Il panino della diseguaglianza. Nota alla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Un. Civili, 30 Luglio 2019, n. 20504

Cristina Poncibò[1]

1. La sentenza in commento.

La sentenza in esame riguarda la controversa questione della configurabilità di un diritto soggettivo dei genitori degli alunni delle scuole elementari e medie di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica e il pasto portato da casa e di consumarlo nei locali della scuola nell’orario destinato alla refezione scolastica. Dopo anni di discussioni giornalistiche e di opposte decisioni giurisprudenziali, il Supremo Collegio ha ritenuto di affermare l’inesistenza di un diritto soggettivo a mangiare il panino portato da casa nell’orario della mensa e nei locali scolastici, rilevando che la gestione del servizio di refezione è rimessa all’autonomia organizzativa delle scuole.

La vicenda ha avuto inizio nelle scuole torinesi.[2] Precisamente, nel novembre 2014 i genitori di alcuni alunni delle scuole primarie e secondarie di primo grado convenivano in giudizio il Comune di Torino e il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) per fare accertare il diritto sopra menzionato. Il giudice di merito, in prima battuta, aveva scelto la tesi esposta dall’amministrazione torinese, escludendo un diritto alla prestazione mensa con modalità particolareggiate, differenti da quelle previste dalla normativa vigente, o ad un servizio alternativo rispetto a quello interno alla scuola, per chi intende consumare il pasto preparato in casa.[3] In particolare, il giudice di merito rilevava che nel caso in cui le famiglie avessero scelto il tempo pieno sarebbero state libere di prendere i figli da scuola durante l’orario della mensa scolastica, farli mangiare in casa e riaccompagnarli per le attività pomeridiane.

Con sentenza del 21 giugno 2016, la Corte di Appello di Torino, in seguito, ha affermato la sussistenza di diritti soggettivi dei genitori degli alunni delle scuole dell’obbligo, sia all’opzione, per i propri figli, tra il servizio di ristorazione scolastica ed il pasto portato da casa, sia il relativo consumo negli ambienti scolastici nello stesso orario del servizio di ristorazione. Tale diritto sarebbe rinvenibile, secondo il giudice, alla luce della disciplina vigente e dei principi costituzionali in materia di diritto all’istruzione, all’educazione e all’autodeterminazione inerenti alle scelte alimentari. Il giudice di appello si asteneva, però, dal dettare “le modalità pratiche per dare concreta attuazione alla sentenza”, non ritenendo possibile “consentire indiscriminatamente agli alunni di consumare il pasto domestico presso la mensa scolastica”.[4]

Così, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5156 del 3 settembre 2018, seguendo l’impostazione seguita dalla Corte di Appello di Torino, annullava per eccesso di potere una delibera di un comune che vietava, nei locali in cui si svolge il servizio di refezione scolastica, il consumo, da parte degli alunni, di cibi diversi da quelli forniti presso l’istituto scolastico.

Avverso questa sentenza della Corte di Appello di Torino, proponevano ricorso in Cassazione, in via principale, il Comune di Torino e, in via incidentale, il Miur, cui si sono opposti i privati con controricorso.[5]

Secondo il Comune di Torino e il Ministero (Miur) consumare il cibo portato da casa durante l’ora della refezione scolastica determinerebbe dei problemi di carattere organizzativo e finirebbe per ledere, in qualche modo, il diritto degli altri bambini a utilizzare il servizio della mensa messo a disposizione della scuola. Il Ministero ha sostenuto, per esempio, che la presenza durante la mensa di cibo portato da casa può rendere difficoltoso il rispetto delle norme di sicurezza igienica e alimentare cui sono chiamate a rispondere le ditte responsabili della fornitura dei pasti nelle scuole. Per consentire ai bambini il cosiddetto ‘diritto al panino’ durante l’orario di mensa, la scuola dovrebbe organizzare un servizio di controllo aggiuntivo, non sempre possibile, che dovrebbe contemperare tale diritto con quello degli altri bambini ad usufruire in totale sicurezza il servizio mensa.  Inoltre, secondo il Miur, la refezione scolastica non sarebbe obbligatoria e pertanto chi non vuole usufruire del servizio di mensa scolastica può tranquillamente rinunciarvi, prelevando prima l’alunno da scuola oppure riportandolo dopo il termine del servizio mensa.

Diversamente, la posizione dei ricorrenti che rivendicavano il loro diritto a una scelta alimentare libera, che non può compromettere il diritto dei minori ad usufruire dell’orario scolastico previsto per legge. L’orario dedicato alla refezione scolastica è incluso nell’orario scolastico, di conseguenza la scuola è obbligata a garantire anche gli alunni che non si avvalgono del servizio mensa di poter usufruire del servizio di istruzione durante tutto l’orario previsto. I ricorrenti hanno anche sostenuto la facoltatività del servizio mensa, che, tra l’altro è a titolo oneroso, non esenta la scuola dal garantire tutti gli alunni l’intero orario scolastico previsto dalla legge. Il regolamento comunale che prevede il divieto per i bambini di consumare il cibo da casa durante l’orario di mensa, andrebbe a ledere, ad avviso dei predetti genitori, il dettato costituzionale del diritto ad usufruire del servizio scolastico, e pertanto deve essere considerato viziato e quindi annullabile.

