Il procedimento di fusione tra comuni nell’esperienza piemontese: problematiche e prospettive

Roberto Medda[1]

1. Le fusioni di Comuni come rimedio alla frammentazione del tessuto comunale: nascita ed evoluzione.

La frammentazione della mappa comunale è, fin dalla sua origine, uno dei tratti identitari dell’ordinamento locale italiano. La Regione Piemonte non fa eccezione: anzi, proprio su tale territorio si concentrano 1181 Comuni su 7914[2], ossia quasi il 15% del totale in Italia. A fronte di un numero elevato di Comuni, la popolazione residente corrisponde al 7% sul totale nazionale, a dimostrazione del fatto che la mappa comunale si presenta, nella Regione Piemonte, estremamente parcellizzata.

Da una prospettiva amministrativa, la frammentazione rappresenta un problema di efficienza degli apparati pubblici, incapaci di raggiungere standard adeguati nell’esercizio delle funzioni e nell’erogazione dei servizi. Pertanto, fin dalla legge 142 del 1990 sono stati numerosi i tentativi di affrontare tale problema. Di fianco alla promozione dell’esercizio associato delle funzioni attraverso forme associative di diversa natura, come consorzi, convenzioni o unioni, uno degli strumenti sui quali hanno scommesso i legislatori, in primo luogo quello statale, è rappresentato dalla fusione di Comuni. Ciononostante, nella fase successiva all’entrata in vigore della riforma della legge comunale e provinciale i processi di fusione hanno faticato a materializzarsi, anzi, si è giunti al paradosso che il numero totale di comuni nel periodo 1991-2001 è addirittura cresciuto di un’unità, passando da 8100 a 8101.

Tuttavia, la grande crisi finanziaria ormai un decennio fa ha prodotto un effetto dirompente sul sistema delle autonomie locali. In questo settore, infatti, il legislatore è intervenuto a più riprese, anche con misure di tipo ordinamentale, tanto da rimodellare in maniera rilevante il sistema locale con la legge 56/2014. In questo contesto, alcune delle innovazioni più importanti hanno cercato di affrontare il problema della parcellizzazione del territorio comunale. Già a partire dal 2008 il legislatore statale e alcuni legislatori regionali, in particolare quelli delle Regioni centro-settentrionali, hanno rafforzato le forme di incentivazione, specie di natura finanziaria, volte a favorire i processi di aggregazione comunale[3]; la legge 56 ha poi dettato per la prima volta una disciplina dei comuni nati da incorporazione, nella prospettiva di contribuire a risolvere una serie di nodi interpretativi e di stimolarne ulteriormente lo sviluppo[4]. L’effetto delle politiche introdotte in tale stagione è stato quello di un incremento deciso del numero delle fusioni di Comuni, tanto che dagli 8092 Comuni del 2011 si è passati, nel 2019, a 7918[5].

La Regione Piemonte ha partecipato attivamente a tale processo. Nel corso dell’ultimo decennio sono stati conclusi ventuno procedimenti di variazione territoriale che hanno comportato la soppressione di quaranta Comuni, con una diminuzione del 2,1% rispetto al numero di enti registrato nel 2008. Questi numeri assumono un certo rilievo e collocano il Piemonte tra le Regioni che con maggiori risultati hanno perseguito l’obiettivo della riduzione della frammentazione comunale[6].

Tuttavia, nonostante la crescita costante e progressiva sia dei progetti di fusione e incorporazione, sia delle aggregazioni effettivamente portate a termine, si registrano alcuni segni di stanchezza. In alcune tornate elettorali, in diverse zone del Paese gli elettori hanno manifestato – attraverso lo strumento del referendum consultivo, passaggio obbligato in tutti i processi di variazione territoriale in base all’art. 133, co. 2, Cost. – la mancata condivisione dei progetti di riordino delle circoscrizioni comunali. Tale situazione si è verificata anche in quei territori, come l’Emilia-Romagna, dove le esperienze di fusione sono da tempo consolidate[7] e ha provocato un generalizzato congelamento dei processi di fusione, stante la volontà dell’Assemblea regionale di adeguarsi alla volontà espressa dagli elettori. E ciò, nonostante la circostanza che, come si vedrà in maggior dettaglio nel proseguo della trattazione, i risultati referendari non abbiano la forza giuridica di opporre un veto alla successiva valutazione discrezionale del Consiglio in merito alla variazione territoriale da approvare.

Una situazione per certi versi simile si è verificata nella Regione Piemonte, dove non sono mancate consultazioni referendarie contraddistinte dalla prevalenza dei voti contrari alla fusione. Tuttavia, le conseguenze sono state opposte: il Consiglio regionale ha ritenuto procedere comunque alla fusione, nonostante il risultato non univocamente favorevole restituito dal referendum. Trattasi dei casi che hanno portato all’istituzione dei Comuni di Cassano Spinola (AL), Lu e Cuccaro Monferrato (AL), Valchiusa (TO), Varallo (VC), Gattico-Veruno (NO). Se con riguardo ai primi quattro casi, nonostante in qualche Comune chiamato al voto siano prevalsi i no, nel conteggio complessivo i voti favorevoli hanno comunque prevalso, nella consultazione referendaria per l’istituzione del Comune di Gattico-Veruno i voti contrari sono stati superiori sia nelle singole circoscrizioni comunali, sia nel computo totale.

