Brown economy, green economy, blue economy: l’economia circolare e il diritto dell’ambiente

Rosario Ferrara[1]

 

Sommario: 1. In forma di premessa: alle origini del problema. 2. L’economia circolare e il diritto: il “catalogo” dei problemi. 3. Segue: e il “catalogo” dei principi. 4. Ancora a proposito dei principi su cui fondare la legittimità e la legittimazione dell’economia circolare. 5. Uno spunto conclusivo.

1. Qualche parola introduttiva ed esplicativa sembra essere necessaria, quantomeno per delineare il contesto e i confini nei quali viene a collocarsi questo intervento e gli obiettivi verso i quali tende.

La stessa espressione “economia circolare” (circular Economy, blue Economy, ecc.) è ormai entrata nel comune patrimonio linguistico di tutti gli studiosi e specialisti nel variegato campo delle scienze sociali, a conferma del dialogo costante, e davvero proficuo, che si intrattiene, pur da diversi angoli visuali, fra differenti ambiti disciplinari e, segnatamente (almeno in questo caso), fra i giuristi e gli economisti[2].

Se questo è vero, sembra già possibile una prima constatazione, in qualche modo estemporanea, e quasi a prescindere dalle definizioni che vengono correntemente proposte di economia circolare, almeno secondo una cifra eminentemente descrittiva: anche sotto questo profilo, e cioè esplorando, con approccio multidisciplinare, i caratteri costitutivi e strutturali della circular Economy, si comprende come e perché, e con quali impatti di tipo sistemico, le politiche dell’ambiente (e sull’ambiente) sono capaci di avviare e mobilitare processi e percorsi di conoscenza fortemente innovativi, tali da spingere verso nuove e più aggiornate soluzioni tutti i soggetti (pubblici e privati) che si muovono sugli scenari contemporanei della Governance multilivello[3].

Senza che il tema possa essere ripreso ed affrontato in tutta la sua complessità, come giuristi siamo ben consapevoli di come il diritto dell’ambiente finisca molto spesso col rappresentare una sorta di diritto sonda[4], riuscendo in questo modo ad anticipare problemi e soluzioni di questi stessi con la messa in campo di principi, regole e strumenti caratterizzati da una straordinaria capacità diffusiva in quanto che da, peculiari e speciali (perché pensati per il diritto dell’ambiente, o comunque per le tematiche del governo del territorio), finiscono col plasmare e conformare i “rami alti” del sistema giuridico imponendosi come principi dell’ordinamento generale.

Ma veniamo al punto, in quanto la definizione di economia circolare, per come essa ci viene proposta nelle elaborazioni degli economisti, ed anche di urbanisti, di sociologi e di studiosi del mondo delle c.d. scienze dure[5], e conseguentemente negli stessi “pacchetti” dell’Unione europea nonché nei documenti dei paesi europei[6], riesce ad evocare un vero e proprio universo di suggestioni di nuovo conio, rilevanti per il diritto e – forse ancor prima – davvero originali e significative sul piano filosofico.

E’ opportuno giustificare questo passaggio onde cogliere i nessi e le connessioni di ordine culturale (e non meramente funzionale) che legano e tengono insieme i percorsi degli economisti e dei giuristi in uno con i contributi di pensiero che ci vengono offerti da altri specialisti.

L’economia, così come tradizionalmente intesa (la brown Economy) è oggettivamente a carattere lineare, impostata secondo un modello diacronico così sintetizzato: estrai, produci, usa, getta. E, cioè, raccogliendo e condividendo le suggestioni di un’autorevole dottrina[7], l’economia lineare sembra del tutto in sintonia con quello che è stato sapientemente definito come il “paradigma meccanicistico”, tipico e proprio del “mondo come macchina”, laddove l’economia circolare sembra piuttosto in linea con il paradigma ecologico-sistemico, coessenziale alla nuova concezione del “mondo come rete”.

In questo senso, e non essendo possibile (anche per ovvi limiti di competenza!) un più dettagliato approfondimento del discorso, mi sembra tuttavia ovvia, del tutto manifesta e visibile, la cifra cultural-filosofica che è obiettivamente sottostante al modello lineare. Ossia una sorta di fede (o di illusione?) non scalfita dal dubbio, a quel che pare, circa il profilo sempre virtuoso del ciclo economico, del ciclo economico immaginato come aperto e supportato da una fede incrollabile nella illimitatezza delle risorse che il pianeta offre agli operatori economici.

E’ ben noto che, anche nel contesto dell’economia classica, si levarono voci di dissenso senza tuttavia riuscire a scalfire in modo significativo il pensiero dominante, il quale aveva tuttavia una sua legittimazione almeno sul piano storico, per il fatto di collocarsi temporalmente a ridosso della rivoluzione industriale. E comunque anche quelle voci nel deserto che, quasi profeticamente, proponevano soluzioni e progetti secondo un’ottica di decrescita controllata[8] non riuscirono a spostare in nessun modo i termini del problema.

Siamo ben lontani, in altre parole, dalle suggestioni importanti che alcune mirabili indagini intorno al principio di responsabilità[9] rappresenteranno, nella seconda metà del secolo scorso, all’attenzione collettiva dei governanti e degli studiosi di diversi ambiti disciplinari, contribuendo a mettere in moto un processo (esso stesso circolare!) di rivisitazione dei nostri più tradizionali e consolidati idealtipi concettuali.

Senza che sia necessaria una completa e dettagliata ricostruzione del processo evolutivo che porta dalla brown Economy all’economia circolare, è possibile mettere a fuoco un doppio passaggio: in consonanza con la drammatica esplosione del problema ambientale (il riscaldamento globale, l’assottigliarsi della fascia di ozono, ecc.)[10] si acquisisce progressivamente consapevolezza dei c.d. limiti dello sviluppo e, conseguentemente, almeno nei programmi e nelle elaborazioni, sia della politica che della Scienza (rectius, delle scienze sociali come di quelle c.d. dure), si approda ai lidi, tanto incerti quanto tuttavia suggestivi, della green Economy; si consuma, in seguito, un ulteriore, e forse più radicale passaggio, nel senso che la green Economy si trasforma in blue Economy, ossia in economia circolare.

E sembra, tuttavia, in qualche misura semplicistico (e, forse, addirittura sbagliato) considerare l’economia circolare come la virtuosa e coerente evoluzione della green Economy: se, infatti, sia l’uno che l’altro modello si prefiggono di costituire un’alternativa di progetto, e soprattutto culturale e politica, al tradizionale idealtipo dell’economia lineare, l’economia circolare in senso stretto più che evoluzione e perfezionamento di quella “verde” ne rappresenta semmai la positiva trasformazione, e forse persino il superamento, soprattutto sul piano culturale (della cultura politica come di quella industriale).

E vediamo brevemente perché, ancora una volta con molti punti interrogativi e ben poche certezze.

La green Economy, che conosce un momento di particolare fortuna a far tempo dal 2007 (ossia dall’irrompere sugli scenari della mondializzazione della crisi sistemica della finanza e dell’economia reale), se da un lato si presenta come un progetto generale e globale di rimodulazione dei processi economici, si limita, dall’altro lato, ad intervenire positivamente, sia con strumenti ed opzioni di soft Law che di hard Law, su singoli comparti e settori, correttamente selezionati e privilegiati in quanto strategici, senza tuttavia spingersi a conformare con interventi attivi (neppure di soft Law) il ciclo economico e, soprattutto, il modo di organizzarsi dei cicli produttivi, e dunque dei fattori di produzione in vista del raggiungimento di più elevati standard di protezione dell’ambiente.

Valga per tutti, come esempio, la disciplina, sia dell’Unione Europea che del nostro paese, in tema di energie da fonti rinnovabili e quella relativa all’ecoefficienza energetica degli edifici[11]. L’obiettivo, sicuramente di straordinario rilievo ambientale, è pur sempre quello di ridurre il ricorso alle tradizionali fonti fossili, privilegiandosi le energie rinnovabili il cui uso da parte degli operatori economici e dei consumatori finali viene opportunamente, e in vario modo, incentivato, ma non si assiste, su questa via, a nessuna scelta di fondo che abbia ad oggetto il “modo della produzione”, ossia le modalità concrete che sostanziano il modo di produrre, ovviamente in vista del recupero, del riuso e del riciclaggio (e naturalmente del risparmio a monte) dei materiali e delle materie prime, nobili e meno nobili, suscettibili di reiterate utilizzazioni.

Forse è nel settore dei rifiuti che si realizza, abbastanza per tempo, una felice saldatura fra i principi della green Economy e quelli dell’economia circolare, fin dal suo primo comparire sia nel linguaggio della politica che in quello della Scienza, sembrando tuttavia pienamente condivisibile quanto sostenuto acutamente in dottrina[12], ossia che l’economia circolare non si risolve ed esaurisce nella disciplina dei rifiuti, essendo non solo questo, ed anzi essendo ben altro.

Sembra, anzi, che il punto di vista appena esposto possa essere efficacemente avallato dalla definizione forse più usuale e corrente di economia circolare elaborata, come è ben noto, dalla Ellen MacArthur Foundation, pur riportato in forma oltremodo sintetica, in quanto può costituire un’utile base di ragionamento e di riflessione[13].

L’economia circolare è infatti: “… un termine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera.

L’economia circolare è dunque un sistema in cui tutte le attività, a partire dall’estrazione e dalla produzione, sono organizzate in modo che i rifiuti di qualcuno diventino risorse per qualcun altro. Nell’economia lineare, invece, terminato il consumo termina anche il ciclo del prodotto che diventa rifiuto, costringendo la catena economica a riprendere continuamente lo stesso schema: estrazione, produzione, consumo, smaltimento”.

Se questo è vero – e certamente questa, come ogni altra definizione, è sicuramente perfettibile – sembra possibile cogliere alcuni punti fermi, veri e propri elementi costitutivi che valgono a differenziare la nozione di economia circolare sia da quella di economia lineare (in modo netto e radicale, a ben vedere) sia da quella di economia verde della quale, come prima si accennava, sembra essere fattore di trasformazione, ed anzi di superamento.

