Corte costituzionale n. 33/2019 e gestione associata : verso il superamento dell’obbligatorietà per i piccoli comuni?

Serena Matarazzo[1]

Il presente contributo intende affrontare il tema dell’esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali dei piccoli comuni, alla luce della pronuncia della Corte costituzionale n. 33/2019.

Sommario: 1. Premessa. 2. Il caso dei comuni campani. 3. La genericità dell’obbligo di gestione associata per i piccoli comuni…quando “l’Unione non fa la forza”. 4. Il problema è alla fonte: la disciplina delle funzioni fondamentali. 5. Considerazioni conclusive.

1. Premessa.

La previsione generalizzata dell’obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali dei piccoli comuni è caratterizzata da “eccessiva rigidità”, laddove non prende in esame quelle situazioni in cui, per la collocazione geografica, i caratteri demografici e socio ambientali dell’ente, lo strumento associativo non comporti gli attesi risultati, in termini di efficacia e di economicità, nell’erogazione dei servizi alla collettività di riferimento.

A tali conclusioni è giunta la Corte costituzionale, con la sentenza n. 33 del 2019, chiamata a pronunciarsi su un tema che da anni ormai è oggetto di reclami da parte di sindaci dei comuni di minor dimensione (circa il 70% sul territorio nazionale).

L’esigenza di razionalizzazione e semplificazione del sistema delle autonomie locali, invero, ha da tempo condotto alla realizzazione di un percorso di esperienze associative tra comuni.

Un percorso che, configuratosi inizialmente come volontario, è stato reso poi obbligatorio – mediante la forma dell’unione o della convenzione – con riferimento ai comuni con popolazione fino a cinquemila abitanti, ovvero fino a tremila, se appartenenti a comunità montane[2].

In particolare, il regime di obbligatorietà è stato  introdotto con una modalità di attuazione a “scadenza progressiva”, essendo previsto l’adempimento, inizialmente, per lo svolgimento di sole tre funzioni fondamentali, poi per tutte le altre[3].

Dal punto di vista procedimentale, è richiesto l’intervento della legge regionale, previa concertazione dei comuni coinvolti all’interno del Consiglio delle Autonomie locali, al fine dell’individuazione degli ambiti territoriali ottimali per l’esercizio associato delle funzioni[4].

In tale contesto, sono emerse una serie di criticità operative, alcune delle quali venute in rilievo nella pronuncia in esame.

 

2. Il caso dei comuni campani.

Il Tar Lazio sollevava, con ordinanza n. 1027 del 2017, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi da 26 a 31, del d.l. 78 del 2010, come convertito dalla legge n. 122 del 2010 e modificato successivamente, nonché dell’art. 1, commi 110 e 111, della legge della Regione Campania n. 16 del 2014.

Nello specifico, il giudice rimettente era stato chiamato a decidere un ricorso introdotto da cinque piccoli comuni campani e da un’associazione esponenziale degli enti locali[5], che impugnavano una circolare ministeriale contenente indicazioni rivolte ai prefetti, affinché procedessero alla verifica sullo stato dell’arte in merito all’obbligo della gestione associata, oltre che alla conseguente diffida nei confronti degli enti ancora inadempienti.

Il provvedimento ministeriale sarebbe stato affetto, secondo i ricorrenti, da illegittimità derivata a causa dell’illegittimità costituzionale della disciplina legislativa posta a suo fondamento.

In proposito, il Tar del Lazio riteneva rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi da 26 a 31, del d.l. 78 del 2010 in riferimento agli artt.:

– 77, secondo comma, Cost. per l’evidente carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza;

– 3, 5, 95, 97, 117, comma sesto, 114, 118 Cost., in relazione ai principi di buon andamento, differenziazione e tutela delle autonomie locali;

– 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 3 della Carta Europea dell’autonomia locale;

– 133, comma 2, Cost.[6];

– 114 e 119 Cost., in rapporto all’autonomia organizzativa e finanziaria degli enti locali.