Le indicazioni che provengono dai territori, sintomo di insofferenza verso le aggregazioni comunali, rendono necessaria una riflessione sulla disciplina delle fusioni di Comuni e, più precisamente, sulle regole che governano la fase decisoria del procedimento di variazione territoriale. Infatti, le vicende delle aggregazioni comunali sembrano essere entrate in una nuova fase, nella quale l’entusiasmo per i vantaggi di natura amministrativa e finanziaria lasciano il posto alla preoccupazione per la difesa dell’identità comunale. Se questo è vero, occorre che le discipline regionali sulle fusioni siano capaci di contemperare i diversi interessi in campo, al fine di evitare sia il congelamento di qualsiasi tentativo di riordino territoriale, sia, al contempo, un’imposizione dall’alto della ridefinizione dei territori comunali. Per tale ragione, è di sicura rilevanza guardare alle leggi regionali che disciplinano i processi di fusione per valutare se queste dotino le Regioni degli strumenti adatti per governare tali fenomeni. A un rapido sguardo questo non pare essere il caso: anche alla luce del fatto che buona parte delle leggi regionali sono state introdotte svariati anni fa, quando le variazioni territoriali erano sporadiche e riguardavano principalmente l’istituzione di nuovi Comuni, queste non paiono adeguate alle sfide poste dal gran numero di progetti di fusione avanzati negli ultimi anni e dalle resistenze che queste spesso sollevano. E, come si cercherà di dimostrare, la legislazione della Regione Piemonte non rappresenta un’eccezione in questo quadro.

 

2. Il procedimento di fusione nella legislazione regionale, con particolare riferimento alla Regione Piemonte.

I processi di variazione territoriale, consistano essi nell’istituzione di nuovi Comuni per scissione, nella creazione di nuovi Comuni per fusione, o nell’incorporazione di un Comune in un altro, intersecano una congerie di fonti normative, riconducibili alla competenza di diversi livelli istituzionali.

In primo luogo, è la stessa Costituzione a fissare alcune regole fondamentali. L’art. 133, co. 2, individua il soggetto competente alla decisione, la Regione, indica lo strumento giuridico necessario, la legge regionale, e abbozza la scansione procedimentale, prevedendo che la fusione sia decisa «sentite le popolazioni interessate». Come è noto, tale locuzione è stata interpretata dalla Corte costituzionale nel senso di rendere sempre necessaria l’indizione di un referendum consultivo delle popolazioni interessate dalle modifiche territoriali[8].

La norma costituzionale è integrata dalla fonte legislativa ordinaria, competente a declinare i principi fissati dalla Costituzione in una disciplina il più possibile organica. Tuttavia, in questo specifico ritaglio di materia, il riparto tra competenza statale e regionale si presenta abbastanza problematico. Infatti, si registra un intreccio tra le fonti statali, il Tuel e legge 56/2014, e le leggi regionali che cercano di adattare il procedimento di variazione territoriale alle peculiarità del territorio regionale. Questa operazione è resa poco agevole da una non chiara opera di definizione del riparto della competenza legislativa da parte della Corte costituzionale che, recentemente, ha valorizzato l’apporto della fonte statale, quantomeno con riguardo alla fusione per incorporazione, comprimendo le prerogative delle Regioni[9], alla cui potestà legislativa residuale è stata tradizionalmente ricondotta la competenza a legiferare sulle variazioni delle circoscrizioni comunali, in base al tenore letterale dello stesso art. 133. comma 2 della Costituzione[10].

Nonostante ciò, la fonte regionale continua a godere di ampi spazi di manovra nella strutturazione del procedimento, in tutte le sue fasi, dall’iniziativa, all’istruttoria, fino alla decisione sulla variazione territoriale. Gli unici elementi indefettibili sono quelli fissati dalla Costituzione così come interpretata dalla Consulta, quindi il referendum (che deve naturalmente coinvolgere l’intera popolazione interessata) e la legge regionale. Al pari delle altre Regioni, il Piemonte ha nel corso degli anni legiferato su tale oggetto, introducendo un procedimento di modifica delle circoscrizioni comunali articolato su più fasi. Dall’analisi della normativa regionale, si riscontra subito un elemento critico, connesso alla tecnica normativa prescelta dal legislatore regionale. A differenza di altre Regioni, in Piemonte la disciplina delle fusioni di Comuni non ha ricevuto trattazione organica, non essendo contenuta nel medesimo testo, ma deve essere ricavata in via interpretativa dalla giustapposizione di diversi testi legislativi e dall’integrazione con alcuni atti regolamentari. La l.r. 51/1992 rappresenta il testo di portata generale, che tuttavia deve essere integrato con l’art. 11 della l.r. 11/2012, che fissa alcune regole relative alla fase di iniziativa e ai meccanismi di incentivazione finanziaria alle fusioni. Inoltre, con il titolo III della l.r. 4/1973, è stata dettata la disciplina dei referendum ex art. 133, co. 2, Cost. A tali fonti si aggiunge la deliberazione della Giunta regionale n. 52-3790 del 2016, la quale determina le forme di incentivazione finanziaria atte a sostenere i processi di fusione e incorporazione, integrando le indicazioni, piuttosto generiche, contenute nelle disposizioni primarie[11]. Tale stratificazione di disposizioni, come si vedrà a breve, non manca di generare qualche problema di interpretazione, dovuto a difetti di coordinamento tra i testi normativi.