La Corte di cassazione, con ordinanza dell’1 marzo 2019, ha rimesso gli atti di causa al Primo Presidente al fine di sottoporre alle sezioni unite della corte medesima la risoluzione della seguente questione: “(…) se sia configurabile un diritto soggettivo perfetto dei genitori degli alunni delle scuole elementari e medie, eventualmente quale espressione di una libertà personale inviolabile, il cui accertamento sia suscettibile di ottemperanza, di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica e il pasto portato da casa o confezionato autonomamente e di consumarlo nei locali della scuola e comunque nell’orario destinato alla refezione scolastica, alla luce della normativa di settore e dei principi costituzionali, in tema di diritto all’istruzione, all’educazione dei figli e all’autodeterminazione individuale, in relazione alle scelte alimentari (artt. 2, 3, 30, comma 1, 32, 34, commi 1 e 2, Cost.) (…).”

 

2. Il quadro normativo e regolamentare oggetto della sentenza.

A livello costituzionale, le doglianze dei ricorrenti e, di riflesso, la pronuncia delle Sezioni Unite, hanno come fondamento normativo gli articoli 2, 3, 30, comma 1, 32, 34, commi 1 e 2, Cost., i quali statuiscono rispettivamente: il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo non solo come singolo ma come parte integrante le formazioni sociali ove esplica al meglio la propria personalità; l’uguaglianza formale e sostanziale tra i cittadini; il dovere e diritto dei genitori di istruire, educare e mantenere i figli, non solo quelli nati all’interno del vincolo matrimoniale ma anche quelli nati fuori lo stesso e quelli adottati; la tutela della salute e la libertà di autodeterminarsi in tale ambito e, dunque, anche nelle scelte alimentari; la gratuità ed obbligatorietà dell’istruzione inferiore.

Per quanto concerne la normativa di settore, gli artt. 3 e 6 del decreto legislativo n. 63 del 2017 dispongono che, tra gli altri, il servizio di mensa è erogato in forma gratuita, “ovvero con contribuzione delle famiglie a copertura dei costi, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, guardando al c.d. ISEE, l’indicatore della situazione economica equivalente, che misura la condizione economica delle famiglie tenendo conto di molteplici fattori. Inoltre, il “tempo mensa” incluso nel c.d. “tempo scuola” a “tempo pieno” è un servizio facoltativo offerto ai genitori, non un diritto.

Il fatto che la refezione scolastica integri il tempo trascorso a scuola risulta effettivamente dal quadro normativo. In particolare, l’art. 6, d.lgs. n. 63/2017 prevede la possibilità di attivare il servizio mensa nel contesto del “tempo pieno” avente un orario settimanale stabilito a priori che deve ricomprendere il “tempo mensa”. Ancora, l’art. 1, d.l. n. 147/2007, convertito nella legge n. 176/2007 che, nel reintrodurre il “tempo pieno” nell’organizzazione della scuola primaria, stabilisce l’orario settimanale di quaranta ore, comprensivo del tempo dedicato alla mensa. Infine, il D.P.R n. 89/2009, all’art. 5 dispone che nella scuola secondaria di I grado l’orario settimanale deve comprendere il tempo dedicato alla mensa, in concorso con quello per l’insegnamento e per le attività.

Oltre alla presenza nel nostro ordinamento di normativa volta a chiarire la collocazione del servizio mensa, vi sono fonti primarie e secondarie che si preoccupano di stabilirne la finalità, di modo da non dare adito a dubbi in merito. In tal senso, s’inserisce la circolare ministeriale n. 29/2004 del MIUR che stabilisce la necessità del servizio mensa a garanzia dello svolgimento delle attività didattiche ed educative. In base a tale circolare, il servizio mensa, dunque, assolverebbe alle finalità educative proprie del progetto formativo scolastico in quanto porta con sé una propria funzione didattica, ovvero quella dell’educazione alla sana alimentazione. Dello stesso tenore l’art. 9 del d. lgs. n. 59/2004 che pone in luce l’importanza della scuola secondaria di primo grado nel rafforzamento delle capacità d’interazione sociale del singolo alunno, offrendo al “tempo mensa” l’altra finalità di socializzazione in concorso con quella educativa.

