Il Decreto Ministeriale 1 marzo 2019, n. 46 sui valori soglia per la bonifica dei terreni agricoli: commento ad una prima lettura

Anna Grignani[1]

Sommario: 1. Breve introduzione: l’evoluzione normativa della disciplina sulla bonifica dei siti contaminati. – 2. La genesi del Decreto Ministeriale 1 marzo 2019, n. 46. – 3. Segue: un primo tentativo di colmare la lacuna normativa. – 4. I valori Concentrazione Soglia di Contaminazione per i terreni agricoli. – 5. La biodisponibilità e la contaminazione degli alimenti.

 

1. Breve introduzione: l’evoluzione normativa della disciplina sulla bonifica dei siti contaminati.

La bonifica dei siti contaminati è un tema tanto attuale quanto complesso e tanto attuale quanto poco sviluppato. Infatti il quadro normativo inerente tale problema si presenta come frastagliato, incompleto, disorganico e spesso contraddittorio tra i vari livelli in cui è declinato.

La questione connessa alla necessità di disciplinare questo fenomeno iniziò ad essere posta nella seconda metà degli anni ’80, ma la prima disciplina organica a livello nazionale si ebbe solamente con l’emanazione del Decreto Legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997 (conosciuto anche come “Decreto Ronchi”).

In particolare l’articolo 17 prevedeva, nel rispetto del principio “chi inquina paga”[2], che chi anche “in maniera accidentale”[3] avesse provocato un potenziale danno all’ambiente, attraverso il superamento dei limiti di concentrazione di sostanze tossiche, avrebbe dovuto provvedere, a proprie spese, al risanamento mediante la messa in sicurezza, la bonifica o il ripristino ambientale[4].

Il Decreto Ronchi, inoltre, coerentemente con il principio della sussidiarietà verticale[5], aveva disposto la ripartizione delle competenze in materia di bonifica tra gli enti territoriali; erano dunque coinvolti, a diverso titolo, il comune, la provincia, la regione oltre al Ministero dell’ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (nel prosieguo “Ministero dell’ambiente” o “MATTM”) e, per la parte di loro competenza, le autorità sanitarie locali e centrali[6].

Poiché l’ambiente è un bene la cui tutela rappresenta un interesse della collettività, era stato previsto che, nel caso in cui il colpevole non fosse stato individuato, individuabile o in grado di far fronte agli ingenti costi necessari per la bonifica, avrebbe dovuto provvederei il comune competente territorialmente e, in caso di sua inattività, la regione (art. 17, comma 9, D.Lgs. n. 22/1997)[7].

Successivamente, al fine di attuare compiutamente il Decreto Ronchi, il 25 ottobre 1999 è stato introdotto il Decreto Ministeriale n. 471 recante i criteri, le procedure e le modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati[8].

Per quel che qui interessa si richiama la differenza tra sito contaminato e sito potenzialmente contaminato così come enunciata all’articolo 2. I siti contaminati sono quelli che presentano “livelli di contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche […] tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per l’ambiente naturale o costruito”; viene precisato che, ai fini del Decreto, è da considerare inquinato il sito in cui è stato superato “anche uno solo dei valori di concentrazione delle sostanze inquinanti”. Diversamente, nei siti potenzialmente contaminati, “sussiste la possibilità che […] siano presenti sostanze contaminanti in concentrazioni tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per l’ambiente naturale o costruito”.

In aggiunta l’Allegato 1, e nello specifico sulla tabella 1, riporta i valori di concentrazione limite suddivisi in due colonne in base alla specifica destinazione d’uso del terreno: la colonna A è relativa ai “Siti a destinazione d’uso verde pubblico, privato, residenziale” mentre la colonna B ai “Siti ad uso commerciale ed industriale”. Gli elementi e i valori limite così introdotti non sono stati modificati sicché, salvo il recente aggiornamento relativo ai limiti per i terreni agricoli, essi sono tutt’ora i medesimi.

In seguito, per adeguarsi alle numerose direttive europee intervenute, e in particolare la Direttiva 21 aprile 2004, n. 35 sulla responsabilità ambientale, il Decreto Ronchi è stato abrogato e sostituito dal Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che appunto costituisce una svolta significativa nella legislazione ambientale nazionale, tanto da essere definito “Testo unico” o “Codice dell’ambiente”.

Con riguardo alla bonifica dei siti inquinati, disciplinata nella Parte IV del Titolo V dall’articolo 239 all’articolo 253, il testo presenta importanti novità[9] e, tra le altre, l’introduzione delle definizioni di “concentrazioni di soglia di contaminazione” e “concentrazioni di soglia rischio”. Le prime, d’ora in poi “CSC”, sono i livelli di contaminazione superati i quali è necessario operare una caratterizzazione del sito nonché l’analisi del rischio sito-specifica. Diversamente le seconde, a seguire “CSR”, rappresentano i livelli di contaminazione individuati in seguito alla predetta analisi sito-specifica; il risultato costituisce il valore limite accettabile il cui superamento obbliga ad effettuare la messa in sicurezza e la bonifica.