Parimenti, la legge regionale campana si sarebbe posta in contrasto con gli artt. 3, 5, 95, 97, 114, 117, primo e sesto comma, nonché con l’art. 118 Cost., per violazione dei principi di buon andamento, differenziazione e tutela delle autonomie locali, con specifica attenzione al profilo di omissione dell’indispensabile coinvolgimento degli enti locali nella fase di individuazione degli ambiti ottimali per lo svolgimento associato delle funzioni fondamentali comunali.

Dinanzi a tali censure, la Corte dichiara alcune questioni infondate, altre inammissibili,  giungendo tuttavia ad affermare l’illegittimità costituzionale  dell’art. 1, comma 110 e 111, della legge regionale campana e dell’art. 14, comma 28, del d.l. 78 del 2010, in riferimento all’art. 3, in combinato disposto con gli artt. 5, 97 e 118 Cost., nella parte in cui non consente alle amministrazioni coinvolte di dimostrare che, a causa delle particolari condizioni dei territori interessati, non risulti possibile realizzare quelle economie di scala, obiettivo delle gestioni associate.

Per quanto riguarda, anzitutto, il profilo della legittimità costituzionale posta nei confronti dell’art. 1, commi 110 e 111, della legge regionale n. 16 del 2014, la stessa è dichiarata fondata dalla Corte, per violazione degli artt. 5, 114 e 97 Cost.

La legge regionale esaminata, invero, anziché procedere ad un’autonoma definizione degli ambiti territoriali ottimali, si limitava soltanto ad un generico richiamo ai sistemi territoriali di sviluppo contenuti nel settore urbanistico e, precisamente, nel piano territoriale regionale, delineati quindi per delle finalità circoscritte.

Inoltre, a differenza di quanto prescritto dall’art. 14, comma 30, del d.l. 78 del 2010, non risultava – né dal testo della legge, né dai lavori preparatori – alcun cenno ad un percorso concertativo nell’ambito del CAL (non ancora istituito, tra l’altro, in Campania), o tramite altre modalità.

Osserva sul punto, la Corte, come non sia stato contemplato nemmeno un procedimento strutturato in due fasi, analogamente a quanto previsto in altre Regioni, in cui la legge regionale ha provveduto ad indicare i criteri generali, lasciando il compito ad un successivo atto amministrativo, risultante dall’attività di concertazione con i comuni, di individuare gli ambiti territoriali[7].

Tuttavia, nelle determinazioni regionali “di ordinamento[8], tra cui rientrano senz’altro quelle concernenti il conferimento di funzioni in capo ai diversi livelli territoriali, è indispensabile la partecipazione degli enti locali, in applicazione di quanto disposto dall’art. 4 del Tuel che, nel disciplinare il sistema regionale delle autonomie locali, al comma 5, pone in capo all’ente regionale – all’interno della propria autonomia legislativa – l’onere di prevedere strumenti e procedure di raccordo e concertazione, finalizzati alla realizzazione di forme di cooperazione, utili alla collaborazione tra regioni ed enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze.

Del resto, il processo di riorganizzazione territoriale deve garantire, in via preliminare, l’instaurazione di rapporti  sinergici tra i diversi attori istituzionali, in modo da rispondere meglio ai bisogni della collettività.

 

3. La genericità dell’obbligo di gestione associata per i piccoli comuni…quando “l’Unione non fa la forza”.

Per quanto concerne le censure sollevate in merito all’obbligatorietà e alla rigidità del regime dell’esercizio associato delle funzioni comunali dei piccoli comuni, in contrapposizione alla “volontarietà nell’an e la flessibilità nel quomodo” prevista in passato, la Corte premette anzitutto come gli strumenti dell’unione e della convenzione siano da tempo previsti nel nostro ordinamento.