Passando all’analisi del procedimento di variazione territoriale, in particolare con riferimento ai processi di fusione e di incorporazione, si può notare come la legge piemontese abbia previsto un procedimento ad hoc, articolato su una pluralità di fasi, in maniera non dissimile ad altri ordinamenti regionali[12]. Con riguardo alla fase di iniziativa, la competenza ad avviare il procedimento di modifica delle circoscrizioni comunali viene attribuita dalla legge a una pluralità di soggetti. Infatti, la norma primaria che regola la fase di avvio[13] rinvia alla disposizione statutaria che disciplina, in generale, l’iniziativa legislativa. Pertanto, in base all’art. 44 dello Statuto possono presentare il disegno di legge di fusione la Giunta regionale, i consiglieri regionali, i Consigli provinciali, i Consigli comunali e gli elettori. Tuttavia, con riguardo all’iniziativa degli enti locali e degli elettori sono previste alcune condizioni atte a coniugare l’apertura del procedimento legislativo con l’economia dei lavori del Consiglio regionale. Con riguardo ai primi si prevede[14] che l’iniziativa legislativa possa essere esercitata congiuntamente da almeno cinque consigli comunali oppure da uno o più comuni con popolazione non inferiore a 25 mila elettori. Inoltre, medesima facoltà è riconosciuta a ciascun consiglio provinciale. Con riguardo all’iniziativa popolare, invece, lo statuto[15] richiede che la proposta sia sottoscritta da almeno 8 mila elettori della Regione. La fissazione di tali requisiti potrebbe rendere poco agevole l’esercizio dell’iniziativa del procedimento di fusione dato che, non di rado, i comuni interessati sono caratterizzati da una popolazione residente dell’ordine delle centinaia di persone. Pertanto la disciplina primaria prevede delle agevolazioni dell’iniziativa da parte dei comuni interessati dalla fusione. Su questo punto, tuttavia, si registra un’antinomia tra due disposizioni. Da un lato, l’art. 2-bis della l.r. 51/1992 prevede che «Nel caso in cui l’iniziativa legislativa non possa essere esercitata dai consigli comunali per mancanza dei requisiti previsti dall’articolo 75 dello Statuto, gli stessi possono presentare alla Giunta regionale richiesta di istituzione di nuovi comuni o di modificazione delle circoscrizioni comunali, adottando apposita deliberazione a maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati. […] La Giunta regionale, qualora ritenga di accogliere la richiesta, predispone il relativo disegno di legge», mentre in base a quanto stabilito dall’art. 11 della l.r. 11/2012 «Su richiesta dei comuni interessati alla fusione o alla incorporazione, deliberata dalla maggioranza dei consiglieri assegnati ai rispettivi consigli, la Giunta regionale presenta un disegno di legge per l’istituzione del nuovo comune». La distonia tra le due disposizioni risiede con riguardo al margine di discrezionalità riconosciuto alla Giunta regionale nell’avviare il procedimento di fusione. Nel primo caso è esplicitamente affermato che la Giunta debba valutare il merito della richiesta e possa, qualora lo ritenga opportuno, non dare seguito alle deliberazioni dei Consigli comunali. La l.r. 11/2012, attraverso l’utilizzo del verbo all’indicativo presente, stabilisce che la presentazione del disegno di legge che segna l’avvio del procedimento di fusione rappresenti un atto dovuto da parte della Giunta, non permanendo alcun margine per una valutazione sull’opportunità dell’iniziativa. Il nodo può essere sciolto in via interpretativa facendo ricorso sia al criterio della successione delle leggi nel tempo sia al criterio sistematico. Da entrambe le prospettive deve trovare applicazione la norma che prevede l’avvio obbligatorio dell’iter legislativo da parte della Giunta a seguito della ricezione della richiesta dei Consigli comunali. Infatti, l’art. 11 della l.r. 11/2012 è stato approvato successivamente all’introduzione, nel 2009[16], dell’art. 2-bis della l.r. 51/1992 che quindi si può considerare parzialmente abrogato in via implicita. In secondo luogo, da un punto di vista sistematico trova accoglimento la stessa lettura: se, come si è visto, l’ordinamento regionale, ponendosi in scia a quello statale, ha previsto forme di incentivazione delle aggregazioni comunali, deve considerarsi legittima la norma di maggior favore, ossia quella che riduce il margine di apprezzamento della Giunta.

Il disegno di legge di fusione o incorporazione è corredato da una relazione di accompagnamento, il cui contenuto è fissato dalla legge regionale[17]: oltre ai dati necessari all’identificazione dei confini amministrativi interessati dalla modifica, debbono essere riportate alcune informazioni sulla natura demografica e socio-economica locale, nonché informazioni di carattere finanziario sui comuni coinvolti e, infine, un progetto di riorganizzazione e gestione dei servizi, dal quale emergano i vantaggi del riassetto territoriale.

La relazione è propedeutica alla fase istruttoria, affidata alla Commissione consiliare competente all’interno del Consiglio regionale. Tale organo verifica la completezza e la correttezza della documentazione e richiede i pareri ai Consigli comunali interessati (sempre se questi non siano già allegati alla relazione di accompagnamento) e al Consiglio provinciale competente per territorio. L’attività istruttoria della Commissione non si limita all’analisi della relazione di accompagnamento del disegno di legge, ma si vede riconosciuto dalla legge il potere di acquisire in via diretta ulteriori documenti[18].