Per quel che concerne l’organizzazione del servizio mensa, quale servizio offerto dall’istituto scolastico in piena autonomia e nel rispetto del principio di buon andamento, l’art. 7, comma 4 del d.lgs. n. 59 del 2004 tratta di “assistenza educativa da parte del personale docente nel tempo eventualmente dedicato alla mensa”. Così, l’art. 7 del d.lgs. n. 59/2004 continua al comma 5 statuendo che “L’organizzazione delle attività educative e didattiche rientra nell’autonomia e nella responsabilità delle istituzioni scolastiche” ed infatti, ai sensi del D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, le stesse godono di autonomia didattica (art. 4) ed organizzativa (art. 5).

 

3. L’iter argomentativo della sentenza e i prossimi passi.

Innanzitutto, nella sentenza si legge che: “La nozione di istruzione, soprattutto nelle classi elementari e medie, non coincide con la sola attività di insegnamento, ma comprende anche il momento della formazione che si realizza mediante lo svolgimento di attività didattiche ed educative, tra le quali l’erogazione del pasto è un momento importante”.[6]

Parrebbe che mangiare quel che serve la mensa sia considerato alla stregua di parte integrante del processo formativo: secondo tale dubbia impostazione, il pasto collettivo contribuirebbe a rafforzare lo spirito di gruppo e ad accrescere l’integrazione sociale. Ora, la socializzazione coatta e imposta, in ogni singolo momento della giornata scolastica, pasti inclusi, non è detto che crei un autentico spirito comunitario.

A contrario, la possibilità di coltivare i propri spazi di autonomia e di libertà individuale dovrebbe essere considerato a sua volta parte del processo formativo – ammesso che mangiare un panino da soli serva a questo scopo. Più in generale, ha senso considerato il tempo trascorso a mensa come qualcosa di vincolante e obbligatorio dal punto di vista educativo?

Nel leggere la sentenza ci si chiede, in altre parole, se la scuola non debba favorire la libera formazione della personalità consentendo a ognuno di coltivare le proprie preferenze, anche alimentari, e di sviluppare i propri talenti?

Al contrario, le Sezioni Unite, seguendo le argomentazioni del Comune di Torino e del Miur, hanno stabilito che “l’istituzione scolastica non è un luogo dove si esercitano liberamente i diritti individuali degli alunni, né il rapporto con l’utenza è connotato in termini meramente negoziali”.

Ora, tale pensiero è obiettivamente infelice almeno con riferimento alla prima parte: a nostro avviso, è evidente che le famiglie e i bambini sono titolari di diritti individuali anche nello ‘spazio’ della scuola, il primo luogo d’incontro fra i minori e l’istituzione pubblica.

Secondo lo S.C., “l’istituzione scolastica è un luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la valorizzazione delle diversità individuali devono realizzarsi nei limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della comunità”. Orbene, non è dato di sapere quale possa essere l’interesse (soggettivo) di un alunno il fatto che un altro studente non eserciti il suo interesse (soggettivo) a mangiare il panino portato da casa.

E’ peraltro vero che tale soluzione implica un’altra discriminazione o comunque speculare a quella che si vorrebbe evitare, costringendo tutti a mangiare a mensa, in altre parole lasciando ai genitori, come unica libertà, di portare i loro figli a casa per il pasto per poi riportarli a scuola.

Inoltre, se il tempo mensa assolve alle finalità educative proprie del progetto formativo scolastico in quanto porta con sé una propria funzione didattica, ovvero quella dell’educazione alla sana alimentazione, l’alunno che non vi partecipasse non gioverebbe dei benefici che tali insegnamenti portano con sé.

A tal proposito, anche in conformità ai programmi di educazione alimentare elaborati dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, il tempo mensa sarebbe il più idoneo a concretizzare la finalità di cui sopra, facendo sì che gli alunni possano prendere coscienza del significato della locuzione sana alimentazione, consumando consapevolmente i prodotti loro proposti.

Alla finalità educativa si aggiungerebbe la finalità di socializzazione che si manifesta specialmente al momento del consumo del pasto con i propri compagni di classe, profilandosi una fondamentale occasione di condivisione che permette al bambino di sviluppare maggiormente anche la propria personalità, in linea con l’art. 2 della Costituzione.

Nella sentenza il S.C. rileva a tale proposito che “non è agevole comprendere come il pasto solitario degli alunni con cibo proprio, in locali destinati nella scuola, possa realizzare gli obiettivi di socializzazione e condivisione che ineriscono all’invocato diritto di usufruire del cosiddetto tempo scuola”.

Per questi motivi la corte ha ritenuto che riconoscere il diritto in capo agli alunni di portare un pasto diverso non sarebbe in linea con le finalità proprie del tempo mensa, al quale deve guardarsi come una parte del percorso educativo stabilito per i bambini.

Secondo i giudici di legittimità non sussisterebbero dei profili discriminatori tra chi partecipa alle attività formative pomeridiane, avendo aderito all’offerta formativa del «tempo pieno» e «prolungato», comprensivo del servizio mensa, e coloro che alla suddetta offerta formativa non hanno aderito per la loro libera scelta di rifiutare la mensa, preferendo il pasto domestico.