Passando ora all’esame della procedura amministrativa della bonifica contenuta nel Decreto Legislativo, si rileva che non vi è una disciplina unitaria ma che, al contrario, coesistono più procedimenti[10] che si distinguono in base al soggetto attuatore. Infatti, a seconda che si ponga l’attenzione sul soggetto responsabile, sugli interessati, sul proprietario o ancora sull’amministrazione, l’iter attuativo non è il medesimo. La differenza fondamentale riguarda la spontaneità dell’azione intrapresa: il soggetto responsabile e il proprietario incolpevole hanno l’obbligo di intervenire; gli interessati “possono” attivare le procedure per gli interventi di messa in sicurezza; infine l’amministrazione si attiva solamente in via residuale.

La pluralità dei procedimenti che possono essere intrapresi in sede di bonifica non differisce solo al variare del soggetto attuatore, ma anche in base alle caratteristiche del sito inquinato. L’articolo 249, infatti, prevede l’applicazione della disciplina semplificata di cui all’Allegato 4 del Decreto Legislativo 152/2006 per le aree di dimensioni ridotte. Vi sono poi i siti di interesse nazionale, affidati alla competenza del Ministero dell’ambiente e, in tal caso, la procedura è resa più complessa e gravosa dalla periodica convocazione di conferenze di servizi istruttorie e decisorie da parte del Ministro. Oltre a ciò, data la manifesta particolarità delle aree destinate alla produzione agricola e all’allevamento, nella stesura dell’articolo 241 del Codice dell’ambiente era stata prevista l’emanazione di uno specifico decreto con cui il Ministero avrebbe definito i valori soglia di contaminazione per queste aree. Tale vuoto normativo è stato colmato solo dopo 13 anni, con la promulgazione del Decreto Ministeriale 7 giugno 2019, n. 46. Infine, l’ultimo tipo di procedura differenziata è quella prevista per i siti di preminente interesse pubblico; questa è incentrata sulla cooperazione tra il Ministero dell’ambiente e il Ministero dello sviluppo economico.

 

2. La genesi del Decreto Ministeriale 1 marzo 2019, n. 46.

Passando ora all’oggetto principale del presente contributo, ovverosia l’analisi del Decreto Ministeriale 1 marzo 2019, n. 46, relativo agli interventi di bonifica, di ripristino ambientale e di messa in sicurezza, d’emergenza, operativa e permanente delle aree destinate alla produzione agricola e all’allevamento, occorre fare alcune precisazioni.

Già durante la vigenza del Decreto Ronchi mancava una disciplina che individuasse in modo specifico i valori di screening delle sostanze inquinanti oltre i quali sarebbe stato necessario bonificare i terreni agricoli. Sicché, onde scongiurare la possibilità che tale lacuna consentisse di evitare la bonifica delle suddette aree, a seguito di un parere dell’Istituto Superiore di Sanità[11], era stato stabilito che, fino all’adozione dell’apposito decreto, sarebbero stati applicati i valori limite stabiliti per i siti a destinazione d’uso “verde pubblico, verde privato, residenziale”, di cui alla colonna A della tabella 1 dell’Allegato 1 del Decreto Ministeriale 471/1999 (allegato oggi integralmente riportato all’Allegato 5 alla Parte Quarta del Codice dell’ambiente)[12]. In particolare, rinviando al principio di precauzione, si faceva riferimento ai valori della colonna A che, proprio perché maggiormente restrittivi[13], si riteneva che potessero tutelare adeguatamente l’ambiente e la salute dei cittadini[14].

Eppure, nonostante l’applicazione di questo principio, sussistevano alcune contraddizioni. Un esempio è quello fornito, dal Decreto Legislativo 27 gennaio 1992, n. 99 sull’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura. Tale Decreto, rimasto immodificato sino all’emanazione del Decreto Legge 28 settembre 2018, n. 109[15], meglio conosciuto come “Decreto Genova”, ha dato adito ad accesi dibattiti in dottrina come in giurisprudenza[16].

Il Decreto 99/1992 prevedeva che i fanghi, prima di poter essere adoperati a fini agricoli, dovessero essere sempre sottoposti a un trattamento poiché, laddove si fosse verificato il superamento dei valori CSR, i fanghi sarebbero stati considerati pericolosi per l’ambiente e la salute umana[17]. Nello specifico il comma 3 dell’articolo 3 prevede che “Possono essere utilizzati i fanghi che al momento del loro impiego in agricoltura, non superino i valori limite per le concentrazioni di metalli pesanti e di altri parametri stabiliti nell’allegato I B”. Occorre inoltre ricordare che, una volta utilizzati i fanghi, la concentrazione di metalli pesanti presenti nel terreno non deve essere superiore ai valori di cui alla colonna A della tabella 1 dell’Allegato 5 del Codice dell’ambiente.