Richiamando sul punto, alcune precedenti pronunce, il giudice costituzionale ribadisce come le forme associative siano “una proiezione degli enti stessi”[9]. Pertanto, il nodo interpretativo verte essenzialmente non “sulle forme associative in sé considerate – della cui legittimità costituzionale, non è possibile dubitare, ma sull’obbligo che di queste viene imposto”, obbligo previsto appunto dal menzionato comma 28.

A ben vedere, il comma richiamato lascia, comunque, all’autonomia degli enti interessati la valutazione di scelta tra le due differenti forme della convenzione e dell’unione. In più, ad avvalorare la tesi della legittimità delle gestioni associate rileva la considerazione, non secondaria, del bilanciamento tra il peso imposto all’autonomia comunale e la ratio sottesa alla disciplina.

Una disciplina finalizzata a risolvere l’inadeguatezza degli apparati amministrativi e delle risorse finanziarie dei comuni più piccoli, le cui dimensioni demografiche e territoriali rappresentano sovente un ostacolo alla realizzazione di un’efficace gestione dei beni e dei servizi a favore della collettività di riferimento.

Per superare le difficoltà di efficienza, senza con ciò compromettere l’erogazione di servizi adeguati e di qualità ai cittadini, soccorre quindi l’intervento statale, in virtù della potestà legislativa concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica, sebbene – sottolinea la Consulta – tali interventi, qualora incidenti sull’autonomia degli enti territoriali, debbano rispettare i parametri di proporzionalità e di ragionevolezza rispetto all’obiettivo perseguito[10].

La questione, quindi, diviene capire se la previsione dell’obbligo di gestione associata per  le funzioni fondamentali dei piccoli comuni (ad esclusione di quella indicata dalla lettera l del comma 27[11]) superi o meno l’esame di proporzionalità e ragionevolezza.

In quest’ottica, ne discende che il sacrificio imposto all’autonomia comunale non risulta giustificabile in tutti i casi, come quelli dei comuni campani ricorrenti, in cui gli scopi prefissati non vengano raggiunti, tutte le volte in cui non si realizzino, dunque, economie di scala e risparmi di spesa.

Quando, insomma, “l’Unione non fa la forza del beneficio”.  E la forza del beneficio viene meno nelle fattispecie concrete pregiudicate da una previsione generalizzata di obbligo, che non vada incontro alle esigenze di differenziazione.

E’ quanto accade, ad esempio, quando non esistono comuni confinanti parimenti obbligati, quando ci sia un solo comune contermine obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico richiesto dalla legge renda indispensabile il coinvolgimento di altri comuni non vicini oppure quando la posizione dell’ente, ad esempio perché montano e caratterizzato da condizione di isolamento, non avrebbe vantaggi dall’associarsi.

In particolare, ad avviso della Corte, la possibilità di ottenere l’esonero dall’obbligo scatta con la dimostrazione “della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del comune obbligato”, un’affermazione, quest’ultima, che porterà, con ogni probabilità, a difficoltà dal punto di vista operativo.

In proposito, nonostante si rimetta al giudice comune il compito di trarre i conseguenti corollari applicativi, sembrano rimanere nondimeno aperti una serie di dubbi, primo tra tutti: quali saranno i parametri che devono sussistere per ottenere l’esonero?

Posto che l’ente deve trovarsi nelle menzionate condizioni, come dar contenuto ai caratteri geografici, demografici e socio-ambientali, senza dar avvio ad interpretazioni non ancorate ad alcun dato obiettivo?

Lo stesso richiamo compiuto dalla Corte alla prevista deroga in favore delle isole monocomune e del comune di Campione d’Italia[12], al fine di corroborare l’esigenza di differenziare situazioni con particolari caratteristiche geografiche, non sembra bastare. L’inesigibilità dell’obbligo associativo, in queste ipotesi, è infatti evidentemente circostanziato e non comporta rischi di arbitrarietà ermeneutiche.

Ancora, i casi menzionati nella pronuncia come meritevoli di esenzione dalla disciplina sono indicati a titolo meramente esemplificativo, rendendone opportuna una pronta individuazione, per scongiurare discriminazioni a contrario.