La green Economy non è infatti – o se si preferisce non è consapevolmente tale – un modello relazionale che si prefigge di agire deliberatamente sui modi e sulle forme concrete della produzione e del consumo; ci dirà, ad esempio, che una centrale elettrica dovrà funzionare grazie all’energia eolica, ma forse non interviene direttamente sulla qualità e quantità dei materiali che debbono essere utilizzati per la sua realizzazione e messa in esercizio e neppure ci dirà forse che cosa ne sarà delle materie prime utilizzate, del possibile riutilizzo degli scarti e dei rifiuti e dei materiali nobili, ecc. Ossia, per meglio dire, questa nostra centrale non sarà stata verosimilmente progettata in vista della riduzione dei rifiuti, del recupero, del riuso e del riciclaggio di tutto quanto appare come oggettivamente recuperabile e riutilizzabile.

L’economia circolare, invece, in quanto modello economico a carattere rigenerativo, si materializza come la forma economica della progettazione consapevole e responsabile, rifugge dall’idea che i prodotti destinati al consumo (giust’appunto consapevole e responsabile) siano, per così dire, ad obsolescenza programmata, ipotizzando al contrario il recupero e il riuso, totale o parziale, dei materiali nobili, e delle materie prime, già utilizzati in vista del raggiungimento di un obiettivo finale, ben sintetizzato dalla formula zero Waste.

Se questo è vero, è forse possibile supporre (e davvero soltanto supporre) che l’economia c.d. lineare e in parte la stessa green Economy, che della prima già rappresenta comunque un’importante correzione, siano comunque in piena (o quasi piena) sintonia con i principi e con le regole del mercato, e più esattamente di un’economia di mercato avvertita, pensata e soprattutto culturalmente costruita come incondizionatamente libera ed aperta in quanto capace di svolgersi in un contesto caratterizzato dall’illimitatezza delle risorse naturali, essendo quindi fuor di luogo gli impacci e i condizionamenti che le preoccupazioni e le cautele delle policies francamente orientate in difesa dell’ambiente potrebbero frapporre[14]. E in ciò non vi è naturalmente nulla di male, in se stesso, trattandosi di orientamenti e indirizzi politico-culturali ben noti, del tutto palesi quando si tratti dei modelli di economia lineare, e anzi presenti, quantomeno sotto traccia, anche nelle opzioni e nelle scelte di politica economica riconducibili alla c.d. economia verde.

Si vedrà anzi, nel prosieguo del lavoro, che uno degli elementi forti e caratterizzanti della green Economy, ossia il fatto di sostenere e incentivare le scelte “verdi” grazie alla messa di campo di una serie ampia e variegata di misure di ausilio economico in favore delle imprese “virtuose”, così da alterarne la convenienza comparativa delle scelte, passa tutto sommato a piè pari anche nei modelli di economia circolare che possono essere considerati. Il che, come meglio si vedrà, sembra costituire una sorta di costante sistemica, ossia un fattore stabile, e soprattutto determinante, se si vuole incidere sul nucleo duro dei modelli di economia lineare favorendone l’evoluzione e la trasmigrazione verso la green Economy e oggi, soprattutto, lungo i sentieri dell’economia circolare[15].

Ciò che pare in qualche modo utile, ed opportuno, segnalare è che i modelli dell’economia lineare, e in parte della stessa economia verde, sono correlati e funzionali a sistemi economici aperti, contraddistinti da una sorta di ottimistica fiducia circa il carattere illimitato delle risorse naturali disponibili e, pertanto anche circa la capacità autorigenerativa del nostro pianeta (la c.d. resilienza) laddove l’economia circolare ci rappresenta sistemi chiusi, nel contesto dei quali la scarsità delle risorse naturali viene gestita secondo l’ottica del massimo risparmio e del massimo recupero e riuso possibile.

Ovverosia, l’economia circolare (secondo quanto disvela il riferimento stesso alla figura geometrica del cerchio) è, per così dire, Cradle to Cradle, è l’economia di un mondo chiuso, chiuso per necessità, pena la sua scomparsa, e in quanto “economia dell’astronave”[16] supera e soppianta, in questo modo, l’economia del Cowboy.

2. Una prima riflessione, dal punto di vista del diritto (rectius, del diritto positivo, ma non solo!), spinge ovviamente a tentare di individuare, per categorie, i problemi, e soprattutto le aree disciplinari relativamente alle quali il tema dell’economia circolare ha assunto (o sta per assumere) un’importanza tanto vitale quanto rilevante e palese ictu oculi.     

Si è già detto che l’economia circolare non si risolve certamente nelle discipline (di fonte europea come nazionali) in materia di rifiuti[17], ma, comunque dai rifiuti è giocoforza partire. E pour cause, verrebbe da dire, in quanto, anche sul piano meramente pratico ed empirico, le problematiche, spesso drammatiche, della raccolta, della messa in sicurezza, dello smaltimento ecc., e dunque della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani, in vista del loro possibile riciclaggio, del loro recupero e riuso sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso tema della pulizia delle strade è strettamente correlato al problema generale della raccolta e gestione dei rifiuti, a ben vedere. E se poi si passa dai rifiuti non pericolosi a quelli pericolosi allora le difficoltà e criticità di un campo disciplinare di vitale importanza per la nostra vita quotidiana crescono in misura esponenziale quasi a confermare tutti i guasti e le oggettive problematicità dei modelli, tuttora dominanti in epoca di mondializzazione, di economia lineare.

Il che, ossia il fatto che i rifiuti debbano costituire “il punto logico di partenza”, e non di arrivo comunque, di ogni discorso sull’economia circolare sensato e concreto che voglia fondarsi su dati di realtà (e cioè su fattori di diritto positivo e, naturalmente, di valore economico-sociale) è sicuramente dimostrato dal semplice fatto che è proprio in questo campo che l’Unione europea è intervenuta con una certa sollecitudine e anche con alcuni risultati non privi di pregio[18].

D’altro canto è su questo stesso terreno che si sono mosse abbastanza per tempo associazioni ed organizzazioni di diritto privato, impegnate nel campo della protezione dell’ambiente, proponendo una radicale rimodulazione dei valori correnti (correnti, e anzi tralatizi, sul piano culturale), facendo ad esempio leva sulla politica delle quattro A, nell’ottica della riduzione, del riciclo, del recupero e del riuso dei rifiuti stessi[19].

A conferma di ciò, ossia del fatto che la disciplina dei rifiuti costituisce, del tutto oggettivamente, “il punto logico di partenza” di ogni discorso e riferimento giuridico al tema dell’economia circolare, senza tuttavia esaurirlo, vale la pena di ricordare da subito i numerosi problemi e i tanti interrogativi posti dai c.d. sottoprodotti (ad esempio dalle terre e rocce da scavo) nonché dalle c.d. materie prime secondarie[20]. E cioè il vivace dibattito, verosimilmente non ancora giunto ad un definitivo punto d’arrivo, intorno alla categoria giuridica alla quale ascrivere i residui di particolari lavorazioni e cicli produttivi (del marmo di Carrara, della pietra di Luserna, in genere dei resti e residui dei materiali da estrazione, ecc.) mette bene in evidenza come e perché, e con quali conseguenti ricadute disciplinari, un certo bene possa essere ricondotto alla disciplina dei rifiuti oppure a quella di beni dei quali è predicabile un’ulteriore utilizzazione economica[21].

Sembra anzi possibile supporre, rebus sic stantibus, alla luce della stessa giurisprudenza, sia europea che nazionale, in materia di sottoprodotti e di materie prime secondarie[22], che se la disciplina in tema di rifiuti ha rappresentato, e tuttora rappresenta, il “punto logico di partenza” di ogni discorso relativo all’economia circolare, essa ne fa egualmente risaltare le antinomie e le contraddizioni di ordine sistemico alle quali si sta tuttavia cercando ora di porre rimedio[23].

E’ forse sufficiente, sotto questo riguardo, una mera constatazione: l’economia circolare è per così dire ispirata da principi forti che portano a declinare un fondamentale obiettivo, ossia quello di una politica volta a raggiungere il seguente risultato: zero Waste, ossia i rifiuti non esistono, non debbono esistere in quanto rifiuti, tutto essendo recuperabile, riusabile, riutilizzabile, ecc. finché una certa materia e/o materiale possa essere considerato e apprezzato come fisicamente esistente.

Al contrario, alla luce delle norme esistenti, seppure in via di cauta riformulazione[24], un certo bene non sarà rifiuto in senso tecnico, con tutto quanto ne segue, solo quando ne appaia agevole, o comunque probabile e anzi certo, il successivo riutilizzo secondo regole e valori apprezzabili sul piano economico[25]. Come per dire che il rifiuto in quanto tale non produce, per definizione, ulteriore ricchezza, non è cioè una risorsa in senso proprio, e “a prescindere”, a meno che non ne venga accertata e dimostrata la possibile riutilizzazione supportata dal vantaggio economico che se ne ricava. Il che è francamente ben poco in linea con i fondamenti dell’economia circolare, la quale, in quanto economia “chiusa” (ossia “economia dell’astronave”), postula una serie pressoché illimitata di recuperi e riutilizzi dei rifiuti e degli “scarti” della società dei consumi, in quanto né di scarti né di rifiuti si tratterebbe ma, esattamente al contrario, di risorse oggettivamente apprezzabili dal punto di vista economico.

Ora, senza nulla togliere alla collocazione davvero centrale e strategica della disciplina in materia di rifiuti, e mettendoci sulla stessa lunghezza d’onda degli indirizzi ed orientamenti dell’Unione Europea[26], si possono ricordare gli altri campi tematici intercettati, quindi selezionati, sia nel primo che nel secondo “pacchetto” sull’economia circolare elaborato dalla Commissione Europea.

Secondo un ordine (non gerarchico) si possono rammentare le seguenti aree problematiche:

a)      gli appalti verdi;

b)      l’impronta ecologica;

c)      la riparabilità dei beni e prodotti di consumo relativamente ai quali deve essere fortemente contrastata la filosofia di valori oggi dominante che ne predica l’obsolescenza programmata;

d)     lo Sharing, ossia la messa in campo di regole, principi e valori di un’economia della condivisione;

e)      la plastica, come problema che ci riporta sì al tema dei rifiuti ma che si evidenzia comunque in tutta la sua drammatica peculiarietà;

f)       i rifiuti alimentari, con i temi connessi dello spreco degli alimenti in un contesto globale caratterizzato dal mai risolto problema della fame nel mondo[27].

Ognuna delle aree tematiche appena riportate, ed esattamente considerate – dai “pacchetti” della Commissione Europea così come nei documenti programmatici del nostro ministero dell’ambiente[28] – e sia nel loro autonomo rilievo che per loro reciproche interconnessioni, rinvia, del tutto intuitivamente, all’economia circolare.