Il combinato disposto delle due norme appena citate dava luogo ad un risultato paradossale[18]: invero, i valori previsti all’Allegato I B del Decreto Legislativo 92/1999 sono superiori non solo ai valori di cui alla colonna A della tabella 1 dell’Allegato 5 del Decreto Legislativo 152/2006, cui deve fare seguito l’analisi del rischio sito-specifica, ma addirittura ai valori di cui alla colonna B[19], superati i quali è necessario procedere alla bonifica. Nello specifico la disciplina dettata dal Decreto Legislativo 92/1999, prevedeva i seguenti valori: cadmio 20, mercurio 10, nichel 300, piombo 750, rame 1000, zinco 2500; mentre il Codice dell’ambiente dispone che i terreni siano bonificati nel caso di superamento dei seguenti valori: cadmio 15, mercurio 5, nichel 500, piombo 1000, rame 600, zinco 1500[20].

Pertanto, in alcuni casi – una volta utilizzati i fanghi – i valori previsti dalla disciplina specifica per il loro spargimento erano rispettati e, ciononostante, era necessario procedere con la bonifica poiché erano stati superati i valori CSR (inferiori a quelli per i fanghi) stabiliti dal Codice dell’ambiente per i suoli ad uso agricolo.

Su questa scia alcune amministrazioni locali hanno cercato di ovviare il problema individuando dei valori specifici applicabili per i terreni agricoli[21]. Al contrario, siffatto ragionamento non è parso corretto ai giudici del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, i quali hanno ritenuto che “in attesa di una revisione del D.M. 471/1999, che consideri espressamente anche gli standard di qualità per i suoli agricoli, per questi ultimi trovano applicazione i valori della colonna A[22].

 

3. Segue: un primo tentativo di colmare la lacuna normativa.

Una svolta significativa sul tema in parola si è registrata in occasione della pubblicazione della direttiva 23 dicembre 2013, volta alla mappatura dei territori dedicati all’agricoltura nei comuni di Napoli e Caserta[23]. Lo scopo della direttiva era di istituire un Gruppo di Lavoro (a seguire, “GdL”) con il compito di individuare all’interno del territorio regionale le eventuali contaminazioni causate dallo sversamento di sostanze inquinanti e/o dal loro smaltimento abusivo[24]. Inoltre, al GdL era stato chiesto di redigere una relazione finale[24] in cui indicare l’esito delle analisi effettuate, le tecniche utilizzate e le proposte operative in base ai risultati dell’indagine[26].

Al fine di comprendere l’ampiezza della portata innovativa introdotta dalla suddetta relazione, occorre richiamare il paragrafo 3 nella parte in cui fa riferimento ai valori CSC contenuti nella colonna A (siti a destinazione d’uso verde pubblico e residenziale) della tabella 1 dell’Allegato 5 della Parte IV del Titolo V del Decreto Legislativo 152/2006. Nel richiamare il Codice dell’ambiente, il GdL precisa che per i terreni agricoli i livelli non possono essere i medesimi, poiché, per determinare se sussista un reale e concreto pericolo per l’ambiente, e soprattutto per la salute umana, è necessario calcolare il livello di pericolosità del prodotto coltivato sul terreno analizzato. In altre parole, è essenziale non limitarsi all’osservazione dei valori di concentrazione soglia di contaminazione della sola matrice ambientale, perché non è detto che le caratteristiche dell’alimento siano tali da rendere necessaria la bonifica[27]. Ed invero, nella relazione viene espressamente detto che “nella valutazione dello stato di contaminazione delle aree ad uso agricolo, l’attenzione dovrebbe essere incentrata principalmente sulla possibilità del passaggio degli inquinanti dal suolo alla pianta” in quanto “la bioaccessibilità o biodisponibilità dei contaminanti nel suolo non dipende dal loro contenuto totale, ma, soprattutto, dalle forme chimiche e mineralogiche in cui sono presenti” oltre che molti altri fattori “quali le proprietà fisiche, chimiche e microbiologiche del suolo nonché delle proprietà chimico-fisiche del contaminante e della forma in cui esso è presente nell’ambiente[28].

Il GdL ha quindi stabilito di procedere elaborando un modello scientifico per “la valutazione dello stato di salubrità dei terreni agricoli, che prevede l’articolazione in 7 fasi operative”. La quinta fase, unica rilevante in questa sede, consiste in particolare nella classificazione dei terreni in quattro categorie con lo scopo di determinare il tipo di attività che vi si può svolgere in base allo stato di contaminazione. Le categorie sono: “a) idoneo alle produzioni alimentari; b) limitazioni a determinate produzioni agroalimentari in determinate condizioni; c) idoneo alle altre produzioni non alimentari; d) divieto di produzioni agricole[29].

Alle attività così individuate sono stati dunque abbinati otto livelli di rischio in cui il primo (“Livello 1”) indica che su quel terreno è possibile svolgere qualsiasi tipo di attività agricola e, soprattutto, che possono essere coltivati i prodotti destinati all’alimentazione umana. I valori CSC corrispondenti al Livello 1, sono doppi rispetto a quelli indicati nella colonna A della tabella 1 utilizzata per i terreni a destinazione d’uso “verde pubblico, verde privato e residenziale”. In questi casi, è precisato, non occorre procedere ad alcun tipo di attività ulteriore salvo, se necessario, effettuare accertamenti diretti e non prioritari.