In tale prospettiva, l’intervento del legislatore regionale appare l’unica strada percorribile, onde evitare che al problema della mancata corrispondenza tra “ingegneria legislativa e geografia funzionale”- secondo le parole usate dalla Corte – si affianchi l’imprevedibilità dell’ingegneria interpretativa, in un tema già scivoloso.

L’ente regionale, esercitando le relative funzioni di indirizzo, programmazione e coordinamento, dovrebbe dar forma alle indicazioni fornite dalla Corte, così da delineare il modello di governance più adatto alle rispettive esigenze territoriali.

Tutto ciò, del resto, in un momento, come quello della stagione del regionalismo differenziato, occasione senz’altro utile anche per ripensare, complessivamente, al ruolo delle Regioni all’interno dei processi di aggregazione comunale.

 

4. Il problema è alla fonte: la disciplina delle funzioni fondamentali.

Nell’esaminata sentenza, oltre a riconoscere la rigidità dell’obbligo della gestione associata, tra i vari argomenti, la Corte si sofferma altresì sul discusso aspetto delle funzioni fondamentali comunali.

Afferma, infatti, come l’indicazione dei compiti assegnati ai comuni siano “ancora oggi contingentemente definite con un decreto-legge”, dettato da “ragioni economico-finanziarie”.

Sebbene quindi, non sia contestabile l’utilizzo della decretazione d’urgenza[13], in quanto il sindacato sui presupposti di necessità e urgenza dell’art. 77 Cost. è limitato alla “evidente mancanza di tali presupposti[14]” o alla “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione”, d’altra parte, non può essere trascurata l’opportunità che il “nucleo di funzioni caratterizzanti, essenziali ed imprescindibili di ciascun livello autonomo di governo locale[15]” goda di una disciplina ad hoc, anziché essere “mero effetto riflesso di altri obiettivi”, obiettivi di natura prevalentemente finanziaria, come i tentativi di federalismo fiscale o le differenti misure di spending review, con conseguenti problematiche di sistematicità della disciplina[16].

La Corte non manca di sottolineare come ciò comporti significativi limiti all’assetto organizzativo dell’autonomia comunale.

Dalla riforma del titolo V della Costituzione, con il nuovo quadro costituzionale di poteri locali, al contrario, si impone come indefettibile una stabile e organica definizione delle funzioni ascrivibili agli enti locali, soprattutto se si tiene in considerazione che tale definizione, inizialmente, non ha ottenuto riscontro, poi ha preso forma, ma tramite interventi legislativi volti a rincorrere esigenze di riduzione della spesa pubblica e non certo a perseguire l’obiettivo di configurare un sistema normativo che si presenti in linea con il sistema tracciato dalla riforma costituzionale.

E proprio il contesto delle funzioni è il terreno su cui si registrano evidenti distorsioni sul piano pratico. Nonostante l’enunciazione dei principi di differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118 Cost., non può trascurarsi come le stesse funzioni fondamentali siano assegnate indistintamente al più piccolo borgo isolato, caratterizzato da poche unità di abitanti e, contestualmente, alle grandi città di rilievo metropolitano, popolate da milioni di persone.

Con il processo di decentramento amministrativo degli ultimi decenni, i comuni sono stati destinatari di una serie di competenze in modo indistinto. Il principio di sussidiarietà, che sposta sul livello più prossimo ai cittadini una serie di funzioni, comporta il pericolo di sovraccaricare “i piccoli”, senza tener conto delle differenti capacità gestionali di ciascun ente.

Al fine di inseguire un’eguaglianza di tipo formale, si rischia di non riuscire a soddisfare i singoli bisogni delle diverse collettività e, in tale direzione, la sentenza 33/2019 sembra essere una prima reale apertura in attuazione dell’esigenza di differenziazione, andando verso un temperamento dell’obbligo di gestione associata. Quella stessa esigenza di differenziazione – ricorda la Corte – che è invece realizzata in modo diverso in altri ordinamenti europei, come nell’esperienza francese, dove la stessa è conseguita “non solo sul piano organizzativo ma anche su quello funzionale[17].