Su ognuna di esse sono già stati versati fiumi d’inchiostro, magari abbordandola da differenti angoli visuali (per il campo dei contratti pubblici e relativamente alle tematiche della sicurezza alimentare oltre che – ovviamente – in riferimento alla disciplina dei rifiuti, ecc.).

E, su ognuno dei suddetti campi disciplinari sarebbe naturalmente possibile contribuire a ulteriormente mettere in luce gli angoli più riposti o problematici di una certa disciplina[29].

Ci si può comunque limitare ad alcune considerazioni davvero generali, salvo riprendere in seguito alcuni temi e problemi di maggior dettaglio.

Sembra anzitutto importante segnalare quello che si manifesta, a tutti gli effetti,  come un “peccato” di tipo omissivo: non viene prestata adeguata attenzione al tema delle energie da fonte rinnovabile, e cioè ex professo, ossia tematizzandolo in tutta la sua autonoma rilevanza, da un lato, ma soprattutto mettendolo in sintonia virtuosa, dall’altro lato, con gli obiettivi e le finalità dell’economia circolare. E, in questo modo, sembra essere riproposta quella linea di confine, invero sottile ma comunque non agevolmente superabile, che divide e separa le politiche ambientali da quelle nel settore dell’energia, a cominciare dal diritto originario dell’Unione Europea[30].  

Eppure, secondo quanto ci rammenta tutta l’evoluzione della disciplina relativa all’energia, e segnatamente per le centrali a turbogas, ossia a ciclo integrato[31], principio fondamentale della materia è sicuramente il risparmio energetico, che deve essere ottenuto grazie alla messa in campo di una serie di comportamenti virtuosi tecnicamente affidabili: il risparmio in quanto tale e la trasformazione/recupero dei fattori produttivi, dal calore all’energia elettrica con il successivo e finale dispacciamento di teleriscaldamento e/o teleraffreddamento[32]. E questo è certamente un ragionamento “circolare”, che non può essere archiviato come accidentale o causale, soprattutto se ne viene contestualizzata, nel tempo e nello spazio, la ratio fondativa in quanto nasce e prende piede dopo la (relativa) fuoriuscita dal nucleare e in conseguenza del deficit energetico che pesava negativamente sul nostro sistema paese[33].

A ciò si aggiunga che la mancata espressa ambientazione del tema delle energie rinnovabili nel contesto dell’economia circolare rischia di lasciare in un cono d’ombra la problematica, attualissima, delle smart Cities e delle smart Communities, non essendo oggi pensabile nessuna città (o comunità) razionale che non sia adeguatamente progettata e strutturata secondo i canoni e principi dell’economia circolare[34].

Ritornando ai temi e settori selezionati in modo forte e consapevole, sia nei “pacchetti” dell’Unione Europea che nei documenti programmatici del nostro governo relativi all’economia circolare, paiono opportune alcune ulteriori, e semplici, considerazioni di sintesi.

I punti focali opportunamente messi in evidenza possono essere ricondotti, a quel che pare, a due fondamentali categorie, dal punto di vista del diritto (e non solo, in verità).

Si considerano infatti, da un lato, e vengono problematizzati secondo l’ottica dell’economia circolare, alcuni campi disciplinari e settori da sempre reputati rilevanti, e anzi strategici, da parte del nostro sistema multilivello, sebbene da tutt’altro angolo visuale; altri settori e campi disciplinari di più recente emersione vengono invece, dall’altro lato, direttamente ambientati nel quadro degli obiettivi finali dell’economia circolare, sebbene anche altre finalità, un’altra mission appaiano, in alcuni casi, abbastanza palesi, e persino scontate.

Così è per la materia dei contratti pubblici, e segnatamente dei c.d. appalti verdi (sia nelle fonti del diritto UE che per la traduzione che ne viene fatta nel nostro codice degli appalti); e così è egualmente, per tutto quanto già visto, per il rifiuti, comprensivi, a ben vedere, della plastica stessa, della quale si vorrebbe incrementare il riciclaggio (oltre che un uso più contenuto a monte) in un’ottica di circolarità virtuosa.

Un caso a sé stante è sicuramente quello dei rifiuti alimentari[35], in quanto sono coinvolti problemi colossali sia del nostro vivere quotidiano (dalla sicurezza alimentare allo spreco inammissibile del cibo) sia del mondo globalizzato: la fame nel mondo, e dunque la contrazione delle aree dedicate alla coltivazione ed all’allevamento in uno con la crescita esponenziale dei flussi migratori verso i paesi economicamente più sviluppati[36].

Se questo è vero, paiono invece in qualche misura nuovi ed originali, o comunque direttamente elaborati e pensati in connessione con gli obiettivi finali della blue Economy, la riparabilità, lo Sharing e l’impronta ecologica.

La riparabilità è infatti l’esatto contrario di quanto l’economia lineare ci ha abituato a pensare. All’equazione tradizionale “prendere, produrre, buttare” si vorrebbe infatti sostituire un sistema di valori (e di comportamenti positivi) incentrato sull’ecoprogettazione, sulla progettazione rigenerativa, nel senso non vi sarebbero, quasi per una specie di automatismo del destino, prodotti e beni di consumo ad obsolescenza programmata (e comunque non riparabili), ma esattamente al contrario oggetti che, anche in ragione di una diversa progettazione a monte e della loro riparabilità a valle, sarebbero destinati ad una maggiore durata nel tempo.

Impossibile non cogliere, sotto questo riguardo, pur nel quadro di orientamenti e suggestioni a carattere programmatico, il cambio di passo, e dunque la forte discontinuità che si vorrebbe avviare rispetto al tradizionale modello lineare. Ed è egualmente impossibile non cogliere una certa, positiva sintonia di siffatto modo di ragionare (e di progettare il futuro, un futuro sostenibile) con il punto di vista di chi[37] mette in luce i limiti del c.d. paradigma meccanicistico, tipico e proprio dell’economia lineare, contrapponendogli, come imperativo categorico dell’oggi (e del prossimo, non differibile futuro), il paradigma ecologico e sistemico del mondo come rete.

Del tutto innovativo è il concetto di “impronta ecologica”, tale essendo quell’indicatore che “… misura la porzione di terra e di mare necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana”, e cioè quel criterio/valore grazie al quale si stima “il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della terra di rigenerarle”[38].

Si tratta certamente di un enunciato di grandissimo rilievo sul piano etico-filosofico, tanto suggestivo quanto non agevolmente traducibile, tuttavia, in proposizioni e concetti di sicura affidabilità sul piano giuridico. Ciò nondimeno è proprio nell’idea, o se si vuole, nell’immagine sfocata, non esattamente nitida di “impronta ecologica” che noi troviamo il nucleo duro del concetto di economia circolare, in quanto economia della sopravvivenza, ossia della responsabilità: del futuro sostenibile, e non soltanto dello sviluppo, esso stesso durevole e sostenibile, perché l’umanità, e anzi tutti gli esseri viventi, si collocano in un contesto spaziale caratterizzato dalla limitatezza delle risorse, non avendo a nostra disposizione un pianeta di riserva.

E, infine, lo Sharing, concetto con il quale si vuole contrassegnare l’economia della condivisione (il car sharing, ma non solo!), nell’ottica del risparmio delle risorse, in vista soprattutto dell’abbattimento dei livelli di inquinamento (atmosferico, acustico, ecc.) e del volume complessivo dei rifiuti.

3. Dalla rassegna di sintesi or ora abbozzata, del resto ampiamente avallata sia dai documenti elaborati dall’Unione europea che da un ambizioso documento del nostro ministero dell’ambiente costruito a sua volta sulla scia di quelli di fonte UE[39], è possibile ritrarre, da un alto, una conferma e, dall’altro lato, cogliere alcuni non secondari fattori di originale innovazione.

Il dato scontato e confermato (“il punto logico di partenza”, come si è detto) è che ogni possibile discorso circa l’economia circolare che voglia essere realistico e concreto prende necessariamente le mosse dal settore dei rifiuti; e la novità, di ordine davvero sistemico, è che l’approccio al circolare è globale, olistico, in quanto o il “paradigma meccanicistico” viene interamente rimesso in discussione, promuovendosi in questo modo il “paradigma ecologico” (ossia “il mondo in rete”), oppure i risultati e i miglioramenti, quando pure ci siano, si riveleranno sempre settoriali e parziali, se non addirittura transitori ed effimeri.

Ma il vero elemento di novità che ora appena traspare, magari sotto traccia, ora si disvela invece in tutta la sua corposa importanza è che ogni policy nel campo dell’ambiente, e per la tutela dell’ambiente, non può essere progettata e messa in campo come una politica dello Stato, dello Stato soltanto, prima regolatore e poi controllore, secondo il noto e collaudato modello del command and control.

Tutto ciò è probabilmente necessario (e magari persino auspicabile), oppure – se si preferisce – si tratterà sicuramente di uno degli elementi e fattori di un gioco più ampio e complesso[40], e cioè di una condizione verosimilmente necessaria, e tuttavia non sufficiente.

E per una semplice, e quasi banale, ragione: ossia perché il Mercato[41], con i suoi attori e protagonisti, entra quasi prepotentemente nella partita, nel senso che non solo non può esserne tenuto fuori ma anzi, in senso diametralmente opposto, è proprio il ruolo fattivo e virtuoso che viene chiamato a giocare a poter agevolare (con una contraddizione soltanto apparente) il passaggio dal paradigma meccanicistico a quello ecologico.

In tutti i settori di interesse per l’economia circolare si coglie infatti un tratto comune, sul quale sarà giocoforza ritornare nelle conclusioni di questo lavoro: nelle politiche che debbono essere messe in campo per facilitare la pur lenta transizione dal modello economico lineare a quello circolare, il ruolo giocato dagli operatori privati (ossia dalle imprese) appare non solo ipotizzato ma anzi fortemente incentivato. E non solo, nel senso che non si tratta di una chiamata alle armi fine a se stessa: il passaggio dal modello lineare a quello circolare deve risolversi infatti in una serie (importante) di vantaggi economici per le imprese, e dunque per le economie nazionali, sotto ogni più rilevante profilo: dall’abbattimento dei costi di produzione di beni e servizi fino all’incremento dei livelli occupazionali.