Una volta esaminato il progetto di fusione o incorporazione, la Commissione consiliare esprime un parere in merito all’indizione del referendum consultivo della popolazione interessata ai senti dell’art. 133, co. 2 della Costituzione. Si tratta di un momento di grande rilevanza: è in questa sede, infatti, che il Consiglio regionale effettua una prima valutazione discrezionale sulla meritevolezza del progetto di fusione, pronunciandosi in merito alla sua opportunità. Ciò è valido, tuttavia, se si considera il procedimento nella sua scansione ordinaria. Non mancano, con riguardo al momento dell’indizione del referendum consultivo, delle articolazioni procedimentali alternative. In primo luogo, qualora si tratti di un progetto di incorporazione, è previsto che la commissione acquisisca gli esiti delle consultazioni elettorali svolte in precedenza. Ciò segna una sostanziale differenza tra i procedimenti di fusione e di incorporazione: se nei primi il referendum può tenersi, indifferentemente, a monte o a valle del deposito del progetto di legge di variazione territoriale, nel caso dell’incorporazione la consultazione deve tenersi necessariamente in una fase antecedente all’avvio della procedura. Tale regola si ricava da alcune disposizioni contenute nella legislazione regionale[19] che, sul punto, attuano quanto previsto a livello di principio dal co. 130 della legge 56/2014[20].

La parte fondamentale dell’istruttoria procedimentale, tanto nel caso di fusione quanto di incorporazione, è data dal referendum consultivo, disciplinato dalla l.r. 4/1973, artt. 33 e ss. Il referendum è deliberato dal Consiglio regionale, sulla base del parere espresso dalla Commissione consiliare competente per l’istruttoria, ed indetto con decreto del Presidente della Giunta regionale. La legge predetermina i criteri per l’individuazione della popolazione chiamata alla consultazione: nel caso di istituzione di nuovi comuni, ossia di fusione, l’art. 33, co. 3, lett. a) stabilisce che debbano essere consultati tramite referendum «tutti gli elettori residenti nei comuni interessati dalla variazione territoriale». Il criterio circa l’individuazione della popolazione interessata nel caso di aggregazione per incorporazione è stabilito, invece, dalla l.r. 51/1992, la quale prevede, allo stesso modo, che siano chiamati al voto «tutti gli elettori residenti nei comuni interessati»[21].

Se con riguardo all’individuazione della popolazione interessata le norme non pongono particolari problemi interpretativi, essendo compatibili con la consolidata giurisprudenza costituzionale, qualche dubbio può sorgere in merito alle disposizioni sugli esiti del referendum. Infatti, la legge prevede che «Il quesito sottoposto a referendum consultivo è dichiarato accolto quando la somma dei voti validi affermativi al quesito sia maggiore rispetto alla somma dei voti validi negativi espressi dagli elettori votanti nei comuni o nel comune o nell’ambito territoriale, in cui il referendum consultivo è stato indetto; altrimenti è dichiarato respinto»[22]. All’utilizzo di termini quale «accolto» e «respinto» potrebbe essere attribuito un significato normativo volto a riconoscere una qualche forma di efficacia vincolante degli esiti della consultazione referendaria sul proseguo della procedura di fusione. Tali dubbi interpretativi non sono del tutto infondati tanto che, nonostante il referendum ex art. 133, co. 2 della Costituzione sia stato univocamente sempre stato considerato come obbligatorio ma non vincolante, il successivo art. 38 si premura di rendere esplicita la facoltà del Presidente della Giunta regionale di procedere con la fusione anche in caso in cui il quesito sia stato respinto. Come si vedrà in seguito, il rapporto tra i risultati della consultazione e la decisione in merito alla variazione territoriale rappresenta un punto critico della disciplina sulle fusioni, spesso fonte di contrasti tra la Regione e i Comuni. Inoltre, occorre sottolineare che quantomeno con riguardo ai referendum su progetti di fusione e incorporazione, la validità del referendum non è subordinata al raggiungimento di alcuna soglia di partecipazione, non essendo previsto un quorum strutturale.

Una volta svoltosi il referendum, o acquisiti i risultati delle consultazioni svolte precedentemente all’avvio dell’iter, la Commissione consiliare competente, entro sessanta giorni dalla proclamazione dei risultati, esprime un parere sul progetto di legge di fusione o incorporazione e lo trasmette al Consiglio regionale[23]. Su questa fase del procedimento la disciplina legislativa è telegrafica. Nulla è previsto in merito ai criteri che debbono guidare la scelta del Consiglio regionale, né tantomeno si prevede una qualsiasi conseguenza, anche soltanto sul piano procedimentale, derivante dagli esiti del referendum popolare. Ciò neanche nell’ipotesi in cui sia emersa, tramite la consultazione popolare, una chiara volontà degli elettori contraria al progetto di variazione territoriale. L’analisi di questo punto costituirà il centro delle riflessioni del paragrafo successivo, tuttavia già in questa fase si può sottolineare, in chiave critica, come la legislazione regionale non disciplini in maniera organica l’iter di fusione, dedicando poca attenzione alla fase della decisione del Consiglio regionale, che si vede riconosciuto un potere sostanzialmente in bianco.