Perciò, a ben vedere, pare che la Relazione 30 gennaio 2015, estesa poi a tutto il territorio nazionale, sia in contrasto con la sentenza pronunciata dal giudice amministrativo lombardo, il quale, parrebbe, non ha preso sufficientemente in considerazione le peculiarità dei terreni agricoli e della loro produzione.

 

4. I valori Concentrazione Soglia di Contaminazione per i terreni agricoli.

Il legislatore, dopo circa un decennio, ha dunque provveduto a colmare il vuoto regolamentare di cui già si è detto, emanando un apposito decreto con l’indicazione dei valori CSC specifici per i terreni agricoli; esso si compone di sette articoli e cinque Allegati di cui si tenterà di fornire una breve disamina.

L’articolo 1 specifica che il Decreto Ministeriale si fonda sul rispetto e l’applicazione del principio comunitario “chi inquina, paga”.

Il successivo, che precisa l’ambito di intervento, introduce alcune definizioni quali, fra le altre, quelle di “area agricola”; “produzione agroalimentare”, ossia l’ “attività di coltura agraria, pascolo e allevamento per la produzione di alimenti destinati al consumo umano o all’alimentazione di animali destinati al consumo umano”, e di “valutazione di rischio”. In merito a quest’ultima è specificato che il rischio deve essere valutato considerando l’esposizione indiretta agli agenti inquinanti (e non diretta come per i terreni a destinazione d’uso verde pubblico) derivante dall’assunzione di alimenti contaminati[30].

L’articolo 3 indica le “Procedure operative per la caratterizzazione delle aree” e riprende il contenuto dell’articolo 242 del Codice dell’ambiente. Tuttavia, diversamente da quanto stabilito dall’articolo 304 (Azione di prevenzione), che cita il comune, la provincia e la regione, esso aggiunge di contattare anche l’Azienda Sanitaria Locale (ASL) e l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente (ARPA) territorialmente competenti.

L’articolo 4 indica le azioni che devono essere compiute per la valutazione del rischio e viene specificato che le operazioni vanno eseguite tenendo conto “dell’ordinamento colturale effettivo e potenziale dell’area agricola o del tipo di allevamento su di essa praticato”. Inoltre, è bene notare che nelle more delle operazioni di caratterizzazione, è compito delle ASL stabilire le misure necessarie a garantire la sicurezza alimentare mediante “gli opportuni controlli sui prodotti agroalimentari per i parametri che superano i valori delle CSC”.

Il quinto articolo descrive le procedure operative e le modalità di attuazione degli interventi che si devono concretizzare attraverso la predisposizione di un progetto che deve indicare (comma 2): “a) una planimetria recante le particelle catastali oggetto di intervento; b) la descrizione delle tecnologie e dei processi da applicare; c) la descrizione degli obiettivi dell’intervento in termini di riduzione del rischio e la modalità di verifica degli stessi; d)l’indicazione delle limitazioni sulle tipologie di coltivazioni da adottare”. La corrispondenza tra gli interventi e il contenuto del progetto viene verificata, con il supporto tecnico delle ASL e dell’ARPA, in base al comma 2 dell’articolo 248 del Decreto Legislativo 152/2006.

Nel penultimo articolo, il sesto, sono esposti gli obblighi dei soggetti non responsabili dell’inquinamento che sono sostanzialmente invariati rispetto a quanto previsto per la bonifica dei siti contaminati nel Codice dell’ambiente.

Infine, l’articolo 7 indica le misure transitorie e finali che stabiliscono che tutte le procedure cominciate prima dell’emanazione del Decreto 46/2019 e non ancora concluse, debbano proseguire applicando la normativa del Codice dell’ambiente. Sono considerate terminate le procedure per le quali l’autorità competente ha già emanato il “decreto di approvazione degli interventi”.

Come detto, a completamento dei sette articoli vi sono i cinque Allegati.

Il primo riguarda la caratterizzazione delle aree agricole e distingue due modalità di campionamento a seconda che si tratti di aree omogenee (omogeneità di caratteri pedologici, medesimo tipo di avvicendamento colturale, uniformità delle pratiche agronomiche) e non omogenee. Rileva il riferimento operato dal comma 3, al Regolamento CE 333/2007 della Commissione del 28 marzo 2007 che stabilisce i metodi di campionamento ufficiali per i tenori di diverse sostanze inquinanti (cadmio, piombo, mercurio ed altri) nei prodotti alimentari.

L’Allegato 2 riporta in formato tabellare le CSC per i suoli agricoli. Su questo specifico aspetto si tornerà in seguito per cercare di fornire una lettura più organica del problema legato alla loro individuazione.

Nell’Allegato 3 vengono enunciati i criteri generali per la valutazione del rischio sanitario in base ai quali, laddove i valori delle CSC siano stati superati, debba essere espletata l’Analisi di Rischio (AdR) “in forma diretta considerando, come bersaglio, il fruitore del sito”. Parallelamente è disposto che vengano eseguite ulteriori indagini analitiche per determinare con maggiore precisione l’entità dell’inquinamento del sito. Laddove risulti una possibile contaminazione, si dovrà procedere alla Valutazione di Rischio Sanitario (VdR) onde appurare la compatibilità tra i livelli di contaminanti registrati e le colture o l’allevamento presenti sul sito.