E la protezione dell’ambiente sarà in questo modo più agevolmente assicurata, per così dire in conseguenza dell’alleanza virtuosa tra lo Stato regolatore, con i suoi compiti ed obiettivi, ed il Mercato che diverrebbe in questo modo l’attore, e anzi il fattore privilegiato e soprattutto protagonista, di una nuova etica degli affari.

Anche sotto questo riguardo sarà poi necessaria, nel prosieguo del lavoro, la messa a punto di qualche spunto di riflessioni in qualche modo critico.

Limitiamoci, per ora, ad una prima considerazione.

L’economia circolare (ri-)propone l’antico, e mai sopito, problema del rapporto, ora cooperativo e virtuoso ora conflittuale, fra lo Stato e il Mercato, e si può forse dire fra le pubbliche amministrazioni, la cui mission è (anche) volta al controllo delle attività economiche, e il Mercato le cui pulsioni centrifughe sono a tutti ben note, soprattutto sugli scenari della mondializzazione[42].

Se questo è vero, al punto da costituire, verosimilmente, una costante sistemica delle dinamiche evolutive delle complesse relazioni pubblico/privato (rectius, fra le istituzioni pubbliche ed il mercato, e dunque, oggi, fra economia ed ecologia), il mondo dell’economia circolare fa entrare nel dibattito, della politica e della cultura, in modo diretto ed immediato, e forse persino urticante, ma con un approccio crudamente realistico, un elemento davvero cruciale: il tema del vantaggio economico, della convenienza per le imprese ad assumere comportamenti ambientali eticamente corretti, alla luce della (non banale) constatazione che economia ed ecologia hanno la stessa radice etimologica[43].

E vale forse la pena di precisare che i comportamenti virtuosi, e dunque la cultura “circolare”, sono positivi “a prescindere”, e cioè in quanto tali, quando pure siano assunti in vista del mero (o esclusivamente per il) raggiungimento di obiettivi e risultati apprezzabili in quanto forieri di vantaggi economici.

L’economia circolare è figlia, in altre parole, delle concezioni e delle dottrine di un’ecologia pratica e semplificata (la shallow Ecology), o comunque con tali concettuologie finisce col saldarsi, anche se gli studiosi che per primi ne hanno costruito e teorizzato gli elementi fondativi hanno sicuramente privilegiato un approccio di tipo più radicale, in sintonia con le dottrine della deep Ecology[44].

Sembra a questo punto possibile un primo spunto di riflessione, o meglio una domanda la quale, dal punto di vista del diritto, non sembra essere irrilevante: ma quale sarà la base giuridica su cui fondare in termini (almeno parzialmente) vincolanti, o quanto meno incentivanti, una policy, europea e nazionale, capace di alterare la convenienza comparativa delle scelte (delle imprese e dei consumatori) onde orientare i fondamentali attori del mercato verso pensieri, ideologie e pertanto scelte ed opzioni di tipo circolare?

Il tema è tanto semplice quanto, tuttavia, non eludibile perché l’assunzione di comportamenti consapevolmente circolari presuppone un radicale cambio di passo, ossia un “cambiamento di mentalità”, e – si sa! – si tratta sempre di processi, lenti faticosi, contraddittori e, molto spesso, di esito incerto.

Oltre tutto, se alcuni processi di cauto e progressivo passaggio all’economia circolare debbono essere necessariamente avviati e governati dai decisori collettivi pubblici (rifiuti, sicurezza alimentare, ecc.) altri ben possono essere introdotti e gestiti direttamente dagli operatori economici (il car Sharing, per esempio), senza nulla togliere, ovviamente, alla opportunità e/o necessità di un quadro di regole codificate in via normativa e alla possibile incentivazione, nelle forme note della detassazione e dell’erogazione di sussidi economici all’impresa, delle attività economiche che si vogliano mettere in campo.

In questo senso, per apprezzare sino in fondo le difficoltà, oggettivamente enormi e forse non agevolmente calcolabili ex ante, di ogni processo virtuoso orientato ad incrementare il tasso di circolarità di un sistema economico (sia che ciò sia tentato con strumenti di hard Law che di soft Law), è sufficiente pensare all’obiettivo della “riparabilità” dei beni e prodotti di consumo a carattere durevole, fortemente enfatizzato in tutti i documenti sia di fonte europea che nazionale.

Ora, tutto ciò, ossia il fine di limitare quanto più sia possibile i prodotti e i beni ad obsolescenza programmata, si rivela come un obiettivo tanto nobile e non rinunciabile, da un punto di vista circolare, quanto tuttavia di non agevole raggiungimento.

E, infatti, la riparabilità dei beni e prodotti, anche in vista del recupero di tutti quei materiali nobili suscettibili di successivi riusi, presuppone la compresenza di più elementi strutturali, in quanto propri del processo produttivo: ad esempio una più corretta ecoprogettazione del prodotto affinché sia meno complicato lo smontaggio del prodotto stesso, e quindi la separazione dei suoi elementi e componenti costitutivi in vista della loro (illimitata?) riutilizzabilità.

E poi, se di riparabilità si tratta, chi sarà davvero in grado di “aggiustare” un certo bene, ad esempio un televisore, un cellulare, o quant’altro sia presente sul mercato in quanto bene di largo consumo?

In altre parole, e senza che a tale interrogativo sia possibile dare una riposta davvero certa e affidabile, la (illimitata?) riparabilità dei prodotti e beni di consumo presuppone una certa catena virtuosa di competenze e di intelligenze perduranti nel tempo, ossia la piena operatività della rete degli antichi mestieri grazie ai quali abilità e conoscenze pratico-teoriche, anche a carattere artigianale, possano entrare nel gioco intervenendo, in questo modo, nei processi di manutenzione/conservazione riparabilità dei gadgets e degli oggetti del nostro consumo quotidiano (e non solo). 

Si arriva con ciò ad un punto di snodo di un certo rilievo.

Se, infatti, è sicuramente fuor di dubbio che il venir meno degli antichi mestieri (l’elettricista, l’idraulico, il falegname, ecc.), ovviamente rinnovati in sintonia con l’evoluzione della scienza e della tecnologia, e così egualmente la messa in campo non adeguatamente finalizzata di nuove abilità e competenze (nell’informatica, nelle nanotecnologie, nelle biotecnologie, ecc.) renderebbero del tutto vana ogni politica volta a contrastare l’obsolescenza programmata dei beni e prodotti di consumo della “società opulenta”[45], è del pari evidente che, dal punto di vista del diritto, è comunque un altro il tema (e il problema) con il quale siamo chiamati a misurarci.

E, infatti, proprio ricordando il catalogo dei settori sensibili già passati in rassegna (dai rifiuti ai contratti verdi, ecc.), l’impressione che in qualche modo si ritrae da tutto il dibattito sull’economia circolare, in vista della messa a regime di un pur elementare e provvisorio decalogo di principi, di regole e di regolarità rilevanti sul piano giuridico, è che troppo spesso si proceda “navigando a vista”. Ovverosia, con un approccio troppo scopertamente empirico (e talora persino estemporaneo) non adeguatamente supportato da principi, e cioè da principi forti, capaci di manifestarsi come un punto logico di non ritorno, dopo aver preso le mosse dal “punto logico di partenza” (e cioè la disciplina in materia di rifiuti, come si è visto), e in quanto tali idonei a conformare, sul terreno dei “valori”, le policies, generali e settoriali, dirette ad orientare in senso circolare i processi economici della contemporaneità.

Se questo è vero, allora una buona domanda potrebbe essere forse la seguente: ma questi principi sono già presenti ed operanti del nostro sistema multilivello delle fonti, magari sotto traccia, ma comunque ben suscettibili di una piena operatività?

Oppure, questi principi non ci sono, o sono così deboli da risultare a tutti gli effetti non spendibili sul piano del diritto, dovendo pertanto confidare nell’ennesimo “colpo d’ala” del diritto dell’ambiente, e cioè nella sua straordinaria capacità maieutica e conformativa, soprattutto allorché sia necessario mettere in campo un apparato nuovo ed originale di regole e principi[46]?

La domanda non è, francamente, di poco conto, in quanto ogni empiria, per quanto accorta e intelligente, non porta molto lontano quando non sia legittimata, e dunque supportata, da principi sufficientemente chiari e pertanto affidabili.

4. E’ bene dissipare immediatamente alcuni equivoci: è fuor di discussione che le discipline specialistiche relative ai singoli e peculiari settori sensibili ci rappresentano, spesso alla stregua di veri e propri precipitati storici frutto della sapiente attività d’interpretazione di Corte di giustizia della UE, principi e regole materiali di settore (e solo di settore) i quali, proprio in forza della giurisprudenza europea, si manifestano come il momento più rilevante di un consolidato prodotto normativo che costituisce il diritto derivato dell’Unione europea.

Ogni indagine settoriale ci parlerà di questi principi, di questi regole: ad esempio in materia di rifiuti (ancora una volta), mettendo in luce il c.d. principio di prossimità in uno con quelli relativi al riuso, al riciclaggio, ecc. dei rifiuti stessi[47]; ed è del pari ben noto, esaminandosi la normativa relativa alle terre e rocce da scavo[48], che i principi e le regole che portano a selezionare e catalogare come sottoprodotti (anziché come rifiuti in senso proprio) i residui dell’attività di estrazione e lavorazione dei prodotti di base (il marmo, la pietra di Luserna, ecc., da cui residuano sfridi, crostoni, ecc.) danno ormai vita ad un corpus “normativo” sufficientemente ampio e stabilizzato, rebus sic stantibus.

E analogo discorso ci viene in genere proposto quando si affrontano i temi della sicurezza e, soprattutto, dello spreco alimentare, degli appalti verdi e delle energie da fonte rinnovabile, ecc.[49].

Il lavoro, sapiente e paziente, della giurisprudenza di Corte di giustizia ha fortemente contribuito, invero, alla costruzione di un sistema di principi settoriali, di regole e regolarità grazie ai quali le singole materie hanno trovato una sistematizzazione importante e, soprattutto, rigorosa. E anche da un punto vista “circolare” – a quel che pare – nel senso che molto spesso il punto di vista del risparmio delle risorse naturali così come quello del loro riciclo e riutilizzo viene abbastanza consapevolmente assunto come il necessario quanto logico punto di partenza di ogni policy destinata ad impattare positivamente sull’ambiente, secondo quanto traspare dalle singole normative, a cominciare dai considerando delle direttive dell’Unione Europea[50].