 

5. Considerazioni conclusive.

Nel variegato panorama della cooperazione intercomunale in Italia, occorre considerare le specificità degli enti territoriali, perseguendo il principio di differenziazione.

Fin dalla sua definizione legislativa, contenuta nell’art. 4, co. 3, della legge n. 59 del 1997, detto principio ha richiesto al legislatore di tener conto “delle diverse caratteristiche demografiche, territoriali e strutturali degli enti”, in altre parole, per ciò che qui rileva, di puntare lo sguardo sulla realtà di fatto, sulla situazione concreta in cui versa l’ente coinvolto da processi di esercizio obbligatorio di gestione associata delle funzioni, nonostante la sua appartenenza alla categoria interessata, ossia quella dei piccoli comuni.

Consentire, pertanto, la possibilità alle amministrazioni di dimostrare, a causa delle particolari condizioni geografiche, demografiche ed ambientali, l’impossibilità di realizzare economie di scala e miglioramenti in termini di efficacia e di efficienza, precipuo scopo delle gestioni associate, appare il primo passo volto a mitigare una normativa poco flessibile, all’interno del sistema delle autonomie locali, che necessita per definizione, invece, di elasticità e di spirito di adattamento nei confronti di territori con proprie caratteristiche, non ignorabili.

Il primo passo all’interno di un quadro normativo che, pur riconoscendo gli indubbi vantaggi dell’associazionismo comunale, parta dal temperamento/superamento della rigidità dell’obbligo di gestione associata per i comuni di minore dimensione, per poi soffermarsi altresì a monte, sulla previsione di una disciplina sistematica delle funzioni fondamentali, che non risulti più ancorata ad ottiche emergenziali, come mero strumento di risparmio di spesa. 


 


[1]Dottoranda di ricerca presso l’Università del Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”, con apprendistato di alta formazione e ricerca in Anci Piemonte – Componente di OPAL (Osservatorio per le Autonomie Locali), struttura di ricerca incardinata nell’ambito del curriculum giuridico in “Autonomie, Servizi, Diritti” del dottorato dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.

 

[2] L’art. 14, comma 28, del d.l. 78/2010, dispone in proposito che “le funzioni fondamentali dei comuni, previste dall’articolo 21, comma 3, della citata legge n. 42 del 2009, sono obbligatoriamente esercitate in forma associata, attraverso convenzione o unione, da parte dei comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, esclusi le isole monocomune ed il comune di Campione d’Italia. Tali funzioni sono obbligatoriamente esercitate in forma associata, attraverso convenzione o unione, da parte dei comuni, appartenenti o gia’ appartenuti a comunita’ montane, con popolazione stabilita dalla legge regionale e comunque inferiore a 3.000 abitanti”.

 

[3]L’adempimento dell’obbligo di esercizio associato delle funzioni dei piccoli comuni è stato così articolato: entro  inizio gennaio 2013, con riferimento ad almeno tre delle funzioni fondamentali, entro il 30 settembre 2014, in relazione ad ulteriori tre funzioni e, infine, entro il 31 dicembre 2014, con riguardo a tutte le restanti funzioni fondamentali previste dal comma 27 del d.l. 78 del 2010.

Per quanto concerne il termine per l’estensione dell’obbligatorietà a tutte le funzioni fondamentali, fissato al 31 dicembre 2014, lo stesso è stato più volte differito (al 31 dicembre 2015 con d.l. 192 del 2014, al 31 dicembre 2016 con d.l. 210 del 2015, al 31 dicembre 2017  con d.l. 244 del 2016, al 31 dicembre 2018 con la legge di bilancio 2018, al 30 giugno 2019 con d.l. 91 del 2018 e, da ultimo, al 31 dicembre 2019, in base a quanto stabilito dall’art. 11-bis, comma 1, del d.l. n. 135 del 2018, convertito in legge n. 12 del 2019). Quest’ultimo decreto, poi, ha disposto anche l’istituzione di un tavolo tecnico politico, presso la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, al fine di avviare, tra l’altro, un percorso di superamento dell’esercizio obbligatorio delle funzioni comunali.