Prosegue la legge stabilendo che, una volta acquisito il parere della Commissione consiliare, il Consiglio regionale adotta con legge la decisione in merito all’istituzione del nuovo comune per fusione o all’incorporazione. Sebbene il contenuto esatto della legge di fusione non sia predeterminato, le diverse leggi tendono ad avere un contenuto tipico. Innanzitutto, le leggi si aprono con la disposizione che produce concretamente la nascita del nuovo comune per fusione o l’incorporazione, individuando la denominazione e il territorio (solitamente attraverso una tavola cartografica allegata alla legge). Inoltre, le leggi solitamente contengono disposizioni di carattere tecnico-amministrativo, come la decadenza degli organi, la successione nella titolarità dei beni e dei rapporti giuridici, l’individuazione della sede provvisoria del Comune e così via. A tali contenuti si affiancano, infine, le disposizioni che attribuiscono al nuovo comune gli incentivi finanziari, sulla base dei criteri predeterminati dalla Giunta regionale. Questo contenuto è di grande rilevanza dato che, come si è visto, è una delle ragioni alla base dell’incremento del numero di fusioni concluse nell’ultimo decennio in Piemonte e, più in generale, in Italia.

 

3. La decisione sulla variazione del territorio del Comune ed i limiti del suo sindacato in sede giurisdizionale: il caso della fusione di Gavazzana e Cassano Spinola.

Come già messo in luce, l’apertura dei processi di riassetto territoriale produce non soltanto degli indubbi vantaggi nella qualità e nell’efficienza degli apparati amministrativi, ma finisce per generare dei cortocircuiti tra l’azione di ridefinizione delle circoscrizioni comunali e le identità collettive locali. Nel territorio piemontese non sono mancate situazioni di conflitto, immancabilmente registrate dai risultati dei referendum consultivi che, come riportato in apertura, hanno visto prevalere i voti contrari ai progetti di fusione. Tuttavia, le vicende piemontesi si distinguono per un altro aspetto: se non è inusuale una certa refrattarietà alle proposte di fusione, in Piemonte le comunità locali hanno compiuto un passaggio ulteriore, facendo ricorso ai rimedi giurisdizionali nel tentativo di paralizzare un’aggregazione percepita come un’indebita compressione della sfera di autodeterminazione locale.

Emblematica in tal senso è la vicenda della fusione dei Comuni di Gavazzana e di Cassano Spinola, nella Provincia di Alessandria, decisa dal Consiglio regionale[24]nonostante la consultazione referendaria avesse restituito un risultato non univoco. Infatti, nel Comune di Cassano Spinola – il maggiore dei due, con una popolazione residente di 1731 persone[25]– si sono registratati 391 voti favorevoli alla fusione e 59 contrari, mentre nel Comune di Gavazzana i voti contrari sono stati superiori ai favorevoli, rispettivamente 91 a 24, su una popolazione residente di 180 persone[26]. Emerge quindi un risultato contradittorio: in un Comune prevalgono con decisione i favorevoli (87%), nell’altro Comune, con altrettanta decisione, i contrari (79%), ma data la sproporzione demografica tra i due enti, il risultato complessivo è favorevole alla fusione (73% di voti favorevoli a fronte del 27% di voti contrari).

La contraddittorietà del risultato referendario non tarda a riverberarsi sull’iter della fusione. Nonostante il risultato negativo della consultazione nel Comune di Gavazzana non vincoli giuridicamente la scelta del Consiglio regionale, non di meno il sindaco chiede che il percorso sia interrotto. All’opposto, il Comune di Cassano Spinola chiede che la fusione sia portata a termine, soluzione che il Consiglio regionale dimostra di prediligere, approvando la legge di fusione nel 2017. Come si evince dalla relazione al disegno di legge[27], la decisione è suffragata da una pluralità di motivi. Non soltanto i voti favorevoli complessivi sono stati di gran lunga superiori ai contrari, ma «La continuità del territorio determina altresì un’identità morfologica che porta con sé una comunanza di esigenze, di problemi» e, alla luce della sproporzione demografica esistente tra i due Comuni, «La fusione consentirebbe di limitare tale divario rendendo più equilibrato il carico sociale, anche a fronte della presenza sul territorio di Cassano Spinola di attività che sono fonte di lavoro ed occupazione».