E, tuttavia, la rilevazione dei principi settoriali e per materia (così come delle regole e delle regolarità materiali) è per così dire la condizione necessaria, ma non sufficiente, per avviare un pur iniziale, e provvisorio, discorso intorno alla legittimità e alla legittimazione dell’economia circolare, e segnatamente in merito al passaggio, che viene coerentemente caldeggiato, dal modello economico lineare a quello circolare. Condizione (o, meglio, pre-condizione) che, in verità, non ci fa ancora intravedere i rami alti del sistema multilivello, ossia quei principi che sono dell’ordinamento generale (e non soltanto, eventualmente, di ordinamenti e sottosistemi speciali e/o sezionali) e che in quanto tali dovrebbero essere capaci di conformare il sistema, ossia il Sistema giuridico nella sua complessa e più generale fisionomia e struttura[51].

Il tema non è né astratto né di poco conto, se è vero, come da più parti viene suggerito, che la transizione dal paradigma meccanicistico (e dunque dalla brown Economy) a quello ecologico (e pertanto alla blue Economy) comporta una sorta di rivoluzione copernicana o, quantomeno, un radicale cambio di passo, in primo luogo nelle coscienze, nella cultura, e dunque nelle sensibilità degli individui e delle collettività che vivono sul pianeta, nell’unico pianeta a nostra disposizione.

E’ proprio collocandoci su questa direzione di marcia che il tema dei principi – dei principi di legittimità e di legittimazione dei processi che si vogliono favorire – risalta in tutta la sua valenza strategica, tanto più manifesta e rilevante quanto più elevati ed ambiziosi siano gli obiettivi in gioco.

Il che non è certo meno importante quando si vogliano perseguire risultati apparentemente più modesti (oppure intermedi, step by step), seguendo i canoni strategici della shallow Ecology, anziché quelli più radicali della deep Ecology[52], in quanto che la ricerca dei principi alti e condivisi, di legittimità e di legittimazione di scelte comunque “tragiche”, costituirà pur sempre un’operazione tanto necessaria quanto, soprattutto, irrinunciabile.

In questo quadro, è senz’altro vero che larga parte dei principi più generali posti a presidio delle politiche per la tutela dell’ambiente trae origine dal diritto internazionale così come non è certo revocabile in dubbio il fatto che questi stessi principi si siano agevolmente collocati e ambientati nel contesto “regionale” e domestico dell’Unione Europea e successivamente, con importanti operazioni di cross fertilisation, negli ordinamenti nazionali degli Stati membri della UE[53].

Sicché, è in qualche misura tanto necessario quanto sufficiente far riferimento ai principi, ormai consolidati, dei trattati istitutivi dell’Unione Europea per avere il “polso della situazione”, e cioè per poter verificare se e come vi siano alcune norme del diritto originario della UE atte a costituire una base giuridica adeguata su cui fondare le policies (dell’Unione e dunque degli Stati membri) che dovrebbero agevolare il passaggio dal modello economico lineare a quello circolare.

In questa prima fase di costruzione di un progetto di transizione, dal paradigma meccanicistico a quello ecologico, è forse vano interrogarsi circa il carattere precettivo, oppure meramente programmatico, delle norme in quanto il problema è, in primo luogo, proprio quello di accertare se tali norme vi siano, essendo rilevante solo in un momento successivo il poterne testare la valenza e il significato sul piano dell’effettività.

Il richiamo ai principi, e soprattutto agli obiettivi di un’economia “chiusa”, ossia  circolare, avviene, per così dire, in ordine sparso, e soprattutto in modo leggero (e quasi inconsapevole!), a conferma del fatto che quelli che potrebbero rivelarsi come i segni di una trasformazione epocale del nostro stesso modo di vivere e di rapportarci al nostro pianeta (alla “madre terra”), sono intercettati ed inglobati quasi per implicito, se non addirittura come semplici (ma non irrilevanti) clausole di stile del nostro lessico giuridico.

Così è per l’affermazione, tanto impegnativa quanto significativa sul piano etico-politico, di cui all’art. 191, primo paragrafo, del TFUE, là ove, nel declinare gli obiettivi verso cui debbono tendere le policies europee nel settore dell’ambiente, si afferma che scopo e fine di tali politiche è (anche) la “utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali”.

Secondo quanto appena detto non vale certo la pena di interrogarsi circa il valore tecnico-giuridico di tale posizione di principio, sicuramente a carattere eminentemente programmatico, ma non ne deve essere neppure svilito o sottovalutato il suo più rilevante profilo dal punto di vista dell’etica pubblica. E infatti l’etica pubblica non coincide, sempre e necessariamente, con quella degli affari e dunque, al confronto delle tante ideologie e suggestioni che assumono come dato assoluto e incontrovertibile la (supposta e celebrata) illimitatezza delle risorse, mettendo in discussione fatti ed eventi che paiono fondati su evidenze certe (il riscaldamento globale, ad esempio)[54], l’affermazione, piana e pacifica, che le risorse naturali non sono, in realtà, illimitate, dovendosene invece progettare l’uso “accorto e razionale”, non è verosimilmente di poco conto.

E’ anzi vero l’esatto contrario sebbene non sarà certo su tale disposizione che potrà essere fondata una mission dell’Unione Europea con l’obiettivo di invertire, per così dire, la direzione di marcia, quasi nell’ottica di una decrescita controllata e programmata[55]. Il principio-obiettivo in parola, deve essere pertanto considerato soprattutto come un segnale (importante) in quanto si mette in movimento una dinamica evolutiva capace, eventualmente, di determinare un vero e proprio cambio di passo sul terreno istituzionale e, in primo luogo, culturale.

Principi sicuramente di maggior peso e rilievo giuridico sono poi, del tutto ovviamente, quelli codificati nel secondo paragrafo del cit. art. 191 del TFUE, sui quali sono stati ormai versati fiumi d’inchiostro[56].

Non è questa ovviamente la sede nella quale riprendere il discorso in merito ai principi della tutela preventiva e di precauzione e neppure su quelli relativi alla correzione in via prioritaria alla fonte dei danni all’ambiente “nonché sul principio chi inquina paga”[57].

E tuttavia un dato di valore sistematico deve essere utilmente intercettato e in qualche misura posto al vertice delle nostre riflessioni in quanto finisce col configurarsi come una vera e propria costante sistemica, e dunque come un punto di non ritorno idoneo a fondare ogni più rilevante policy nel campo della protezione dell’ambiente, anche la più severa.

Dall’insieme dei principi declinati dalla norma in questione emerge infatti un dato di sistema di valore generale: le politiche (europee e nazionali) dirette ad implementare, in termini di effettività, la tutela dell’ambiente sono (rectius, debbono essere) innanzitutto a carattere preventivo, ossia capaci di prevenire il danno ambientale, o comunque di correggerlo prioritariamente alla fonte, in quanto che il ristoro patrimoniale del danno all’ambiente (“nonché” the Polluter pays!) si disvela come una misura di extrema ratio, allorché nulla di meglio e di più possa essere messo in campo[58].

E, se questo è vero, e senza che vi sia necessità di ulteriori commenti, sarebbe ben possibile fondare su questo principio, ossia sul principio-obiettivo della tutela preventiva, corroborata dalla regola precauzionale, ogni più rilevante progetto e programma di blue Economy. La circolarità dei processi economici è implicata, infatti, quasi per definizione, per una specie di automatismo virtuoso, con il principio della tutela preventiva: a cos’altro mirano, infatti, per limitarci ad un solo esempio, le politiche nel settore dei rifiuti, dalle quali obiettivamente prende le mosse il dibattitto sull’economia circolare, se non a controllare già a monte ogni step procedurale del ciclo dei rifiuti, dalla selezione delle materie prime che entrano in un certo ciclo produttivo, dal punto di vista della loro maggiore sostenibilità ambientale, fino alla tecniche e procedure di stoccaggio, smaltimento e recupero funzionale in funzione del loro riutilizzo?

Il principio-obiettivo della tutela preventiva è capace di operare, in altre parole, a 360 gradi e si rivela comunque pienamente idoneo a fondare, in termini di legittimità e di legittimazione, una diversa progettazione del ciclo economico, nella direzione di una maggiore circolarità. E si tratta, anzi, del principio la cui piena messa in campo potrebbe verosimilmente favorire quel cambio di passo (a carattere culturale anzitutto) che viene da più parti invocato per dare forma e sostanza alla blue Economy.

E veniamo adesso ad un principio, ancora una volta fortemente affermato dai Trattati istitutivi dell’Unione europea e, comunque, già fortemente radicato, da tempo, nel diritto internazionale.

Si tratta, ovviamente, del principio di integrazione, nella prospettiva della promozione dello sviluppo sostenibile, sul quale sono stati egualmente versati fiumi d’inchiostro[59].

La formula, ormai tralatizia, riproposta oggi dall’art. 11 del TFUE, è ben nota nel senso che “Le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”.      

E tale formula è sicuramente importante, di enorme rilievo, sebbene il concetto di “sviluppo sostenibile” (al confronto del più evoluto e maturo principio-obiettivo definibile come futuro sostenibile) presenti irrisolti margini di ambiguità, sembrando quasi uno “slogan fortunato”, o poco più[60].

Ad ogni buon conto, è comunque il principio di integrazione in senso proprio, sia pure per la realizzazione di un obiettivo (lo sviluppo sostenibile che non pare agevolmente individualizzabile, e forse addirittura limitativo rispetto alle letture in chiave ecologica maggiormente aggiornate) quello che sembra poter giocare un ruolo davvero fondamentale, se correttamente inteso, e soprattutto applicato a regime nelle politiche concrete di settore.

Del tutto chiaro e fuor di discussione è il dato di partenza da cui prendere le mosse: in modo se si vuole enfatico, e con affermazioni di esclusivo (o preponderante) valore programmatico, è l’ambiente, con le sue “esigenze” – e dunque con la considerazione e con la protezione che gli debbono essere assicurate – ad essere collocato al centro del sistema di valori e di obiettivi che l’Unione, con le sue mille politiche di settore, deve comunque perseguire. E’ la protezione dell’ambiente, in altre parole, a dover costituire il collante delle tante politiche messe in campo dall’Unione, ossia il valore-obiettivo alla luce del quale le altre politiche debbono essere per così dire riprocessate, in vista della promozione di uno sviluppo che (a prescindere dalla limitatezza e insufficienza della formula) deve comunque risultare compatibile e sostenibile dal punto di vista ambientale[61]. Il che comporta che anche per quelle politiche di settore per le quali non vi sia traccia di un’espressa clausola di considerazione del valore-obiettivo della protezione dell’ambiente (così, invece, in modo palese e consapevole, all’art. 194 del TFUE, relativamente all’energia) dovrà essere comunque introiettato, come fondamentale valore di riferimento e di conformazione disciplinare, proprio l’esigenza di preservare e migliorare l’ambiente (cfr. nuovamente il cit. art. 194, primo paragrafo de TFUE).