 

[4] Sull’intervento regionale, stabilisce l’art. 14, comma 30, del d.l. 78 del 2010, che “la regione, nelle materie di cui all’articolo 117, commi  terzo e quarto, della Costituzione, individua  con  propria  legge,  previa concertazione con i  comuni  interessati  nell’ambito  del  Consiglio delle autonomie locali, la dimensione territoriale  ottimale  per  lo svolgimento delle funzioni fondamentali di cui all’articolo 21, comma 3,  della  legge  5  maggio  2009,  n.  42,  secondo  i  principi  di economicita’,  di  efficienza  e  di  riduzione  delle  spese,  fermo restando  quanto  stabilito  dal  comma  28  del  presente  articolo. Nell’ambito della normativa regionale i  comuni  avviano  l’esercizio delle funzioni fondamentali  in  forma  associata  entro  il  termine indicato dalla stessa normativa”.

 

[5] I cinque comuni interessati erano Baia e Latina, Buonalbergo, Dragoni, Liveri e Teora. L’Asmel (Associazione per la sussidiarietà e la modernizzazione degli Enti Locali) era, invece, l’ente esponenziale.

 

[6] Tale censura nasceva dalla considerazione che l’obbligo di esercizio associato coinvolge la totalità delle funzioni fondamentali, ad eccezione della sola lettera l. Ne discenderebbe una estinzione sostanziale degli enti interessati, che risulterebbero privati del loro “nucleo minimo”, su cui sussisterebbe una riserva costituzionale di esercizio. Il d.l. n. 78 del 2010, traslando tutte le competenze in capo ad un soggetto diverso, configurerebbe, secondo il giudice rimettente, un’ipotesi assimilabile all’estinzione dell’ente locale per fusione o incorporazione, con conseguente applicabilità dell’art. 133, secondo comma, Cost. e l’esigenza di coinvolgere le popolazioni interessate. La Corte smentisce tale ricostruzione e afferma la mancata attinenza dell’obbligo di gestione associata con l’art. 133.

 

[7] Si guardi, in proposito, la legge della Regione Veneto n. 18 del 2012 e la legge della Regione Emilia-Romagna n. 21 del 2012.

 

[8] In questi termini, si veda Corte cost., 4 luglio 2001, n. 229 che, anche se con specifico riferimento al caso della creazione e della soppressione delle comunità montane, afferma come “le conseguenze concrete che ne derivano sul modo di organizzarsi e  sul modo di esercitarsi  dell’autonomia  comunale,  debbano necessariamente  coinvolgere  gli  stessi  comuni  interessati,  con modalita’ che la legge regionale deve prevedere per assicurare la necessaria efficacia della partecipazione comunale”. Per un commento alla pronuncia, Poggi A. in Diritto e giustizia, n. 29, 2001; sull’argomento anche Mainardis C., “Quale spazio per la leale collaborazione fra Regioni ed enti locali?”, in Le Regioni, 2002, pag. 150 e Morbioli P., “Focus sulla giurisprudenza costituzionale in materia di ordinamento degli enti locali”, in Le istituzioni del federalismo, 2011, n. 1, pag. 163.

 

[9]Il riferimento è a Corte cost., 23 dicembre 2005, n. 456, in Giust. amm., 2005, n. 6, pag. 1266, con nota di Giordano M. e a Corte cost., 20 giugno 2005, n. 244 del 2005, in Giorn. dir. amm., 2005, n. 10, pag. 1033, con nota di Sciullo G. Si veda anche Rescigno G.U., “Sul fondamento (o sulla mancanza di fondamento) costituzionale delle Comunità montane”, in Giur. Cost., 2005, n. 3, pag. 2120; Mangiameli S., “Titolo V, ordinamento degli enti locali e Comunità montane”, in Giur. cost., 2005, n. 3, pag. 2122. Commenta entrambe le sentenze, Vipiana P., “In margine a due recenti pronunce della Corte costituzionale sulle Comunità montane: commento congiunto delle sentenze nn. 244 e 456 del 2005”, in Quaderni regionali, 2006, n. 3, pag. 699.