Rimasti insoddisfatti dalla decisione del Consiglio regionale, alcuni cittadini dell’ormai estinto Comune di Gavazzana, costituitisi nel “Comitato per il No alla fusione con il Comune di Cassano Spinola”, hanno presentato ricorso davanti al Tar per chiedere l’annullamento, tra l’altro, del decreto del prefetto di Alessandria che ha nominato il commissario per la gestione provvisoria del nuovo Comune, nonché la rimessione della questione di legittimità costituzionale delle leggi regionali che disciplinano il procedimento di variazione territoriale assieme alla legge provvedimento che ha determinato in concreto la fusione. Il Tar Piemonte, sez. II, con la sent. 1228 del 12 novembre 2018, ha dichiarato infondato il ricorso. Con il primo motivo il ricorrente lamentava l’illegittimità costituzionale della legislazione regionale e statale presupposto della fusione, come il decreto di nomina del commissario prefettizio, chiedendo quindi l’annullamento di quest’ultimo atto. Correttamente, i giudici ritengono l’eccezione di costituzionalità manifestamente infondata, in quanto le norme statali e regionali sono pienamente compatibili con la Carta costituzionale, che all’art. 133, co. 2 si limita a richiedere l’espletamento di consultazioni popolari a carattere non vincolante. È con il secondo motivo che il ricorrente afferma l’illegittimità della disciplina statale e regionale presupposta alla fusione in quanto «non prevede alcun criterio atto a riequilibrare il peso della volontà popolare espressa attraverso il referendum consultivo, nel caso in cui la fusione avvenga tra Comuni di consistenza demografica ed elettorale sensibilmente diversa»[28]. Anche questo secondo motivo, tuttavia, viene ritenuto manifestamente infondato in quanto il dato costituzionale, come sottolinea ancora una volta il giudice amministrativo, si limita a prevedere come aggravamento del procedimento una consultazione referendaria dagli effetti non vincolanti. Il giudice si sofferma poi sul potere di decisione in merito alle variazioni delle circoscrizioni comunali riconosciuto al Consiglio regionale il quale, stante la natura non vincolante della consultazione popolare, ha piena discrezionalità di scelta con riguardo alla fusione, «con l’unico onere di motivare, nella delibera consiliare di approvazione della legge istitutiva del nuovo Comune, le preminenti ragioni di interesse pubblico che sottostanno a tale decisione»[29]. Con la conseguenza che «in vista del perseguimento di superiori interessi pubblici»[30], «persino nel caso in cui la volontà popolare emersa in sede referendaria fosse unanimemente contraria alla fusione, la Regione resterebbe comunque libera di istituire il nuovo Comune»[31]. In altri termini, «La Regione può dunque istituire nuovi Comuni nel proprio territorio, anche d’autorità»[32].

La decisione del Tribunale amministrativo piemontese è basata su una ricostruzione normativa precisa e accurata. Allo stato dell’arte, la decisione in merito alle fusioni è di competenza del Consiglio regionale che decide attraverso lo strumento della legge. Le comunità locali sono titolari del diritto a far sentire la propria voce nell’iter, attraverso un voto referendario, ma nulla di più. Nessun potere di veto è riconosciuto a queste, né tantomeno ai Consigli comunali coinvolti.

Alle medesime conclusioni era giunto, pronunciandosi su una questione del tutto assimilabile a quella decisa dal Tar Piemonte, anche il Tar Marche, con la sent. 544 del 29 giugno 2017. In quel caso il giudice amministrativo era stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità della fusione tra i Comuni di Saltara, Serrungarina e Montemaggiore al Metauro che, per mezzo della l.r. Marche 29/2016, erano stati fusi nel nuovo Comune di Colli al Metauro, nonostante il referendum avesse restituito un risultato contradditorio. Infatti, gli elettori del Comune di Montemaggiore si erano espressi contro la fusione (63%), mentre negli altri due Comuni erano prevalsi i voti favorevoli (69% a Saltara e 53% a Serrungarina). Nel dichiarare infondato il ricorso presentato da un comitato formato da alcuni cittadini del disciolto Comune di Montemaggiore, il Tar aveva concluso nel senso che «La scelta di procedere alla fusione in caso di assenso della maggioranza numerica dei comuni interessati alla fusione e della maggioranza dei relativi cittadini non può essere considerata, ad avviso del Collegio, lesiva delle numerose norme e dei principi invocati dai ricorrenti, pur nella delicatezza degli interessi rappresentati con il ricorso, sicuramente meritevoli di attenta considerazione»[33].

Sebbene, in entrambe le controversie giudiziarie, la soluzione in concreto adottata dai magistrati sia del tutto condivisibile alla luce del quadro normativo esistente, è proprio questo a dimostrarsi ormai inadeguato. Lungi dal predisporre una procedura organica capace di ricomporre i conflitti che, comprensibilmente, sono scatenati dai progetti di fusione, la legislazione piemontese – al pari delle legislazioni della quasi totalità delle altre Regioni – si dimostra inadeguata a raggiungere uno scopo di questo tipo. L’assenza di regole capaci di guidare la decisione del Consiglio regionale e di ricomporre i conflitti sorti nel caso in cui dai referendum emergano degli esiti non univoci fa sì che tale compito venga scaricato sul giudice amministrativo. Le rimostranze delle comunità locali ai progetti di fusione, non trovando un’adeguata rappresentazione all’interno del procedimento al di là del referendum, finiscono per trovare unica soluzione nei rimedi giurisdizionali.

La situazione è resa ancor meno sostenibile dal fatto che il ricorso alla giurisdizione si presenta non del tutto capace di offrire un efficace rimedio alla popolazione che ritiene di essere stata lesa nei propri diritti a seguito di un procedimento di fusione. Tale lettura trova una conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 2 del 2018, con la quale la Corte ha tracciato i confini del riparto di giurisdizione tra il giudice amministrativo e il giudice costituzionale nelle controversie aventi ad oggetto le fusioni di Comuni. Sebbene la questione scaturisca da una vicenda differente rispetto a quelle delle sentenze sopra citate, le conclusioni alle quali giunge la Corte costituzionale sono parimenti rilevanti.