Se questo è vero, dal punto di vista dell’economia circolare, della sua legittimità e della sua legittimazione, sembrano aprirsi scenari tanto suggestivi quanto profondi ed estesi.

Ogni discorso relativo, ad esempio, alla progettazione rigenerativa, e quindi alla selezione dei materiali che entrano come elementi e fattori costitutivi di un bene di consumo (e anche strumentale alla produzione di altri beni), e in genere il vivace dibattito relativo all’economia rigenerativa grazie alla quale vengono privilegiati quei componenti capaci di un minore impatto ambientale e, soprattutto, di positivo recupero, riciclo e riutilizzo, anche in vista del raggiungimento dell’obiettivo zero Waste, spingono infatti in questa direzione. Sicché si può ragionevolmente supporre che una costruzione più ragionata dei percorsi della circolarità in economia  potrebbe conoscere un nuovo impulso, e una più sicura legittimazione sul piano del diritto, proprio in virtù del principio di integrazione, grazie alla sua capacità di giocare a tutto campo, spingendo conseguentemente il legislatore (europeo e nazionale) a riprocessare secondo valori di circolarità i modi e le tipologie dei cicli produttivi.

5. Appare dunque in qualche modo fondata (o comunque giustificabile), in forza di una base giuridica sufficientemente adeguata, una policy, dell’Unione Europea nonché degli Stati nazionali, volta a favorire la riconversione in senso circolare del tradizionale paradigma meccanicistico, con la sua graduale transizione verso modelli maggiormente ecosostenibili. Gli stessi due “pacchetti” sull’economia circolare presentati dalla Commissione europea, ed ai quali si è già accennato, si muovono infatti lungo questa direzione di marcia.

E, tuttavia, si peccherebbe di ingenuità qualora si ritenesse in questo modo definitivamente chiuso il discorso come se altre, e non meno rilevanti, questioni non fossero invece ben evidenti e forse fin qui irrisolte, quasi angoli scoperti e talora  collocati in un cono d’ombra di un più generale problema che può essere forse così sintetizzato: ma in quale modo si pensa di orientare e sospingere il Mercato ed i suoi fondamentali attori (le imprese ed i consumatori) verso l’adozione di comportamenti consapevolmente circolari, con quali strumenti ed attivandosi quali procedure di controllo?

Se, come sembra essere incontestabilmente vero, la transizione verso i lidi virtuosi  della blue Economy presuppone un cambio di passo a carattere culturale, del resto già emblematicamente racchiuso nella stessa formula “futuro sostenibile” in luogo del glorioso (e forse vetusto) concetto di “sviluppo sostenibile”, si comprende allora come e perché le risposte che si daranno agli interrogativi appena posti saranno davvero di vitale importanza. Interrogativi e risposte a questi stessi che ci riportano ad un immagine, se si vuole ad un’idea che si materializza tuttavia in un progetto, in un modello in itinere al quale si è già accennato: quello della smart City (e della smart Community), della “prossima città”[62], intesa come spazio razionale nel quale i presupposti, i principi e le regole della circolarità trovano la loro più naturale ambientazione. 

Impossibile dire se il diritto dell’ambiente confermerà, anche sotto questo riguardo, la sua naturale vocazione di diritto-sonda, e cioè la sua straordinaria capacità di riuscire ad intercettare anzitempo problemi e questioni di nuovo conio, escogitando, e quasi inventando sul campo, risposte e soluzioni esse stesse di nuovo conio, innovative ed originali che, dall’ambito dell’ambiente e del suo diritto (ristretto e settoriale solo all’apparenza) passano e tracimano nel diritto pubblico generale (sussidiarietà, principio di precauzione, ecc., come semplici esempi)[63].

Ora, e proprio in relazione agli interrogativi prima esposti, sembra quasi riproporsi il  tradizionale dilemma, o meglio il tradizionale antagonismo tra chi è fautore di progetti e misure di deep Ecology e chi, al contrario, è piuttosto incline ad un approccio di shallow Ecology, tipico e proprio di un’etica pratica per l’ambiente, nel senso che saranno i risultati concretamente conseguiti, e con gli strumenti mobilitati sul campo, a validare (oppure a sconfessare) un certa strategia.

Vi è, naturalmente, in tale approccio, cauto e prudente, un’importante componente che rinvia all’analisi economica del diritto (e anche al principio di proporzionalità, a ben vedere), ma si tratta comunque, in primo luogo, di un atteggiamento mentale che potrebbe essere definito come riflessivo.

E in questo senso, e proprio nelle direzione di riuscire non soltanto a fondare, sul piano della legittimità e della legittimazione, le buone pratiche che possono agevolare la messa in campo di modelli effettivi di economia circolare, ma soprattutto allo scopo di spingere gli attori del Mercato ad adottarle e a gestirle nel concreto, che – ancora un volta – è d’uopo far riferimento al diritto dell’Unione Europea, sia originario che derivato.

Un esempio per tutti: la disciplina europea in materia di energia da fonte rinnovabile, a cominciare proprio dall’art. 192, secondo paragrafo, del TFUE ove si prevede, fra l’altro, che, secondo la procedura derogatoria di cui a quello stesso paragrafo, possono essere assunte (lettera c)) “misure aventi una sensibile incidenza sulla scelta di uno Stato membro tra diverse fonti di energia e sulla struttura generale dell’approvvigionamento energetico del medesimo”. D’altro canto, in questa stessa norma, al medesimo paragrafo, si dispone altresì – ancora un volta con il procedimento deliberativo a carattere derogatorio ivi previsto – che possono essere assunte “disposizioni aventi principalmente natura fiscale” (lettera a) della norma in esame)[64].

Il che porta ad una duplice, rilevante conseguenza in tema di energie da fonte rinnovabile, delineandosi tuttavia un percorso ed una strategia che ben potrebbero attagliarsi ad altri settori disciplinari: è con procedure condivise e destinate a sfociare in atti e decisioni prevalentemente di soft Law che si avviano i progetti di lungo termine, salvo poi intervenire medio tempore anche con misure e soluzioni di hard Law; in ogni caso – e soprattutto – è soltanto agendo vuoi con politiche di detassazione vuoi di incentivazione, nelle varie forme tecnicamente possibili, che si altera la convenienza comparativa delle scelte orientando gli attori presenti sul Mercato (imprese e consumatori, singoli e/o organizzati in gruppi e associazioni) verso l’adozione di scelte e di opzioni di più elevata qualità ambientale.

E’ su questo stesso terreno che si innesta il vivace dibattito tuttora in corso, soprattutto nella stampa specializzata, con il quale ci si prefigge di dimostrare, anche alla luce delle esperienze in itinere oltre i confini della UE[65], che l’economia circolare può risolversi in un grande vantaggio per le imprese, in ragione dell’abbattimento dei costi di produzione che debbono essere sopportati.

E, chissà quali possono essere le conseguenze sul mercato del lavoro, forse esse stesse positive, soprattutto per quel che concerne la catena virtuosa degli antichi mestieri, ossia per quell’economia della riparazione che è sicuramente presupposto ineliminabile di ogni modello economico concepito ed organizzato ad immagine dell’”economia dell’astronave”.

Ciò che comunque, e conclusivamente, sembra costituire un dato inoppugnabile, di valore generale e sistemico, è che, anche nell’ottica dell’economia circolare prossima futura, la tutela dell’ambiente si risolve per necessità, al di là e persino contro ogni diverso e sempre apprezzabile punto di vista, (anche) in un problema dell’economia.

Economia ed ecologia hanno la stessa radice etimologica, e dunque i due mondi sono “condannati” a confrontarsi e a dialogare[66].

Orbene, se questo è vero, si può forse concludere, auspice e complice, ad ogni buon conto, il diritto, e segnatamente il diritto originario della UE che ci trasmette, ancora una volta, un importante segnale di realistica verità, che tanto più la tutela dell’ambiente sarà effettiva e reale quanto maggiori saranno i vantaggi economici che da siffatte buone politiche si rifletteranno sugli attori del Mercato.

ABSTRACT

Il lavoro cerca di mettere in luce la grande novità rappresentata dal dibattito sulla c.d. economia circolare, la blue Economy, con la quale si cerca si contrastare il tradizionale modello economico, quello della brown Economy.

L’economia circolare ha come fondamentale presupposto ed obiettivo quello del riuso, riciclo e recupero dei materiali usati per la produzione di beni di consumo, essendo suo fine ultimo quello di non avere alcun rifiuto in quanto tale (zero Waste) e di contrastare pertanto la logica per la quale vi sarebbero beni e prodotti ad obsolescenza programmata.

Il lavoro vuole cogliere l’impatto di queste nuove concezioni sul mondo del diritto, e soprattutto sul diritto dell’Unione europea oltre che del nostro diritto interno.

A questo fine si esaminano i principi dei Trattati UE onde dare una base di legittimazione alle politiche, europee e nazionali, volte ad introdurre nei sistemi giuridici regole e principi di più elevata circolarità.

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The paper tries to bring to light the great, new concept of the circular Economy, the so called blue Economy, by which the researchers are trying to fight against the traditional model, the so called model of the brown Economy.

The basic idea of the blue Economy is to save row materials, and in generally goods and natural resources, also by recycling all kinds of waste. From a circular point of view there is no waste (the goal of the circular policies is zero waste) and there are no “sunset products”, no “sunset goods”, in other words with a limited cycle of life.

The aim of the paper is to catch the impact of the blue Economy on the law, first of all on the law of the European Union and – of course- of the Italian legislation.

In this context, it seems very important to analyse the principles and the rules of the European Union (the Treaty of Lisbon and the TFUE) to give a basic, and stronger, legitimacy to the circular policies of the Union and of the national states. 



[1] Professore Ordinario di Diritto Amministrativo e Diritto dell’Ambiente presso l’Università degli Studi di Torino.

[2] E si vedano, infatti, fra i giuristi, i contributi di F. DE LEONARDIS, Economia circolare: saggio sui suoi tre diversi aspetti giuridici. Verso uno Stato circolare?, in Dir. amm., (in corso di pubblicazione) nonché P. LOMBARDI, La mitigazione del rischio idrogeologico tra scienza e diritto, in Riv. giur. urb., 2016, 58 ss..