 

[10] Sul punto, Corte cost., 10 febbraio 2014, n. 22. che, pronunciandosi sull’art. 19 del decreto legge n. 95 del 2012, rinviene un titolo di legittimazione statale ”nei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., ove la disciplina dettata, nell’esercizio di siffatta potestà legislativa concorrente, sia indirizzata ad obiettivi di contenimento della spesa pubblica”. Le disposizioni sulla gestione associata sono appunto finalizzate al contenimento della spesa pubblica, “creando un sistema tendenzialmente virtuoso di gestione associata di funzioni (e, soprattutto, quelle fondamentali) tra Comuni, che mira ad un risparmio di spesa sia sul piano dell’organizzazione “amministrativa”, sia su quello dell’organizzazione “politica”, lasciando comunque alle Regioni l’esercizio contiguo della competenza materiale ad esse costituzionalmente garantita, senza, peraltro, incidere in alcun modo sulla riserva del comma quarto dell’art. 123 Cost. In definitiva, si tratta di un legittimo esercizio della potestà statale concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica», ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost”. Sul ricorso alla materia del coordinamento finanziario operato dalla Corte, si legga Cortese F., “La Corte conferma che le ragioni del coordinamento finanziario possono fungere da legittima misura dell’autonomia locale”, in Le Regioni, 2014, n. 4, pag. 792; Meoli C., “Prime note a margine della sentenza n. 22 del 2014 della Corte costituzionale in materia di Unioni di Comuni”, in Giust. amm., 2014, n. 3. Si veda poi Corte cost., 13 marzo 2014, n.44. Di fronte alle censure delle Regioni ricorrenti sull’obbligo di gestione associata delle funzioni per i comuni fino a mille abitanti, la Consulta ricorda come “nella giurisprudenza di questa Corte, poi, è ormai costante l’orientamento secondo cui il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali (ex plurimis, sentenze n. 182 del 2011, n. 207 e n. 128 del 2010)”. E tali vincoli non risultano, ad avviso della Corte, pregiudizievoli dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali laddove siano rispettosi del “canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato”. In proposito, Falletta P., “L’espansione dei principi statali di coordinamento della finanza pubblica ai poteri ordinamentali sugli enti locali”, in Giur. Cost., 2014, n. 2, pag. 1116; Putaturo Donati M. G., “Competenza legislativa concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica e vincoli alle politiche di bilancio anche nei confronti delle Regioni a statuto speciale: ultime pronunce in tema della Corte costituzionale e prospettive di riforma”, in Giust. amm., 2014, n. 7. Per quanto concerne, in generale, la relazione sussistente tra autonomia e obbligo di esercizio associato delle funzioni, si veda ad esempio Massa M. “Associazioni, aggregazioni e assetto costituzionale dei Comuni”, in Le istituzioni del federalismo, I, 2014, pag. 97. L’autore compie, altresì, un esame delle questioni che hanno interessato, negli ultimi anni, la giurisprudenza costituzionale sull’esercizio associato delle funzioni, con il contributo “L’esercizio associato delle funzioni e dei servizi dei piccoli comuni. Profili costituzionali”, marzo 2012, in forumcostituzionale.it.