L’Allegato 4 enuncia le tipologie di intervento applicabili e riprende il concetto già precedentemente esaminato secondo cui “il mantenimento di livelli di sicurezza adeguati per gli operatori agricoli ed i consumatori di prodotti ortofrutticoli non è necessariamente legato alla quantità totale di una specie inquinante presente nel suolo. Nel caso dei metalli, la frazione biodisponibile ha un ruolo chiave essendo soggetta ai meccanismi di assorbimento delle colture e di mobilizzazione nelle parti profonde nel suolo e sottosuolo”.

L’ultimo Allegato illustra gli adempimenti cui sono tenuti i cittadini e le imprese.

 

5. La biodisponibilità e la contaminazione degli alimenti.

L’emanazione del Decreto in parola è stata salutata con particolare entusiasmo dai tecnici della materia in quanto con esso si è (finalmente) recepito ciò che gli esperti sostenevano da qualche tempo circa il metodo più appropriato da utilizzare per determinare la pericolosità per l’ambiente e la salute, dei contaminanti presenti nel terreno.

La novità principale risiede nell’idea che il suolo è contaminato (e dunque sono necessarie operazioni di bonifica e ripristino), esclusivamente se i prodotti coltivati su quel terreno sono contaminati. In pratica, se i valori-soglia sono superati, è sempre necessario procedere con un’ulteriore analisi del rischio sito-specifica per poter affermare che un determinato sito è inquinato[31]. Infatti, come dimostrano recenti studi, non è scontato che da suoli contaminati derivino necessariamente colture contaminate[32].

In particolare, è stato osservato che nelle vicinanze di un’area industriale, sebbene le analisi del terreno avessero rilevato valori di zinco piuttosto elevati, non vi erano rischi connessi alla possibile assunzione dello stesso. Viceversa i ricercatori hanno evidenziato che vi erano alte possibilità di contaminazione collegate al cadmio ed al piombo.

In seguito a questo risultato i ricercatori hanno deciso, per valutare l’idoneità di un campo ad essere utilizzato come terreno agricolo, di ricorrere all’approccio dello scenario peggiore (“worst-case”) studiando il passaggio dei contaminanti dal terreno a specifici alimenti che accumulano, più di altri, gli elementi tossici[33]. È interessante notare come relativamente ai vegetali considerati nello studio (lattuga, spinaci, cicoria, rucola e radicchio) sia stato rilevato che il grado di assorbimento non solo è differente da verdura a verdura, ma cambia anche al variare del metallo.

L’esito delle analisi condotte ha consentito, contrariamente alla precedente classificazione, che riteneva quel sito non adatto ad un uso agricolo, di concludere che non vi erano ragioni per sostenere tale incompatibilità poiché l’assunzione di quegli alimenti non rappresentava una fonte di pericolo per la salute umana,.

Pertanto, a difesa del sistema introdotto dal Decreto Ministeriale 46/2019, che definisce le eventuali necessità di intervento “in relazione all’ordinamento culturale effettivo e potenziale dell’area agricola o del tipo di allevamento” (art. 4, comma 1), giova riprendere alcune considerazioni[34].

In primis è stato dimostrato che, per valutare l’incidenza del rischio che il contaminante passi dal suolo alla pianta, occorre individuare la percentuale di contaminante biodisponibile. Questa è la quantità di elemento potenzialmente tossico (Potentially Toxic Element, successivamente “PTE”) presente nel terreno che viene assorbita dalla pianta. La sua concentrazione è particolarmente importante in quanto permette di identificare la “mobilità” potenziale degli elementi tossici.

In secundis merita sottolineare che la biodisponibilità è una funzione data dalla relazione intercorrente tra molteplici fattori connessi al tipo di suolo che si sta analizzando. Ad esempio, il PH, il potenziale di ossido-riduzione, la temperatura, i materiali organici e la quantità di argilla presenti nel suolo influenzano il passaggio delle sostanze tossiche nei prodotti agricoli.

Da ultimo occorre evidenziare che, per determinare la contaminazione di un sito, sarebbe opportuno valutare anche i valori-fondo (normalmente indicati come “background values”) così da distinguere, coerentemente con quanto sostenuto nel punto precedente, i casi in cui un alto contenuto di PTEs è dato da fattori antropici o al contrario geogenici[35]. Invero, ad esempio, laddove si sovrappongono materiali vulcanici e alluvionali è frequente che i valori legalmente consentiti siano superati[36]per numerosi minerali.

Il Decreto de quo è particolarmente rilevante perché, come già accennato, ha introdotto nuovi e diversi criteri per misurare i valori CSC nel caso specifico dei terreni agricoli.

Dunque, per comprendere meglio la ratio delle modifiche introdotte, pare utile soffermarsi brevemente sul contenuto più spiccatamente tecnico del Decreto Ministeriale 46/2019, anche attraverso il confronto fra la nuova disciplina e la normativa corrispondente in alcuni Stati europei.

Per quel che qui interessa, è sufficiente analizzare l’innalzamento dei valori soglia di screening di alcuni elementi che, stando a recenti pubblicazioni dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare[37], sono tra i più pericolosi per la salute umana.