 La discriminazione non si profilerebbe perché, in virtù del principio di eguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost., le categorie di alunni di cui trattasi non sono rapportabili in quanto diverse. La corte proseguiva dichiarando che, sulla base della normativa vigente, il “tempo mensa” debba considerarsi parte integrante il “tempo scuola”, ma questo non può portare all’errata conclusione di una compromissione del diritto all’istruzione dell’alunno. Infatti, come detto, nulla vieterebbe ai genitori di prelevare il proprio figlio nell’ora della somministrazione del pasto per poi riportalo presso l’istituto scolastico lasciandolo assistere alle lezioni pomeridiane.

Inoltre, non varrebbe in tal caso il paragone con il diritto di obiezione previsto nelle scuole ad esempio per l’ora di religione, la cui esenzione «è stata riconosciuta espressamente dalla legge»; i diritti dei singoli – sostengono i giudici – sono già garantiti dalla possibilità “di influire sulle scelte riguardanti le modalità di gestione del servizio mensa, rimesse all’autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche”, con la partecipazione di commissioni di genitori.

Invero, la sentenza, a leggerla con attenzione, non è risolutiva. Aver rimesso all’autonomia organizzativa delle scuole le scelte riguardanti le modalità di gestione del servizio mensa, infatti, lascia aperta la possibilità che laddove ce ne siano le possibilità dal punto di vista gestionale e laddove esista un accordo con le famiglie e tra le famiglie, come peraltro nel recente passato è accaduto in alcune realtà locali, si possa tranquillamente lasciare libertà di scelta tra il servizio mensa e il pasto preparato a casa. In realtà, il rinvio all’autonomia organizzativa della singola scuola rischia di favorire l’insorgere di un nuovo contenzioso locale, ponendo, in modo errato, la responsabilità della scelta sul singolo istituto.[7]

Infatti, la questione della refezione scolastica è tutt’altro che risolta. In tal senso, nella sentenza del 16 settembre 2019, Il TAR Lazio, richiamando la succitata sentenza del Consiglio di Stato n. 5156/2018, ha condannato “la scuola ad adottare, senza ritardo, tutte le misure e gli accorgimenti di legge atti a disciplinare la co-esistenza nel medesimo refettorio, di pasti di preparazione domestica e di pasti forniti dalla ditta comunale di ristorazione collettiva”.[8]

In sintesi, alla luce della giurisprudenza più recente, il diniego al pasto domestico non dovrebbe essere generalizzato, ma l’accettazione delle domande dei genitori sarebbe demandata alle singole istituzioni scolastiche, al termine di un procedimento che permetta alla scuola di valutare alcune condizioni di sostenibilità, tenendo conto della propria offerta formativa e situazione organizzativa.

 

4. Libertà o eguaglianza?

In una prima lettura, il caso in esame potrebbe apparire futile o di modesta rilevanza. [9] Al contrario, le questioni dibattute dal Supremo Collegio nella sentenza in esame concernono alcuni principi di rilevanza costituzionale, la nostra libertà e quella dei nostri figli, l’eguaglianza e la solidarietà sociale.[10]

Il relativo benessere della società occidentale ha favorito, negli ultimi decenni, l’emersione di una nuova espressione di manifestazione della libertà individuale: quella di scegliere la dieta alimentare da seguire. Ciò che si mangia diventa, cioè, sempre più spesso espressione di una precisa scelta di vita e non già solo di una necessità. [11]

Gli studiosi collocano detta libertà non  tanto nell’ambito dell’esercizio della libertà fisica (art. 13 Cost.) o del fondamentale diritto alla salute (art. 32 Cost.) – che, come noto, legittimano il rifiuto di ricevere sia le prestazioni sanitarie, anche se indispensabili alla cura della malattia, sia qualsiasi forma di nutrimento, quanto piuttosto nell’alveo del diritto alla libertà di coscienza dell’individuo (art. 18 Cost.).

Poiché si tratta di una libertà garantita dalla Costituzione, ne consegue che lo Stato è tenuto a rispettare le scelte alimentari dei propri cittadini anche qualora esse si rivelino dannose per la loro salute, ma è altresì obbligato a far sì che le stesse, allorché rappresentino espressione della libertà di coscienza o di religione, siano garantite nelle comunità intermedie all’interno delle quali ciascuno individuo svolge la propria personalità. Tale argomento vale, in particolare, rispetto a tutte quelle istituzioni pubbliche (quali ospedali, scuole, carceri, ecc.) che il soggetto si trova o può trovarsi a frequentare, per periodi più o meno lunghi di tempo, nel corso della sua esistenza e all’interno dei quali intende vedere assicurata la possibilità di scegliere il proprio regime alimentare.