Per una rassegna delle posizioni degli economisti, un efficace lavoro di sintesi è quello di T. FEDERICO, I fondamenti dell’economia circolare, Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Marzo 2015, www.fondazionesvilupposostenibile.org

[3] Cfr. nuovamente F. DE LEONARDIS, op. loc. cit. nonché T. FEDERICO, op. loc. cit..

[4] Constatazione, questa stessa, in genere condivisa in dottrina la quale rileva, pressoché all’unanimità, come e perché il diritto dell’ambiente riesca ad anticipare soluzioni a problemi tipici e peculiari delle discipline ambientali, ovviamente, fornendo tuttavia risposte che si attagliano, in ultima istanza, a tutto il diritto pubblico e, segnatamente, al diritto amministrativo generale sia rimodellando istituti di antico conio sia estendendo oltre il tradizionale ambito del diritto ambientale regole e principi per questo stesso originariamente messi in campo.

Sia consentito rinviare sul punto a R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, Roma-Bari, 2014, passim, ma spec. 265 ss..

[5] Ancora, per un’efficace quanto esaustiva ricostruzione di sintesi, può essere utilmente consultato il contributo di T. FEDERICO, op. loc. cit., al quale si rinvia.

[6] Di particolare rilievo i due “pacchetti” dell’Unione Europea (“pacchetto” della Commissione Europea del 2 dicembre 2015, L’anello mancante: piano d’azione europea sull’economia circolare nonché il “pacchetto” su L’economia circolare, approvato dal Parlamento Europeo nella seduta del 14 marzo 2017) su cui v. più diffusamente infra, in prosieguo di lavoro, e le più recenti elaborazioni del nostro governo: Verso un modello di economia circolare per l’Italia. Documento di inquadramento e di posizionamento strategico. I suddetti documenti sono tutti reperibili al sito www.miniambiente.it

[7] F. CAPRIA, U. MATTEI, Ecologia del diritto, Aboca, Sansepolcro, 2017, passim, ma spec. 40 ss..

[8] Cfr., infatti, in questa direzione, per tutti, un classico dell’economia politica: T.R. MALTHUS, Saggio sul principio di popolazione, Torino, 1977, passim.

[9] Ovviamente, per tutti, H. JONAS, Il principio responsabilità, Torino, 2009, passim.

[10] Cfr., recentemente, A. GIDDENS, Il cambiamento climatico, Milano, 2015, passim cui adde G. RAGOZZINO, L’appello degli scienziati sul clima, in www.sbilanciamoci.info,  in merito all’appello di 15.000 scienziati, di 184 paesi, volto a promuovere nuovi comportamenti, pubblici e privati, in funzione di migliori politiche ambientali.

[11] Sul tema dell’energia (in merito al quale cfr. anche infra, al prosieguo e alle conclusioni del lavoro) può essere utilmente consultato C. VIVANI, Ambiente ed energia, in Trattato di diritto dell’ambiente (dir. R. FERRARA, M. A. SANDULLI), tomo I, a cura di R. FERRARA e C. E. GALLO, Milano, 2014, 503 ss., al quale si rinvia anche per la completa ricostruzione del sistema delle fonti (europee e nazionali). Di particolare rilievo è comunque la direttiva 2009/28/CE, recepita nel nostro paese con il d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, sulle energie da fonte rinnovabile. Sul tema dell’efficienza energetica degli edifici, cfr. la direttiva 2012/27/UE, del 25 ottobre 2012.

[12] Così, infatti, del tutto esaustivamente, F. DE LEONARDIS, op. loc. cit., al quale si rinvia per ogni più ampia argomentazione. Da un punto di vista circolare i rifiuti, in realtà, non esistono in quanto tali, giacché le sostanze nutrienti debbono essere reimmesse, dopo il loro utilizzo, nel ciclo sia biologico che tecnico: da qui il carattere “chiuso” della blue Economy. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Economia_circolare

[13] The Ellen MacArthur Foundation website, http://www.ellenmacarthurfoundation.org/

[14] Impossibile, ovviamente, dare conto degli indirizzi di pensiero delle diverse scuole economiche. Come campione di un orientamento ultraliberista può essere forse tuttavia verosimilmente ricordato F. VON HAYEK, del quale cfr. il volume di saggi Conoscenza, mercato pianificazione, Bologna, 1988.   

[15] Si veda infatti più diffusamente infra, al paragrafo conclusivo del lavoro.

[16] Economia dell’astronave in contrapposizione alla c.d. economia del Cowboy, secondo la nota affermazione di K. E. BOULDING, The economics of the coming spaceship earth, cit. da T. FEDERICO, op. loc. cit., alla nota n. 14. Al contributo appena cit. di T. FEDERICO si fa egualmente rinvio per maggiori informazioni in merito ai presupposti economici e sociologici dell’economia circolare.

[17] Cfr. nuovamente F. DE LEONARDIS, op. loc. cit. nonché, in questa stessa direzione, P. LOMBARDI, op. loc. cit..

[18] Cfr., infatti, soprattutto, la direttiva 2008/98/CE, recepita ad opera del d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 con il quale si integra e modifica il c.d. codice dell’ambiente, ossia il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Più diffusamente infra, per alcuni cenni ai tentativi di riforma, in itinere (e in senso circolare), della suddetta direttiva.

[19] Si veda per tutti quanto sostenuto da una nota associazione che opera prevalentemente a Roma, e in generale nel Lazio, nel settore dei rifiuti, e segnatamente nel mercato dell’usato: http://www.occhiodelriciclone.com/

[20] In argomento, F. DE LEONARDIS, I rifiuti: dallo smaltimento alla prevenzione, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2017, 296 ss., ove, alla luce delle norme europee e nazionali (e della giurisprudenza: cfr. spec. la sentenza di Corte di giustizia CE, 18 aprile 2002, C-9/90, c.d. sentenza Palin Granit, in www.AmbienteDiritto.it), si definisce la nozione di sottoprodotto altra e diversa rispetto a quella di rifiuto. Cfr. anche, a questo riguardo, A. BORZI, La gestione dei rifiuti, in Trattato di diritto dell’ambiente, cit., tomo II, a cura di S. GRASSI, M. A. SANDULLI, 605 ss. spec. 625 e 630 ss., lavoro al quale si rinvia anche per la ricostruzione del quadro normativo. Importante il contributo di P. DELL’ANNO, Rifiuti, in Dizionario di diritto pubblico (dir. S. CASSESE), V, Milano, 2006, 5032 ss..

[21] Cfr. nuovamente supra, alla nota immediatamente precedente, anche per ogni ulteriore riferimento bibliografico.

[22] Cfr., soprattutto, la cit. decisione di Corte di giustizia CE, 18 aprile 2002, C-9/90 (supra, alla nota n. 19) cui adde Corte di giustizia UE, sez. IV, 28 luglio 2016, C-147/15 e, nel quadro di una giurisprudenza ormai piuttosto nutrita, l’importante sentenza di Corte cost., 14 marzo 2008, n. 62 nonché Cass. pen., sez. III, 10 luglio 2008, n. 28229,  in www.AmbienteDirittto.it. Cfr. anche, sebbene in materia di olii accidentalmente sversati e pertanto di inquinamento idrico, Corte giustizia CE, Grande sezione, 24 giugno 2008, C-188/07, www.AmbienteDiritto.it.

[23] Cfr. infatti, in questa direzione, il decreto del ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare del 13 ottobre 2016, n. 264, “regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualificazione dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti” nonché il D.P.R. 13 giugno 2017, n. 120, “regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo”.

[24] Cfr. nuovamente i cit. regolamenti riportati supra, alla nota immediatamente precedente. Si deve poi segnalare, più in generale, il processo di riforma relativo alla direttiva CE 2008/98 in materia di rifiuti, abbastanza scopertamente in sintonia con gli indirizzi dell’economia circolare: proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2008/98 relativa ai rifiuti, www.AmbienteDiritto.it.

[25] Cfr. nuovamente la cit. proposta di riforma della direttiva rifiuti nonché già il cit. decreto ministeriale n. 264/2016 e il cit. D.P.R. n. 120/2017.

[26] E pertanto in piena sintonia con i due “pacchetti” messi in campo proprio dall’Unione Europea: supra, alla nota n. 5.

[27] Ancora supra, alla nota n. 5.

[28] Supra, alla nota n. 5.

[29] Per l’esame dei quali si rinvia, in prima battuta, ai manuali di diritto dell’ambiente disponibili: G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, cit., passim; A. CROSETTI, R. FERRARA, F. FRACCHIA, N. OLIVETTI RASON, Introduzione al diritto dell’ambiente, Roma-BARI, 2018, passim, ma spec. al terzo capitolo; P. DELL’ANNO, Diritto dell’ambiente, Padova, 2011, passim; N. LUGARESI, Diritto dell’ambiente, Padova, 2012, passim cui adde A. MASSERA (a cura di), Diritto amministrativo e ambiente, Napoli, 2011, passim.

[30] Si veda in proposito, per tutti, C. VIVANI, op. loc. cit., anche per ulteriori riferimenti bibliografici.

[31] Ancora C. VIVANI, op. loc. cit., anche per la ricostruzione del sistema delle fonti nel settore dell’energia, sia di derivazione europea che nazionali.

[32] Supra, alla nota n. 10, per i riferimenti normativi di base (di fonte UE e nazionali), relativi alle energie rinnovabili, e pertanto anche ai processi di teleriscaldamento e teleraffreddamento.

[33] Ancora C. VIVANI, op. loc. cit..

[34] Tema, questo stesso, quello delle smart Cities (e delle smart Communities), di relativamente recente emersione, ma ormai di rilevanza strategica in ogni dibattito relativo alla gestione del territorio ed alla protezione dell’ambiente, e segnatamente degli ambienti urbani. Per tutti, G.F. FERRARI (a cura di), La prossima città, Mimesis, Udine, 2017 nonché, se si vuole, R. FERRARA, The smarty city and the green economy in Europe: a critical approach, in Energies, 2015,  4724 ss., nel contesto di un fascicolo monografico sul tema delle energie da fonte rinnovabile.