Nello specifico l’arsenico è passato da 20 a 30, il berillio da 2 a 7, il cadmio da 2 a 5, il cobalto da 20 a 30, il rame da 120 a 200 e lo zinco da 150 a 300[38]. Relativamente al berillio, la modifica può dirsi positiva in quanto l’Italia è uno dei pochi Stati europei ad aver previsto un valore-soglia per questo minerale (altri Paesi, tra cui la Repubblica Ceca, i Paesi Bassi e la Slovacchia, hanno stabilito valori decisamente più alti: 20-30). Tra le possibili spiegazioni della divergenza regolamentare circa la biodisponibilità del berillio, rientrano il fatto che si tratta di un minerale naturalmente contenuto nei sedimenti di origine vulcanica (per questo presente naturalmente in alcune regioni, quali la Campania)[39], che è difficilmente solubile in acqua e che non viene praticamente assorbito dalle piante. Tuttavia, stante la pericolosità del berillio per la salute umana, non pare che la scelta di prevedere dei valori limiti superiori a quelli contenuti dal Decreto 46/2019 rispetti il principio di precauzione e dunque tuteli sufficientemente l’ambiente e la salute.

Ugualmente degno di nota, poiché particolarmente pericoloso[40], è il cadmio che, una volta assorbito dalla pianta, viene trasferito verso le foglie e i frutti[41]. Cionondimeno, diversamente dalla corretta modifica introdotta per il berillio, quella relativa al cadmio non sembra appropriata. Difatti il valore individuato per tale metallo dal legislatore nazionale con il Decreto Legislativo 152/2006, pareva maggiormente adeguato giacché, essendo inferiore, obbligava a controlli più stringenti e, conseguentemente, maggiormente cautelativi.

Quanto detto fino ad ora, se considerato unitamente alle notevoli differenze riscontrabili tra la normativa dei diversi Stati membri rispetto alla determinazione dei PTEs, permette di notare come non sempre sia possibile ravvisare una ratio comune tra le numerose legislazioni nazionali. A titolo esemplificativo la soglia superata la quale il terreno è considerato potenzialmente contaminato (e quindi deve essere fatta l’analisi del rischio sito-specifica) per il Pb, è assai differente tra gli Stati europei: in Austria è 500, in Belgio (Fiandre) 700, in Repubblica Ceca 300, in Danimarca 400, in Finlandia 200, in Italia 100, nei Paesi Bassi 530, in Polonia 150, in Slovacchia 600 e nel Regno Unito 450[42].

A questo riguardo va ricordato che, benché la legislazione europea imponga il rispetto di regole comuni sulla quantità massima di elementi che possono essere contenuti nei cibi[43, lo stesso non avviene per i suoli agricoli sui quali sono coltivati gli alimenti. Ad esempio, alcuni Paesi hanno fissato i valori limite su basi statistiche, ovverosia considerando nei rispettivi territori il livello medio di contaminazione per ciascun elemento[44].

Pertanto stupisce che il legislatore europeo non abbia ancora provveduto a colmare questa lacuna che, indirettamente, potrebbe creare squilibri relativamente alla libertà di circolazione delle merci nonché alla tutela della concorrenza all’interno del mercato UE. Infatti, a causa di tale vuoto normativo, è possibile che gli Stati membri commercino tra loro prodotti agricoli realizzati in base ad una normativa sui valori-soglia per le coltivazioni assai differente.

E laddove si volesse ribattere, che la salute dei cittadini è adeguatamente tutelata dal Regolamento (CE) 1881/2006, che indica il quantitativo massimo di metalli che può essere contenuto negli alimenti, non si può non considerare che la divergenza tra le legislazioni nazionali potrebbe (e dovrebbe), per i motivi di cui sopra, implicare controlli capillari e specifici sui prodotti agricoli coltivati nei Paesi con una normativa meno rigida. In caso contrario, gli Stati che hanno adottato una legislazione più severa o si apprestano a farlo, potrebbero risultare penalizzati: gli operatori economici del settore agroalimentare operanti in questi Stati, infatti, dovrebbero scegliere tra sostenere ingenti investimenti necessari a bonificare i suoli agricoli non conformi alla normativa, o ridurre la superficie coltivabile avendo così meno risorse disponibili e divenendo meno competitivi.

Le conseguenze negative, determinate dall’assenza di una disciplina europea uniforme, riguardano non solo l’economia, dal punto di vista dell’accesso al mercato e della concorrenza, degli Stati membri dotati di una legislazione più rigorosa, ma anche la salute dei cittadini dei medesimi Paesi. Invero questi ultimi, stante il principio di libera circolazione delle merci, senza saperlo consumano cibi che, poiché coltivati su terreni con valori-soglia più elevati, se fossero stati prodotti all’interno dei confini nazionali, avrebbero subito delle restrizioni al commercio.