Con riguardo ai minori, la giurisprudenza amministrativa si è trovata a dover affrontare la pretesa dei genitori volta a far seguire ai propri figli specifiche diete nell’ambito del servizio delle mense scolastiche il quale è, peraltro, caratterizzato dalla necessità di rispettare particolari canoni dietetici, prestabiliti sulla base delle prescrizioni di esperti di alimentazione dell’infanzia.

Per esempio, la ferma decisione di disattendere la richiesta dei genitori o del genitore affidatario di far seguire al figlio una particolare dieta (e, per l’esattezza, quella vegana) si è tradotta nell’esclusione del bambino dalla frequenza, nella specie, dell’asilo comunale, con provvedimento giudicato, tuttavia, illegittimo, poiché sproporzionato e abnorme.[12]

Se la scelta del regime alimentare da adottare rappresenta senz’altro una prerogativa di ciascun individuo che non può essere in alcuna misura limitata dai poteri pubblici, ma che al contrario deve essere il più possibile garantita e agevolata al fine di consentire la piena realizzazione della personalità di ciascuno, il discorso cambia quando qualcuno pretende di imporre ad altri il dovere di seguire la sua stessa dieta.

Al contrario, il collegio delle Sezioni Unite ha evidenziato che l’istituzione scolastica non è un luogo dove si esercitano in modo libero i diritti (precisamente: il predetto diritto di scelta alimentare), bensì un luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli discenti, e la valorizzazione delle particolarità individuali, devono realizzarsi nei limiti della compatibilità con gli interessi degli alunni e della comunità.

Precisamente, secondo i giudici, portare il pasto domestico potrebbe configurarsi come violazione dei principi di uguaglianza e di non discriminazione degli alunni, secondo le condizioni economiche delle famiglie, e del diritto alla salute per i rischi igienico-sanitari legati al pasto da casa.

 

5. La solidarietà sociale a scuola.

Ora, la sentenza in esame accenna ad un’altra questione giuridica e ancora più sociale.[13] Secondo i giudici di legittimità, la scuola (e la refezione scolastica) consentirebbe di perseguire delle finalità di solidarietà sociale. 

Nel caso specifico, i costi del pasto scolastico dipendono sostanzialmente dal citato ISEE delle famiglie. Pertanto, le famiglie contribuiscono al sistema della refezione scolastica in modo diverso e secondo i criteri stabiliti dal predetto indicatore.

La vicenda torinese inizia, invero, con la critica di alcune famiglie rispetto ai costi del servizio di ristorazione scolastica nelle scuole dei figli, all’aumento di tali costi negli ultimi anni, e alla relativa qualità del servizio offerto rispetto al costo sostenuto dalle famiglie.

Va subito detto che le istituzioni pubbliche ben avrebbero potuto favorire la maggiore serenità della discussione, facendo un esercizio di trasparenza e, pertanto, motivando i costi del pasto presso la mensa scolastica e portando il dettaglio di tali costi all’attenzione delle famiglie. Spesso, la discussione in questa materia pare derivare dall’opacità delle informazioni sui criteri che concorrono a determinare il costo del servizio in esame, sulla scelta, provenienza e qualità delle materie prime e sui metodi di preparazione dei pasti nel rispetto delle norme e dei regolamenti concernenti l’igiene e sicurezza alimentare. La presenza di commissioni mensa con una rappresentanza di genitori non pare essere risolutiva a tale fine, tanto che la maggior parte delle famiglie continua a non avere ben chiare le ragioni sottese all’aumento dei costi del servizio.

Ecco dunque la ‘vera’ questione controversa nel caso in esame: la scuola deve certamente promuovere la solidarietà sociale fra gli alunni, ma quale soggetto (lo stato, il comune, le famiglie) è tenuto a sostenere economicamente, in tutto o in parte, tale importante e condivisibile obiettivo e in quale misura?

In un paese come il nostro con elevati livelli di fiscalità generale, le famiglie, già provate dalla scarsa crescita economica, sono chiamate a farsi carico, sempre con maggiore frequenza, dei costi inerenti alla gestione ordinaria della scuola pubblica dell’obbligo, che non dovrebbe essere peraltro gratuita? La refezione scolastica, che è parte del processo formativo secondo i giudici di legittimità, non dovrebbe essere anch’essa gratuita?

A tale proposito, ritorna in mente la pratica da parte di alcuni comuni, di escludere dall’accesso alla mensa i bambini le cui famiglie sono morose, con effetti gravissimi sul piano educativo e psicologico per i bambini coinvolti e per i loro compagni. Altri comuni, invece, si rivalgono se necessario sui genitori morosi con altre modalità amministrative che non incidono sui bambini, prevedendo specifiche forme di sostegno per i genitori che affrontano situazioni di necessità improvvise, come la perdita del lavoro, o che sono residenti in altri comuni.