La Corte chiarisce infatti che, sebbene il giudice amministrativo possa sindacare sui criteri sulla base dei quali è stata individuata la popolazione interessata, anche in assenza di criteri predeterminati dalla legge regionale come invece aveva erroneamente asserito la Regione Marche, l’eventuale annullamento della delibera di indizione del referendum – o di altro atto interno del procedimento di fusione – non può avere l’effetto di privare di efficacia la legge regionale di variazione territoriale. Questa, infatti, non costituisce una legge di mera approvazione di un atto amministrativo, ma rappresenta la concretizzazione dell’esercizio del potere discrezionale del Consiglio regionale. In altri termini, la legge-provvedimento di variazione non costituisce una ratifica dell’esito del referendum che, si rammenta, conserva un’efficacia consultiva. Proseguono i giudici costituzionali affermando che il sindacato del giudice amministrativo sul procedimento deve essere pieno e tempestivo, ma soltanto fintantoché la legge di variazione territoriale non sia stata approvata. Una volta che la legge provvedimento è approvata, la tutela viene attratta nel giudizio di costituzionalità, unica sede nella quale possa essere messa in questione la legittimità della variazione territoriale, anche per questioni attinenti al procedimento in concreto seguito.

Da questa sentenza emergono due conseguenze, direttamente rilevanti per la riflessione sul potere decisionale dei Consigli regionali in merito alle fusioni di Comuni. In primo luogo, il confine tra le due giurisdizioni, amministrativa e costituzionale, fatto coincidere con l’approvazione della legge regionale di variazione territoriale, produce un’innegabile compressione del diritto di difesa delle comunità locali. Come è stato fatto notare dalla dottrina, il giudizio costituzionale non condivide con il giudizio amministrativo la stessa ricchezza di strumenti, come la tutela cautelare, nonché un sindacato penetrante sull’esercizio del potere come quello sull’eccesso di potere[34]. Inoltre, dalla sentenza n. 2 del 2018 emerge un ulteriore dato, utile alla ricostruzione del potere del Consiglio regionale. Il giudice costituzionale, seppur non esplicitamente, finisce per rafforzare l’autonomia della legge regionale di variazione rispettoall’istruttoria e alle risultanze emerse in tale fase, tra cui gli esiti del referendum consultivo. E tale aspetto è suscettibile di incidere negativamente sulle prerogative delle comunità locali, che assistono all’affievolimento della propria voce nell’ambito dei processi di variazione territoriale[35].

 

4. Riflessioni conclusive.

Alla luce di quanto detto sinora, appare evidente l’opportunità di introdurre meccanismi giuridici differenti, in grado di assorbire le “scosse sismiche” provocate dai processi di riassetto territoriale, eliminando o quantomeno attenuando l’impatto derivante dai conflitti emergenti a livello locale ed evitando, soprattutto, di riversare sul giudice amministrativo la decisione finale. Si ritiene che soltanto una compiuta procedimentalizzazione delle procedure di fusione, con specifico riguardo alla fase successiva al referendum consultivo, possa offrire un contributo rilevante alla risoluzione delle criticità sopra rilevate. Occorre, quindi, che le leggi regionali dettino delle regole chiare, in modo tale da evitare che le comunità locali considerino la legge di variazione territoriale, adottata in assenza di un univoco assenso degli elettori interessati, come una forma di aggressione del proprio diritto all’integrità territoriale.

Con una più efficace scansione procedimentale si potrebbero raggiungere due obiettivi, entrambi compatibili con la natura non vincolante del referendum consultivo. Da un lato, l’autonomia della legge di variazione territoriale, valorizzata dalla recente giurisprudenza costituzionale, non dovrebbe portare a una progressiva dequotazione del referendum consultivo quale passaggio capace di indirizzare i procedimenti di fusione. Dall’altro lato, l’eventuale esito negativo delle consultazioni referendarie, ovvero dei risultati non univocamente favorevoli, non dovrebbe comportare meccanicamente il blocco dei processi di fusione.

Tale risultato potrebbe essere raggiunto attraverso il ricorso a due tipologie di regole, che dovrebbero trovare accoglimento nelle leggi regionali sul procedimento. Per un verso, il risultato negativo del referendum[36]potrebbe comportare l’instaurazione, necessaria, di un’ulteriore fase istruttoria presso il Consiglio regionale, nella quale offrire ai cittadini, riuniti eventualmente in comitati dei Comuni che si sono espressi in senso contrario alla fusione, l’opportunità di un ulteriore confronto. Inoltre, tale passaggio potrebbe essere affiancato dalla richiesta di un parere ulteriore ai Consigli comunali in merito al prosieguo del progetto. L’instaurazione di un’ulteriore fase istruttoria dovrebbe essere accompagnata da una clausola, sempre da inserire nella legge procedimentale, che garantisca il congelamento per un periodo ragionevole di tempo la possibilità per il Consiglio regionale di approvare la legge regionale di fusione, al fine di evitare la compressione nelle forme di tutela che si verificherebbe con la concretizzazione della variazione territoriale. In parallelo, sarebbe opportuno introdurre delle regole aventi ad oggetto la fase decisoria, ossia la scansione procedimentale alla quale le leggi regionali, come si è visto, dedicano meno attenzione. Si potrebbero introdurre alcuni criteri per indirizzare la scelta discrezionale del Consiglio regionale in merito alla variazione territoriale. Tenendo a mente la natura consultiva del referendum, tali regole dovrebbero essere sufficientemente flessibili da indirizzare la scelta dell’organo legislativo, senza tuttavia comprimere eccessivamente il margine di apprezzamento ad esso riconosciuto o produrre effetti paralizzanti sui processi di riassetto territoriale.