In conclusione, l’introduzione per i terreni agricoli di valori CSC uniformi a livello europeo che tengano conto sia della biodisponibilità dei contaminanti che della presenza delle sostanze inquinanti nel suolo, parrebbe una soluzione ragionevole. Questo, insieme alla legislazione vigente in materia di sicurezza alimentare, comporterebbe significativi e notevoli vantaggi in termini di tutela della salute dei cittadini e di salvaguardia dell’ambiente. Infine una cornice comune europea rafforzerebbe la libera circolazione delle merci perché in grado di evitare che uno Stato membro decida di vietare o ridurre l’accesso al suo mercato nazionale, a prodotti agricoli coltivati in Stati in cui si applicano valori CSC differenti e meno restrittivi.

 

 

[1] Dottoressa in Giurisprudenza

[2] M. Meli, Il principio comunitario “chi inquina paga”, Milano, Giuffrè, 1996; B. Pozzo, La direttiva 2004/35/CE e il suo recepimento in Italia, in Riv. giur. amb., 2010, n. 1, p. 1.

[3] F. Goisi, La natura dell’ordine di bonifica e ripristino ambientale ex art. 17 D.LG. n. 22 del 1997: la sua “retroattività” e la posizione del proprietario non responsabile della contaminazione, in Foro amm. CDS, 2004, n. 2, p. 567.

[4] R. Russo, Bonifica e messa in sicurezza dei siti contaminate: osservazioni sull’art 17 del D. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, in Riv. Giu. Amb., 1998, n. 3-4, 428 ss; Aa.Vv., La bonifica dei siti contaminati, F. Giampietro (a cura di), Milano, Giuffrè, 2001.

[5] Introdotto nel nostro ordinamento dalla Legge 15 marzo 1997, n. 59. Sul punto A. Mingarelli, Il principio di sussidiarietà: un criterio flessibile per la ripartizione delle competenze tra i vari livelli istituzionali, divenuto in Italia norma di diritto positivo, dopo l’entrata in vigore dell’art. 4 della legge n. 59/97, in Riv. amm., 1997, p. 461; P. Vipiana, Il principio di sussidiarietà «verticale». Attuazioni e prospettive, Milano, Giuffrè, 2002, p. 203.

[6] A. Palomba, Il riparto di competenze amministrative e questioni di legittimità costituzionale sul Decreto Ronchi. Il diritto del Comune al risarcimento nella nuova fattispecie del danno ambientale da bonifica, in www.lexambiente.com, 30 novembre 2001; F. Leotta, La natura giuridica delle attività di bonifica dei siti inquinati, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 2017, n. 1, p. 227.

[7] C. Vivani, La Cassazione si pronuncia sul diritto dei Comuni al risarcimento del danno ambientale, in Urbanistica e Appalti, 1998, n.7, p. 721.

[8] C. Videtta, I concetti di sito inquinato e di pericolo concreto ed attuale di inquinamento tra l’art. 17, comma 2 del d.lgs. 5 febbraio 1997 n.22 e il d. m. 25 ottobre 1999 n. 471, in P.V.M. Perpetua (a cura di), La bonifica dei siti inquinati: aspetti problematici, Padova, CEDAM, 2002.

[9] S.L. Cerruto, Note semi-brevi in tema di bonifiche. Analisi delle principali novità portate dal D.Lgs. n. 152/2006, pubblicato su https://www.ambientediritto.it/ , il 8/06/2006.

[10] S. Grassi, Problemi di diritto costituzionale dell’ambiente, Milano, 2012, p. 304.

[11] Nota 6 novembre 2003, prot. n. 051899, in www.iss.it.

[12] Tesi supportata dal T.A.R. Umbria n. 168/2004, in http://www.giustizia-amministrativa.it.

[13] La colonna B viene invece applicata ai siti a destinazione d’uso “industriale e commerciale”.

[14] Consiglio di Stato, sez. V, 1 luglio 2005, n. 3677, in http://www.giustizia-amministrativa.it.

[15] La modifica in parola, contenuta nell’articolo 41, dispone una variazione dei limiti con riferimento esclusivamente agli idrocarburi (C10-C40).

[16] A. Muratori, Il Consiglio di Stato insiste sul preteso rispetto delle CSC per i fanghi utilizzati in agricoltura, in Ambiente e Sviluppo, 2019, n.10, p. 701.

[17] In tal senso, ex multis, Corte di Cassazione penale, Sez, III, 6 giugno 2017, n. 27658.

[18] M. Benozzo, La bonifica dei siti inquinati nella determinazione delle soglie di contaminazione tra uso effettivo e destinazione urbanistica delle aree: il caso dei terreni agricoli, in Rivista Giuridica dell’Ambiente 2014, vol. VI, p. 0643.

[19] Ci si riferisce alla colonna B della tabella 1 dell’Allegato 5 del Decreto Legislativo 152/2006.

[20] L’unità di misura considerata è di mg kg-1.

[21] Deliberazione della G.R. Lombardia del 1 agosto 1996, n. 6/17252, pubblicato sul Bollettino Ufficiale Regione Lombardia, 2° suppl. straordinario al n. 41 del 10 ottobre 1996, inhttp://www.consultazioniburl.servizirl.it.

[22] T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 21 gennaio 2013, n. 50, in Foro amm. TAR, 2013, p. 27.