In questa situazione, il caso dei costi refezione scolastica rappresenta solo una delle espressioni di critica rispetto a un sistema scolastico pubblico (statale e comunale), privo di risorse economiche, che si caratterizza, tanto per dire, per la vetustà degli edifici, l’assenza di manutenzione (spesso a carico dei genitori e dei nonni volontari durante l’estate), la richiesta alle famiglie di contribuire con beni di prima necessità alle esigenze dei propri figli nell’orario scolastico.

Tali compiti (e i relativi costi) sono posti in modo crescente a carico della società civile, poiché le istituzioni hanno derogato al proprio compito in campo educativo, scegliendo di utilizzare le poche risorse per altre finalità.[14]  Si tratta, quindi, di un tema politico di rilevanza collettiva che, poiché tale, andrebbe ragionevolmente discusso in sedi diverse dalle aule di tribunale.[15]

 

6. Le esperienze di alcuni altri paesi: cenni.

E’ anche lecito domandarsi se sia possibile immaginare un modello di gestione della refezione scolastica diverso da quello che caratterizza la scuola pubblica nel nostro paese.

In un recente articolo, una giornalista nel discutere della situazione nelle scuole pubbliche americane, ha commentato il caso italiano che ha assunto, ormai, notorietà internazionale.[16]

L’articolo accenna alla varietà delle soluzioni adottate sulla refezione scolastica in alcuni paesi occidentali. Ne emerge una chiara distinzione fra i paesi, pur molto diversi fra loro per condizioni economiche, sociali e culturali (per esempio l’Olanda e gli Stati Uniti, l’Egitto, Australia) nei quali il pranzo da casa (packed lunch) è ammesso e praticato e quei paesi (per esempio l’Italia, la Francia, il Giappone) nei quali il sistema scolastico prevede, in linea di principio, la refezione scolastica presso la mensa della scuola.

Sorprende, innanzitutto, che, in alcuni paesi (l’Australia, per citare un esempio), la refezione scolastica non sia generalmente prevista nelle scuole. Così, in Olanda i bambini portano a scuola il lunch trommel, che sarebbe il nostro baracchino. Essendo molto utilizzati, se ne trovano di ogni foggia, colore e dimensione e contengono panini con salumi e formaggio, latte o succo di frutta e frutta fresca.

Orbene, lo stesso articolo dell’autrice sopra citata impone al lettore di riflettere laddove, con riferimento al caso della scuola pubblica, tale scritto rileva come il pranzo da casa abbia finito per diventare in alcuni stati americani un’occasione di malnutrizione, specialmente per i bambini provenienti dalle famiglie caratterizzate da situazione di disagio economico e sociale.

Diversamente, la mensa è prevista nei paesi sopra ricordati. Per esemplificare, in Giappone lo spazio è sempre molto ristretto, per cui non è comune che le scuole elementari siano dotate di uno spazio dedicato al pranzo. Gli alunni mangiano in classe e assumono la responsabilità di apparecchiare, distribuire il cibo e rimettere tutto sulla fine del pasto. Il governo giapponese paga la maggior parte della spesa per la mensa, ma una parte è a carico dei genitori.

Nella vicina Francia, la questione mensa è stata oggetto di numerosi dibattiti e polemiche, soprattutto legate ai costi: i giornali occasionalmente riportano dei casi di minori esclusi dalla refezione scolastica perché i genitori non avevano i mezzi per pagare la retta. Di conseguenza, la Francia ha adottato una normativa che vorrebbe garantire l’accesso alle mense a tutti gli alunni, evitando così la discriminazione delle famiglie in difficoltà.

In buona sostanza, il riferimento ad alcune esperienze dimostra come il pasto da casa sia non solo possibile, ma anche diffuso in alcuni sistemi scolastici. Un’altra soluzione è dunque possibile sotto il profilo organizzativo, anche se forse non auspicabile visto il rischio che tale approccio sia lesivo dei diritti dei minori che si trovino in condizioni di disagio economico.

 

7. Il grande assente: l’interesse del minore.

Infine, nella sentenza qui in commento c’è un grande assente: l’interesse del minore, anche rispetto alla scelta alimentare dettata dal genitore.[17] Il S.C. ha già in passato sottolineato come i minori possano, in certe circostanze, anche essere portatori di interessi diversi o contrapposti a quelli dei genitori.[18]

Orbene, non vi è dubbio che i genitori possano educare i propri figli secondo gli orientamenti etici, religiosi o solo pedagogici che ritenga più opportuni e, quindi, di fissare per la prole regole alimentari ben precise. Infatti, all’art. 14, comma 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che riconosce “il diritto dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche”, fa eco nel nostro ordinamento l’art. 30, comma 1, Cost. secondo cui “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”.[19]

Tuttavia, il diritto di educare i figli secondo i propri convincimenti religiosi, filosofici e pedagogici, operando in concorso con altri principi vigenti nel nostro ordinamento, è destinato, nell’ambito di un ordinario procedimento di bilanciamento, a cedere di fronte ad altri principi portatori di valori prevalenti, quali, innanzitutto, il diritto alla salute dei minori (art. 32 Cost.) che potrebbe essere compromesso dalle scelte dei genitori.

E ancora, la scelta dei genitori ben potrebbe porsi in antitesi con il principio di autodeterminazione del minore che abbia raggiunto una certa maturità di giudizio in merito a determinate scelte di natura esistenziale, quali ad esempio quella concernente le scelte alimentari.

Invero, la sentenza qui in commento pare assumere una netta scelta di campo a tale riguardo. Infatti, il Supremo Collegio ritiene che ‘L’introduzione di vari e differenziati pasti domestici nei locali scolastici inficia il diritto degli alunni e dei genitori alla piena attuazione egualitaria del progetto formativo comprensivo del servizio mensa’. In altre parole, secondo i giudici di legittimità, la libertà individuale di scegliere il pasto dei nostri bambini, dovrebbe cedere rispetto al principio prevalente dell’educazione intesa come processo formativo che persegue l’eguaglianza come obiettivo e come valore.

Ad avviso di chi scrive, la questione andrebbe riformulata avendo riguardo, soprattutto, all’interesse del minore. Non si tratta, pertanto, di discutere dell’esercizio del diritto di scelta alimentare del genitore, bensì di individuare e perseguire l’interesse del minore.[20]

 

8. Conclusione.

La sentenza qui brevemente commentata risponde a intenzioni all’apparenza nobili: in questo caso, impedire le discriminazioni e favorire la solidarietà sociale. E’ lecito, tuttavia, domandarsi se lo spirito di condivisione e la tolleranza, che pure la sentenza indica come valori da perseguire nelle nostre scuole, si conseguano necessariamente attraverso l’uniformità dei comportamenti e la riduzione degli spazi di scelta individuale delle famiglie e dei minori. Il grande assente nella sentenza in esame e in tutta la vicenda resta l’interesse del minore che, al contrario, dovrebbe giocare un ruolo decisivo. 

Resta l’impressione, leggendo questa sentenza su una questione che ben potrebbe apparire marginale, che ci sia come una crescente tendenza della società italiana nel connotare qualsiasi questione sociale, risolvibile con un po’ di buon senso, alla stregua una battaglia giudiziaria. [21]

Stiamo diventando come gli americani? Per citare le parole di Tocqueville nel libro ‘La Democrazia in America’: “Negli Stati Uniti c’è raramente una questione politica che presto o tardi non si trasformi in una questione giudiziaria”.[22]  Probabilmente la risposta a tale domanda è negativa: l’Italia non è l’America o, almeno (e aggiungerei, per fortuna) non in questo specifico caso.  Invero, la dottrina ha già studiato nel corso degli anni duemila il fenomeno della judicialization of politics nelle democrazie occidentali concludendo che, in assenza di una buona politica, gli interessi collettivi finiscono sempre più spesso per essere discussi dal potere giudiziario.[23]

 


 


[1] Docente di diritto privato comparato, Università di Torino.

 

[2] Il comitato ‘Caro Mensa Torino’, nato nel 2013, ha il fine di “agire contro il declino della refezione comunale e in difesa del diritto costituzionale al pasto da casa”. Il comitato ha una pagina Facebook.

 

[3] Un’analoga vicenda giudiziaria ha riguardato, con alterne fortune, le famiglie residenti in numerosi altri comuni italiani. Si veda, per esempio, G. Salvati (2017), Il conflitto tra il diritto individuale alla libertà di scelta e i superiori diritti collettivi (nota a Trib. Napoli, sez. x, ord. 25 maggio 2017), in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato, Aprile-Giugno, p. 79. Si veda anche Medda R. (2019), La mensa scolastica tra pretese individuali ed esigenze collettive. Nota a margine della sentenza del TAR Liguria, 19 settembre 2019, n. 722, in corso di pubblicazione per l’Osservatorio AIC.

 

[4] Raiteri M. (2018), Viva la pappa col pomodoro. Quello che le decisioni sulle scelte alimentari alternative a scuola non dicono, in C. Francesconi, M. Raiteri (cur.) Scelte alimentari e relazioni sociali, Milano, pp. 140-156.

 

[5] In attesa della decisione del Supremo Collegio, il Miur ha altresì pubblicato una circolare (n. 347/2017) che suggeriva ai dirigenti scolastici di dare modo ai bambini di poter consumare il cibo portato da casa durante l’orario di mensa attraverso misure organizzative compatibili.

 

[6] Dameno R., Verga M., La mensa scolastica come momento educativo e di socializzazione? Una ricerca socio-giuridica: il caso di Milano, in C. Francesconi, M. Raiteri (cur.) Scelte alimentari e relazioni sociali, Milano, 2018, pp. 159-174. 