Allo stato dell’arte, la Regione Piemonte non ha introdotto alcuna regola del tipo sopra esposto, anzi, le disposizioni dedicate alla fase decisionale del procedimento di fusione sono limitate. Del resto, è un tratto comune delle legislazioni regionali, seppur nelle rispettive differenze, non prevedere delle regole riguardanti la fase decisoria. Anche dall’analisi delle leggi delle Regioni, come la Lombardia[37], il Veneto[38], il Trentino-Alto Adige[39], la Toscana[40], che negli ultimi anni hanno puntato con decisione sullo strumento della fusione, ottenendo dei risultati apprezzabili, non si trovano dei riscontri in tal senso. La fase decisoria rimane appannaggio del Consiglio regionale che, di volta in volta, può decidere sull’opportunità della singola fusione, anche in caso di risultati referendari contrari al progetto o non univocamente conformi.

Tuttavia, non manca un esempio di legge regionale capace di rappresentare un punto di riferimento e che, grazie a un’articolata disciplina della fase decisoria, può offrire ai decisori politici gli strumenti per prevenire, o ricomporre, i conflitti tra le identità comunali e il riordino territoriale deciso dalla Regione. La legislazione dell’Emilia-Romagna[41] prevede che, qualora il risultato del referendum consultivo non sia univocamente favorevole alla fusione[42], prima di procedere alla variazione territoriale l’Assemblea legislativa debba acquisire il parere, per la cui espressione è richiesta una maggioranza qualificata, dei Consigli dei Comuni in cui l’esito del referendum ha visto prevalere i voti contrari. Trattasi, quindi, di un supplemento di istruttoria, da instaurarsi obbligatoriamente, quando dalle comunità locali non è emersa una piena adesione al progetto di riassetto territoriale. La legge regionale cerca di raggiungere un punto di equilibrio tra il rispetto dell’identità locale, protetta dagli artt. 5 e 133, co. 2, della Costituzione, e l’esigenza del riassetto della mappa comunale. Inoltre, viene tratteggiato uno scenario limite, nel quale il Consiglio regionale non può procedere in alcun caso alla variazione territoriale: afferma la legge che il progetto di fusione non possa essere portato a compimento «quando i voti complessivi sul referendum per la fusione sono contrari alla fusione stessa e contestualmente l’esito è sfavorevole almeno nella metà dei Comuni interessati»[43]. Nonostante tali norme cerchino di raggiungere una composizione degli interessi dei vari Comuni e della Regione, non di rado confliggenti, l’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna ha adottato una risoluzione, la n. 6085 dell’11 luglio 2018, con la quale si impegna, su un piano stavolta meramente politico, a non procedere alla fusione qualora anche soltanto in uno dei Comuni interessati i voti contrari risultino maggioritari, a prescindere dal risultato complessivo. Sintomo, anche questo, della difficoltà di individuare un punto di equilibrio che, nonostante gli sforzi, fatica a essere fissato in maniera definitiva. Malgrado ciò, rimane auspicabile che la Regione Piemonte percorra la medesima strada, adeguando la disciplina generale sulle fusioni, al fine di dotarsi degli strumenti adeguati per continuare l’opera di riordino della mappa amministrativa comunale.


 


[1] Dottorando di ricerca in Autonomie, Servizi pubblici e Diritti di Cittadinanza, Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.

 

[2] Tutti i dati sul numero di Comuni contenuti in questo paragrafo sono tratti da Comuniverso.it.

 

[3] Per un riepilogo degli incentivi statali a sostegno delle fusioni di Comuni si rinvia a: Camera dei Deputati – Servizio studi, Unioni e fusioni di Comuni, 4 marzo 2019. Tuttavia, si segnala che nel giugno del 2019 il Ministero dell’Interno ha effettuato un passo indietro, riducendo le risorse finanziarie messe a disposizione per il sostegno alle fusioni, per far fronte all’aumento delle forme associative che, sul medesimo capitolo di spesa, hanno richiesto contributi. Sul punto, cfr: Fusioni di Comuni, il Viminale certifica il taglio ai contributi e il «recupero» del 2018, Il Sole 24 Ore – Quotidiano Enti locali e Pa, 1° luglio 2019. Con riguardo alle fusioni di Comuni, un’analisi della stagione della cd. legislazione della crisi è stata compiuta da Massari G., Nuove tendenze per le fusioni di Comuni, in Vandelli L., Gardini G., Tubertini C. (a cura di), Le autonomie territoriali: trasformazioni e innovazioni dopo la crisi, Rimini, Maggioli, 2017, pp. 153-183.

 

[4] Per una puntuale analisi della legge 56/2014 si veda Sterpa A. (a cura di), Il nuovo governo dell’area vasta, Napoli, Jovene, 2014.

 

[5] Per una panoramica, relativamente aggiornata, sui processi di aggregazione territoriale degli ultimi anni si rinvia a: Tortorella W., Marinuzzi G., La geografia delle fusioni, unioni e convenzioni intercomunali, in Amministrare, n. 1, 2016, pp. 177-192.

 

[6] Cfr. Anci – Piemonte, Fusioni: normativa e incentivi, in www.anci.piemonte.it.

 

[7] Per una rassegna dei risultati dei referendum tenutisi nella seconda metà del 2018, e che hanno visto un generale rigetto di numerosi progetti di fusione, si veda la sezione dedicata alle fusioni di Comuni presente sul sito istituzionale della Regione Emilia-Romagna, disponibile all’indirizzo: https://www.assemblea.emr.it/fusione-di-comuni.

 

[8] