propensione a rapporti di collaborazione anziché di conflitto o maggiore propensione ad accettare, eventualmente per motivi politici, orientamenti legislativi statali che limitano l’autonomia regionale.

In ogni caso, che si pubblichino manuali sul diritto regionale di una specifica  Regione, come il Piemonte, è  una cosa positiva, perché finora avevamo per lo più solo trattazioni del diritto regionale “generale”: ma se ciascuna Regione matura una  propria esperienza, che la differenzia da altre, è giusto dedicarvi attenzione.

***

A questo proposito si pone il tema – che è poi l’oggetto specifico di questo convegno – dell’autonomia differenziata, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, che consente, con legge statale approvata a maggioranza assoluta dei componenti, e previa intesa tra lo Stato e la Regione interessata, di attribuire nuove forme e condizioni di autonomia alle Regioni che ne facciano richiesta, nell’ambito di  un arco abbastanza ampio di materie  (tutte quelle di carattere concorrente, più alcune, poche, fra quelle che l’articolo 117 attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato).

Si tratta di una potenzialità da non sottovalutare, anche per valorizzare le differenze fra le Regioni. Trovo positivo, ad esempio, che anche la Regione Piemonte, senza bisogno di referendum né di campagne politiche sul tema, abbia avviato un processo per chiedere un’intesa per l’autonomia differenziata. Perché l’attuazione di forme particolari di autonomia per singole Regioni consente di perseguire quella che è una delle ragioni dell’autonomismo.

Questo ha due ragioni fondamentali: La prima, consentire alle comunità locali di autogovernarsi per quanto riguarda i problemi di livello locale, perché non siano solo oggetto degli interventi di un lontano Governo centrale. La seconda ragione è  consentire che le differenze esistenti (che non sono di per sé declinabili in termini di inferiorità o di superiorità, ma sono semplicemente differenze) tra i diversi territori e tra le diverse Regioni possano ottenere quel riconoscimento, che nell’ambito di un ordinamento solo centralizzato non può normalmente aversi.

L’emersione delle differenze, anche attraverso l’autonomia differenziata, è dunque di per sè positiva. Ma su questo tema vi è un equivoco strisciante: perché spesso sotto la veste di una richiesta di maggiore autonomia si cela, in realtà, una richiesta di riduzione del grado di solidarietà economico-finanziaria nei confronti di altri territori. Si parla del “residuo fiscale”, cioè della differenza fra le risorse finanziarie derivanti dal gettito riscosso in un territorio e la spesa pubblica complessivamente effettuata a vantaggio di quel territorio. Le Regioni più “ricche”, che cioè vantano un residuo fiscale più alto, sembrano talora lamentare il fatto che una parte delle risorse riscosse nel proprio territorio non restino in esso quanto al loro utilizzo.

In un sistema che sia autonomistico ma anche solidaristico, è evidente che non tutto il gettito riscosso nelle Regioni più ricche può restare nel loro rispettivo territorio, altrimenti verrebbe meno ogni meccanismo di tipo economico-finanziario diretto a compensare, per quanto possibile, le disuguaglianze di gettito e consentire di perseguire l’eguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali fra tutti i cittadini, indipendentemente dal luogo in cui risiedono, voluta dalla Costituzione: ad esempio, per quanto riguarda il servizio sanitario nazionale di tipo universalistico.

Il perseguimento dell’autonomia differenziata non ha nulla a che fare – bisogna dirlo chiaramente – col tema del residuo fiscale. Non si chiede che una maggiore quota, o tanto meno la totalità, delle risorse prelevate in una Regione resti nel suo territorio, ma che una quota maggiore delle risorse spese nel proprio territorio venga amministrata dalla Regione invece che dallo Stato. Con il riconoscimento di ulteriori forme di autonomia si  avrebbe un trasferimento di risorse dallo Stato alla Regione, ma non un trasferimento di risorse dal territorio di una Regione a quello di altre.  Una parte di ciò che prima era speso dallo Stato nel territorio di quella Regione verrà ad essere speso invece da quest’ultima.

Naturalmente questo ha un senso nella misura in cui la Regione ritenga di essere in grado di spendere meglio e con più efficacia – anche avendo riguardo alle differenze specifiche che la caratterizzano – una parte di ciò che oggi viene speso sul proprio territorio dalle amministrazioni statali. Facciamo l’esempio della gestione dei beni culturali, tema che ho visto richiamato nella proposta piemontese. In particolare, si sottolinea che in forza del sistema legislativo esistente la gestione dei beni culturali non è unitaria, nel senso che segue piuttosto la proprietà, statale o regionale o locale, del bene. Ora, che la Regione ottenga di poter organizzare la gestione unitaria dei beni culturali sul proprio territorio, indipendentemente dalla loro proprietà, potrebbe consentire non solo un miglior riconoscimento delle differenze regionali, ma anche una maggiore efficienza ed efficacia della spesa.

La questione si collega anche al tema del rapporto tra le Regioni ordinarie e le Regioni speciali. Queste ultime hanno una storia più lunga, poiché per un ventennio sono state le uniche Regioni esistenti. Inoltre esse hanno goduto di più ampie forme di  autonomia, e di un sistema di finanziamento più favorevole di quello delle Regioni ordinarie. In realtà, il livello di autonomia finanziaria (sul lato delle entrate) delle Regioni speciali è altrettanto basso di quello delle Regioni ordinarie. Solo che le prime  godono da sempre di un sistema di riparto del gettito di grandi imposte statali riscosso sul rispettivo territorio (i 9 decimi o i 7 decimi), il che dà loro non solo una maggiore certezza circa le risorse disponibili, ma anche la prospettiva di una crescita delle stesse commisurata alla crescita del gettito delle imposte in tutto il Paese (posto che nella singola Regione la crescita sia proporzionale a quella complessiva). 

Il sistema di finanziamento delle Regioni ordinarie, invece, è sempre stato accentrato, cioè basato su entrate non solo derivanti da tributi statali, governati quasi per intero dallo Stato (questo vale anche per le Regioni speciali), ma anche ripartite fra le Regioni con criteri ampiamente discrezionali e soggette a incrementi o riduzioni decisi dallo Stato.

La maggiore differenza che oggi vi è tra le Regioni speciali e le Regioni ordinarie non sta tanto nelle maggiori competenze delle prime, specie dopo la riforma del 2001 che da un lato ha lasciato alle prime tutte le loro competenze statutarie, dall’altro ha loro attribuito (con la cosiddetta clausola di maggior favore di cui all’art. 10 della legge costituzionale n. 3) tutte le nuove forme di autonomia riconosciute alle Regioni ordinarie: ma sta piuttosto nel diverso sistema di finanziamento.

Non sono dell’opinione che le ragioni che hanno giustificato la previsione delle autonomie speciali oggi non siano più valide. Esse sono ragioni legate all’insularità e a situazioni di tipo linguistico e culturale, sulla cui base si è rafforzato il senso di una autonoma identità.

Non ha dunque ragion d’essere né la polemica di chi vorrebbe abolire le Regioni speciali, né la rivendicazione da parte di altre Regioni di uno statuto speciale analogo a quello di cui quelle godono. Si tratta, piuttosto, di salvaguardare le ragioni della specialità, di riconoscere col meccanismo dell’art. 116, terzo comma, forme ulteriori di autonomia ad altre Regioni che lo chiedano e siano in grado di esercitarle adeguatamente, e di realizzare per tutte un sistema di finanziamento con caratteri di maggiore autonomia e responsabilità sul lato delle entrate. 

Sul piano del metodo, il processo di differenziazione dovrebbe partire dalla conoscenza approfondita della realtà attuale e dei suoi dati sociali ed economici. I documenti che accompagnano la proposta piemontese meritoriamente recano una serie di dati. Sarebbe opportuno andare avanti in questa direzione. Per fare alcuni esempi, sarebbe utile conoscere i dati regionali, comparati con quelli nazionali, su aspetti come l’abbandono scolastico o la povertà e le disuguaglianze di reddito.

***

Peraltro le prospettive e le speranze di una rinascita del regionalismo italiano non stanno soltanto nell’attuazione dell’articolo 116, terzo comma. Occorrerebbe recuperare lo spirito originario e il senso dell’autonomia.

Questa è una Regione caratterizzata da un grande numero di Comuni, anche di dimensione ridotta. Non è solo una circostanza che può richiedere programmi di fusione o di associazione fra Comuni per una più efficiente organizzazione dei servizi locali: ma è anche la prova dell’esistenza di un forte senso dell’autonomia nel territorio.

Ricordo che quando, all’inizio degli anni Settanta, si avviò l’attuazione delle Regioni ordinarie, le ragioni fondamentali di questo processo venivano così indicate: le Regioni per la riforma dello Stato; le Regioni per la partecipazione; le Regioni per la programmazione. Si puntava cioè, oltre che su processi di programmazione economica articolati territorialmente, sull’obiettivo di un miglioramento strutturale del rapporto fra cittadini e apparati pubblici, rispetto a quello proprio del vecchio Stato centralizzato, anche attraverso un ruolo “esemplare” che le nuove Regioni avrebbero potuto svolgere; e sull’obiettivo di uno sviluppo degli istituti della partecipazione democratica. Dovremmo domandarci se e quanto le Regioni abbiano saputo operare sul terreno della propria organizzazione e del loro ordinamento per conseguire questi obiettivi.

E’ evidente come uno sviluppo delle autonomie comporti anche un arricchimento degli istituti della partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche, nelle diverse forme che essa assume nel nostro sistema democratico. Certe tendenze che oggi si manifestano, nel senso di eliminare o ridurre le funzioni politico-rappresentative (sotto l’ingannevole e inaccettabile slogan del “taglio delle poltrone”) – si pensi alla soppressione dei consigli elettivi di primo grado delle Province e delle Città metropolitane – sono esattamente contrarie alla valorizzazione delle autonomie come istituti di partecipazione. Anche le Regioni rischiano di essere viste solo o prevalentemente come fonti di sprechi o luoghi di coltura del malcostume politico. E’ sacrosanta la battaglia per salvaguardare e promuovere il “buon costume” politico, le esigenze di rigore, di disinteresse e di sobrietà che dovrebbero caratterizzare l’esercizio di funzioni pubbliche elettive. Ma altro è – e non è accettabile – avversare o impoverire o disprezzare gli istituti dell’autonomia. 

Un ultimo accenno al rapporto fra Regioni ed enti locali. L’articolo 5 della Costituzione contempla insieme, come un unico sistema, le autonomie locali e regionali. Uno dei difetti della riforma del 2001 è stato quello di non prevedere una competenza generale delle Regioni ordinarie, come quella che gli statuti riconoscono alle Regioni speciali, in tema di ordinamento degli enti locali, e di avere riservato allo Stato la competenza esclusiva in tema di legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali degli enti locali (art. 117, secondo comma, lettera p). Il timore che spinge in quella direzione è quello di un possibile “neo-centralismo” regionale, che porta talora gli enti locali a cercare piuttosto l’”alleanza” con lo Stato centrale. In realtà l’idea costituzionale delle Regioni non è quella di enti che accentrino al loro livello l’amministrazione, ma piuttosto quella di enti di legislazione, programmazione e coordinamento, capofila di un sistema autonomistico.

Un rilancio del regionalismo, anche attraverso l’attuazione dell’art. 116, terzo comma,  è l’auspicio che si deve esprimere per la salvaguardia e lo sviluppo degli ideali costituzionali.

 


 


[1] Professore emerito di diritto costituzionale.