 

[7] Il TAR del Piemonte ha respinto il ricorso di un gruppo di genitori della scuola elementare Tommaseo di Torino (ordinanza cautelare 4 dicembre 2019, n. 453). Sul caso torinese, si veda Sandrucci C., Torino, la Tommaseo vieta il panino a scuola. I genitori fanno ricorso, Corriere della Sera, 19 Ottobre 2019. Articolo consultato il 25 Novembre 2019 all’indirizzo: https://torino.corriere.it/scuola/19_ottobre_12/torino-tommaseo-vieta-panino-scuola-genitori-fanno-ricorso-9c593f36-ecc6-11e9-bed9-563e2f640bca.shtml

 

[8] TAR Lazio, sent. 13 Settembre 2019, n. 6011. Si veda di recente anche Consiglio di stato, decreti cautelari del 6 dicembre 2019, nn. 5895 e 5896.

 

[9] Il caso in commento potrebbe attrarre l’interesse del giurista americano Guido Calabresi. Il docente americano ha manifestato, in diverse occasioni, la capacità di rinvenire, dietro questioni apparentemente futili e di costume, dei riflessi politico-sociali importanti sui quali vale indubbiamente la pena riflettere. Fra le molteplici opere, Calabresi G., ll dono dello spirito maligno. Gli ideali, le convinzioni, i modi di pensare nei loro rapporti col diritto, nella traduzione italiana a cura di S. Rodotà, Milano, 1996.

 

[10] Boggero G. (2017), There is no such thing as a free lunch» Il pasto domestico a scuola come diritto costituzionalmente garantito? in Osservatorio AIC, 16 Settembre 2017, n. 3, pp. 1-25. L’autore menziona i progetti di legge in materia alla data della pubblicazione.

 

[11] Andreola E. (2017), Dieta vegana per il figlio tra interesse del minore e responsabilità genitoriale, Famiglia e diritto, 6, pp. 574-583.

 

[12] Andreola E., nota 10.

 

[13] Si veda anche Boggero G., Anche a scuola there is no such thing as a free lunch, in: www.leoniblog.it 30 agosto 2019. L’autore richiama, fra l’altro, il titolo di un libro di Milton Friedman.

 

[14] Il S.C. ha sottolineato l’inesistenza di una violazione del principio di gratuità dell’istruzione scolastica, in quanto detto principio non implicherebbe una totale gratuità di tutte le prestazioni connesse al diritto allo studio.  Infatti, la stessa deve coniugarsi con i doveri assistenziali dei genitori nei confronti dei figli, con la disponibilità dei mezzi finanziari degli studenti risultanti dalle tasse corrisposte o rette di fruizione dei servizi scolastici, nonché con gli obblighi statali nei confronti delle famiglie sulla base della legislazione vigente. In questo senso, secondo i giudici, sarebbe ragionevole che l’intervento pubblico per il servizio mensa sia previsto “nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente”, come altri interventi a sostegno del diritto allo studio (art. 2 del D. Lgs. n. 63 del 2017).

 

[15] Minervini L. F. (2018), La spesa delle famiglie per la mensa scolastica: prezzo o contributo per il servizio, in C. Francesconi, M. Raiteri (cur.) Scelte alimentari e relazioni sociali, Milano, pp. 126-140.

 

[16] Hallett V. (2019), What’s for lunch? At some schools, everyone eats the same thing, The Washington Post, 21 Ottobre 2019, consultato all’indirizzo https://www.msn.com/en-in/lifestyle/smart-living/whats-for-lunch-at-some-schools-everyone-eats-the-same-thing/ar-AAJcJ6S?li=AAgfYGb

 

[17] Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009 n. 22238, Foro It., 2009, I, 903. In dottrina, Lamarque E. (2016), Prima i bambini.Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, Franco Angeli, Milano.

 

[18] Nota 14.

 

[19] Musio A. (2017), Scelte alimentari dei genitori e interesse del minore, Rivista di diritto alimentare, 2, pp. 4-14.

 

[20] Raiteri M. (2018), Viva la pappa col pomodoro. Quello che le decisioni sulle scelte alimentari alternative a scuola non dicono, in C. Francesconi, M. Raiteri (cur.) Scelte alimentari e relazioni sociali, Milano, pp. 140-156.

 

[21] Sul tema, Poncibò C. (2011), Modelli di tutela degli interessi collettivi in diritto comparato, Torino.

 

[22] A. de Tocqueville (2006), La democrazia in America, a cura di Corrado Vivanti, nella traduzione di Anna Vivanti Salmon, Collana i Millenni, Torino.

 

[23]   Hirschl R. (2008), The Judicialization of Politics, in: G. A. Caldeira, R. D. Kelemen, and K. E. Whittington The Oxford Handbook of Law and Politics, OUP, Oxford, 2008. L’espressione ‘The judicialization of politics’ descrive ‘the reliance on courts and judicial means for addressing core moral predicaments, public policy questions, and political issues’.