 

[11] La lettera l del comma 27, nello specifico, concerne “la tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali e statistici, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale”. Il prospetto delle funzioni fondamentali delineato dal menzionato comma 27 è stato ridefinito dal d.l. 95/2012, convertito dalla legge n. 135/2012, che ha previsto un elenco sostitutivo rispetto a quello precedente e provvisorio,  contenuto nell’art. 21, comma 3, della legge 42 del 2009. Recentemente, la legge n. 158 del 2017 relativa alle “misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonche’ disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni” ha disposto che “i piccoli  comuni  che  esercitano  obbligatoriamente  in  forma associata le funzioni fondamentali mediante unione di comuni o unione di  comuni  montani,  ai  sensi  dell’articolo  14,  comma  28,   del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito,  con  modificazioni, dalla legge 30 luglio  2010,  n.  122,  svolgono  altresi’  in  forma associata le  funzioni  di  programmazione  in  materia  di  sviluppo socio-economico nonche’ quelle relative all’impiego delle  occorrenti risorse  finanziarie,  ivi  comprese  quelle  derivanti   dai   fondi strutturali dell’Unione europea” (art. 13, comma 1).

 

[12] Prevede l’art. 14, comma 28, del d.l. 78 del 2010 che dall’obbligo di gestione associata sono “esclusi le isole monocomune ed il comune di Campione d’Italia”.

 

[13]  Nell’ordinanza, il Tar Lazio censurava anche l’utilizzo della decretazione d’urgenza in materia, richiamando – a sostegno delle svolte argomentazioni –  altresì la sentenza n. 220 del 2013 sulla riforma delle Province. Sostiene il giudice rimettente che la decretazione d’urgenza potrebbe essere compatibile con un’incidenza sulle singole funzioni degli enti locali, ma “la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza”.

 

[14] Corte cost, 18 gennaio 2018, n. 5 secondo cui “l’art. 77 Cost. è connotato da un “largo margine di elasticità” (sentenza n. 171 del 2017; si veda anche la sentenza n. 93 del 2011), sicchè solo l’evidente insussistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere determina tanto un vizio del decreto legge, quanto un vizio in procedendo della legge che ne disponga la conversione”.

 

[15] Tale definizione è utilizzata da Meloni G., “Le funzioni fondamentali dei Comuni”, in federalismi.it n. 24/2012. L’autore parla, ancora, di “dotazione funzionale tipica, caratterizzante e indefettibile di ciascun ente locale costituzionalmente garantito”.

 

[16] Il comma 25 della legge 122 del 2010, di conversione del d.l. 78 del 2010, afferma che “le disposizioni dei commi da 26 a 31 sono dirette ad assicurare il coordinamento della finanza pubblica e il contenimento delle spese per l’esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni”, non lasciando dubbi sul contesto scelto dal legislatore per disciplinare le funzioni fondamentali dei comuni.

 

[17] In Francia, in particolare, i processi di “intercommunalitè” hanno preso avvio dalla legge Marcellin del 1971 e, oggi, quasi la totalità dei comuni francesi partecipa alle unioni di comuni, gli EPCI. Sul tema della cooperazione intercomunale francese, in raffronto all’esperienza italiana, si veda Vandelli L. e De Donno M. “Évolutions de la décentralisation en France et en Italie: un regard comparé”, in Istituzioni del federalismo, 2016, numero ottobre/dicembre, pag. 867 e De Donno M.“La cooperazione intercomunale in Francia: appunti e spunti per le Unioni di Comuni italiane”, in Istituzioni del federalismo, n.2, 2017. In tale ultimo contributo, si sottolinea come una delle peculiarità del modello francese consista nella possibilità di trasferimento agli Epci della titolarità di una serie di funzioni amministrative, in una combinazione eterogenea. Nello specifico, il sistema francese prevede più tipologie di forme associative che si differenziano per finalità perseguite e funzioni esercitate, perché “ad ogni Communauté corrisponde un diverso complesso di funzioni obbligatorie, opzionali e facoltative progressivamente più ampio, man mano che dalla Communauté des communes si arriva alla Communauté urbaine”. Un modello di associazionismo intercomunale, quindi, che si distacca notevolmente da quello presente nel nostro ordinamento.