[23] La direttiva è stata emanata ai sensi degli artt. 1 e 2 del Decreto Legge 10 dicembre 2013, n. 136 dal Ministero dell’ambiente, di concerto con il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (MIPAAF), il Ministero della Salute e la Regione Campania.

[24] Gruppo costituito da rappresentanti di: Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (CRA), l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), l’Istituto superiore di sanità (ISS) e l’Agenzia regionale per la protezione ambientale in Campania (ARPAC), insieme a ulteriori esperti dei settori interessati.

[25] Relazione presentata il 10/03/2013, il cui contenuto è stato integralmente recepito dai tre Ministeri interessati in forza del Decreto Ministeriale del 11 marzo 2014 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 75 del 31 marzo 2014 è stata successivamente integrata dalla Relazione del 30 gennaio 2015.

[26] Articolo 3, lettera c della Direttiva Ministeriale 23/12/2013 recante le “Indicazioni per lo svolgimento delle indagini tecniche per la mappatura dei terreni della Regione Campania destinati all’agricoltura di cui al comma 1, del decreto-legge del 10 dicembre 2013, n. 136”, in https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/202

[27] M. Fagnano, Definition of a site as contaminated: problems related to agricultural soils, in Italian Journal of Agronomy, 2018, vol. III, p. 1.

[28] Pagina 4 della Relazione 10 marzo 2014.

[29] Pagina 8 della Relazione 10 marzo 2014.

[30] Lettere b) e c), articolo 2, D.M. 1 marzo 2019, n.46.

[31] A. Muratori, Dopo 22 anni, il Regolamento sugli interventi di bonifica nelle aree destinate alla produzione agro-zootecnica colma un vuoto “storico”, in Ambiente e sviluppo, 2019, n. 8-9, p. 608.

[32] N. Zheng, Q. Wang, D. Zheng, Health risk of Hg, Pb, Cd, Zn, and Cu to the inhabitants around Huludao Zinc Plant in China via consumption vegetables, in Science Total Environment Journal, 20 settembre 2007, vol. 383, p. 81-89.

[33] L.G. Duri, N. Fiorentino, E. Cozzolino, L. Ottaiano, D. Agrelli, M. Fagnano, Bioassays for evaluation of sanitary risks from food crops cultivated in potentially contaminated sites, in Italian Journal of Agronomy, 2018, vol. 13, p. 45-52.

[34] Ci si riferisce a considerazioni contenute nell’articolo di P. Adamo, D. Agrelli, M. Zampella, Chemical Speciation to Assess Bioavailability, Bioaccessibility and Geochemical Forms of Potentially Toxic Metals (PTMs) in Polluted Soils, in Environmental Geochemistry, 2nd Ed., p. 175–194.

[35] V. Paluzzi, Siti oggetto di bonifica e Valori di Fondo Naturale, in Ambiente e Sviluppo, n. 12-suppl., p. 34.

[36] D. Agrelli, P. Adamo, T. Cirillo, L.G. Duri, I. Duro, E. Fasano, L. Ottaiano, L. Ruggiero, G. Scognamiglio, M. Fagnano, Soil versus plant as indicator of agroecosystem pollution by potentially toxic elements, in Journal Plant Nutrition Soil Science, 2017, p. 1-15.

[37] Regolamento n. 1275/2013 del 6/12/2013 recante modifiche all’Allegato I alla Direttiva 2002/32/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio riguardante i livelli massimi di arsenico, cadmio, piombo, nitrati e le impurità botaniche nocive, in Official Journal of the European Union, L 328/86, p. 1–7.

[38] L’unità di misura considerata è di mg kg-1.

[39] G.F. Capra, E. Coppola, P. Odierna, E. Grilli, S. Vacca, A. Buondonno, Occurrence and distribution of key potentially toxic elements (PTEs) in agricultural soils: a paradigmatic case study in an area affected by illegal landfills, in Journal of Geochemical Exploration, 2014,vol. 145, p. 169–180.

[40] Secondo la DG Prevenzione sanitaria del Ministero della salute le popolazioni cronicamente esposte a detto metallo sviluppano patologie renali e alle ossa (soprattutto osteoporosi) legate ad una diminuzione di assorbimento di minerali da parete dell’osso. Si segnala inoltre che lo IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) ha classificato il cadmio come metallo “probabile cancerogeno par l’uomo”. Report “Acque potabili – parametri, Cadmio”, 2016, in www.salute.gov.it.

[41] Scientific Opinion of the Panel on Contaminants in the Food Chain on a request from the European Commission on cadmium in food, in EFSA Journal, 2009, vol. 980; Cadmium dietary exposure in the European population, in EFSA Journal, 2012, vol. 10(1). Entrambi disponibili suwww.efsa.europa.eu/efsajournal.

[42] C. Carlon., Derivation methods of soil screening values in Europe. A review and evaluation of national procedures towards harmonization, EUR 22805, European Commission, Rome, 2007.

[43] Regolamento (CE) n. 1881/2006 della Commissione del 19/12/2006, in https://eur-lex.europa.eu.

[44] M. Fagnano, Definition of a site as contaminated: problems related to agricultural soils, in Italian Journal of Agronomy, 2018, vol. III, p. 1.