[35] Tema, questo stesso, ancora una volta di rilevanza strategica nel contesto delle politiche pubbliche. Nel quadro di una letteratura davvero molto ampia e variegata (sia di matrice giuridica che di taglio economico) appaiono senza dubbio esaustivi e densi di importanti rilievi i contributi di  P. LATTANZI, Spreco alimentare e regole del cibo, in A. BRUZZO, P. BORGI (a cura di), Nutrire il pianeta? Il ruolo dell’Europa nello sviluppo economico e alimentare mondiale, Napoli, 2016, 71 ss. nonché ID, Le leggi antispreco alimentare. Esperienze nazionali a confronto, Relazione tenuta al convegno di Macerata del 30 maggio 2017, su Diritto dell’ambiente ed economia circolare (in corso di pubblicazione), lavori ai quali si rinvia anche per un più ampio corredo bibliografico. In chiave economica, R. PRETAROLI, La valutazione delle politiche economiche ambientali nel flusso circolare del reddito, relazione tenuta al cit. convegno di Macerata.  

[36] Tematiche, queste stesse, tutte al centro del rilevantissimo evento milanese, ma in realtà internazionale, noto come Expo 2015, il cui focus è stato Nutrire il pianeta, energia per la vita. Informazioni di base reperibili al sito di Wikipedia, expo2015.

[37] Cfr. nuovamente F. CAPRA, U. MATTEI, op. loc. cit. e passim.

[38] La definizione è ripresa a piè pari dal sito di IPPR (Istituto per la promozione delle plastiche da riciclo), www.ippr.it/notizie/9781.

[39] E, per ciò, si rinvia ai documenti, di fonte UE e del nostro governo, riportati supra, alla nota n. 5.

[40] Si ripropone infatti, in questo modo, il dilemma, davvero “antico” o comunque ricorrente, circa il ruolo che può (rectius, deve) essere giocato dal controllo amministrativo preventivo in funzione della rilevazione e della tutela dei c.d. interessi sensibili, prospettandosi tuttavia l’ipotesi se, in alternativa a tale modus operandi, non sipossa invece far ricorso, in tutto o in parte, alla messa in campo di opportune misure di semplificazione amministrativa, anche tramite la mobilitazione di forme e strumenti di cooperazione fra gli attori pubblici e quelli privati. Per una ricostruzione di sintesi, sia consentito rinviare a R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, cit., passim, ma spec. 149 ss..

[41] Per tutti, P. G. MONATERI, Geopolitica del diritto, Roma-Bari, 2013, passim nonché F. CAPRA, U. MATTEI, op. loc. cit., passim.

[42] Cfr. nuovamente, per tutti, P. G. MONATERI, op. cit. e F. CAPRIA, U. MATTEI, op. cit. nonché, se si vuole, R. FERRARA, op. ult. cit., spec. 201 ss..

[43] Così, molto finemente, W. HOPPE, Staatsaufgabe Umweltschutz, in Deutschland nach 30 Jahren Grundgesetz, Berlino- New York, 1980, 261 ss. e passim.

[44] In merito a tale antinomia, con cui si delineano diverse “visioni del mondo”, cfr., del tutto esaustivamente, L. BENVENUTI, Il diritto dell’ambiente nella prospettiva dell’etica applicata, in Jus, 2000, 453 ss.  Sia anche consentito il rinvio a R. FERRARA, Etica, ambiente e diritto: il punto di vista del giurista, in Trattato di diritto dell’ambiente, tomo I, cit., 19 ss..

[45] Il pensiero corre, ovviamente, al classico studio di J.

K. GALBRAITH, La società opulenta, Milano, 1967.

[46] Il che avviene con una certa frequenza quando solo si pensi che principi fondamentali dell’ordinamento della UE, e dunque dei paesi membri (dal principio di sussidiarietà a quello di precauzione, ecc.), hanno avuto un primo, e rilevantissimo, momento di elaborazione e di pratica applicazione proprio per il settore dell’ambiente: O. PORCHIA, Le politiche dell’Unione Europea in materia ambientale, in Trattato di diritto dell’ambiente, tomo I, cit., 153 ss..

[47] Per un utile approfondimento è di sicura utilità la lettura dei manuali di diritto dell’ambiente (supra, alla nota n. 28) e, segnatamente, di P. DELL’ANNO, Diritto dell’ambiente, cit., 77ss..

[48] Supra, alle note n. 19, 21, 22 e 23.

[49] Soprattutto per quel che concerne lo spreco alimentare, relativamente al quale si veda nuovamente P. LATTANZI, Spreco alimentare e regole del cibo, cit., contributo al quale si rinvia.

[50] E ciò sembra essere abbastanza palese in ogni tipo di policy messa in campo dall’Unione europea: dalla materia dei rifiuti fino a quella delle energie da fonte rinnovabile. Si può considerare come davvero emblematica, sotto questo riguardo, proprio la ventilata riforma della direttiva 2008/98, relativa ai rifiuti, cit., posto che questo è già l’esordio del primo considerando: “La gestione dei rifiuti nell’Unione dovrebbe essere migliorata per salvaguardare, tutelare e migliorare la qualità dell’ambiente, proteggere la salute umana, garantire un’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali e promuovere un’economia più circolare”. Del pari significativa è l’attenzione del legislatore (sia europeo che nazionale) nei riguardi dei c.d. appalti verdi (il green Procurement), secondo quanto disvela l’art. 34 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, così come successivamente modificato e integrato, relativamente al quale cfr., esaustivamente, O. HAGI KASSIM, Gli appalti verdi, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, cit., 439 ss., anche per ulteriori riferimenti bibliografici.  

[51] Per alcune argomentazioni in questa direzione, al fine di intercettare e “separare” i principi più generali e rilevanti (prevenzione, precauzione, ecc.) da quelli, pur importanti, che sono tuttavia tipici e propri di un settore, soprattutto di un settore (principio di prossimità, per il campo dei rifiuti, ad esempio), sia consentito rinviare a R. FERRARA, Modelli e tecniche della tutela dell’ambiente: il valore dei principi e la forza della prassi, in Foro amm. TAR, 2009, 1945 ss..

[52] Cfr. nuovamente L. BENVENUTI, op. loc. cit..

[53] Su punto, per tutti, P. DELL’ANNO, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, Milano, 2004, passim nonché O. PORCHIA, op. loc. cit. e L. PINESCHI, I principi del diritto internazionale dell’ambiente: dal divieto di inquinamento transfrontaliero alla tutela dell’ambiente come common concern, in Trattato di diritto dell’ambiente, tomo I, cit., 93 ss..

[54] Cfr. nuovamente A. GIDDENS, op. loc. cit. nonché G. RAGOZZINO, op. loc. cit. (supra, alla nota n. 9).

[55] E, tuttavia, si ricordi nuovamente il considerando n. 1 della proposta di riforma della direttiva n. 2008/98, relativamente ai rifiuti (supra, alla nota n. 49), ove, anche nel lessico, viene in parte recuperata e riprodotta la “clausola di stile” di cui all’art. 191, primo paragrafo, del TFUE.

[56] Si vedano, a questo riguardo, i contributi cit. supra, alla nota n. 52, cui adde, se si vuole, R. FERRARA, I principi comunitari della tutela dell’ambiente, in La tutela dell’ambiente (a cura di R. FERRARA), Torino, 2006, 1ss..

[57] In ordine al quale principio, cfr., del tutto esaustivamente, M. P. GIRACCA, Danno ambientale, in Trattato di diritto dell’ambiente, tomo I, cit., 571 ss..

[58] Ancora M. P. GIRACCA, op. loc. cit., al cui contributo si rinvia, anche per l’ampio corredo di riferimenti bibliografici.

[59] Cfr. i contributi riportati supra, alle note n. 52 e 55 e, soprattutto, P. DELL’ANNO, Principi di diritto ambientale europeo e nazionale, cit., passim.

[60] Così, quasi provocatoriamente, in più scritti, J. MORAND-DEVILLER, e segnatamente nel saggio Il giusto e l’utile nel diritto dell’ambiente, in Trattato di diritto dell’ambiente, tomo I, cit., 3 ss.. In argomento si veda C. VIDETTA, Lo sviluppo sostenibile. Dal diritto internazionale al diritto interno, ivi, 221 ss.. Senza che il tema possa essere affrontato in profondità, almeno in questa sede, sembra anche possibile sostenere che la formula “futuro sostenibile”, che viene in qualche  modo patrocinata nel lavoro, in luogo della tradizionale “clausola di stile” rappresentata dallo sviluppo (esso pure sostenibile), possa comunque essere in qualche misura considerata come il frutto maturo della lettura aggiornata ed evolutiva della più tradizionale, e persino scontata, espressione di sintesi (lo sviluppo sostenibile) di largo impiego nel diritto internazionale e dell’Unione Europea. 

[61] Cfr. nuovamente P. DELL’ANNO, op. loc. cit. nonché C. VIDETTA, op. loc. cit..

[62] G. F. FERRARI (a cura di), La prossima città, cit., passim nonché E. FERRERO, Le smart cities nell’ordinamento giuridico, in http://piemonteautonomie.cr.piemonte.it/cms/index.php/le-smart-cities-nell-ordinamento-giuridico

[63] Sia ancora consentito il rinvio a R. FERRARA, Introduzione al diritto amministrativo, cit. spec. 265 ss..

[64] Cfr. nuovamente, per tutti, O. PORCHIA, op. loc. cit..

[65] Cfr., infatti, ex multis, L’economia circolare ora è un business, in Il Sole 24 ore, del 1° novembre 2016 oppure La Stampa del 5 maggio 2017, Un premio ai cervelli che battono gli sprechi. Il riferimento comparato è, soprattutto, all’India ed alla Cina, paesi nei quali si starebbe verificando una vera e propria rivoluzione copernicana, da un’ottica di crescita incontrollata e “selvaggia” ad un più maturo approccio al tema dello sviluppo fortemente connotato in senso circolare. Un’importante rassegna delle esperienze messe in campo da altri paesi (dai due giganti asiatici come dai principali paesi europei) è rinvenibile nel già cit. Report del ministero dell’ambiente e di quello per lo sviluppo economico, Verso un modello di economia circolare per l’Italia (supra, alla nota n. 5).     

[66] Nel senso messe efficacemente in luce da W. HOPPE, op. loc. cit. così come dalla nostra più attenta dottrina: M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente, Torino, 2007, passim nonché R. LOMBARDI, Ambiente e mercato: note minime per una nuova prospettiva d’indagine sui beni comuni, in Trattato di diritto dell’ambiente, tomo I, cit., 67 ss..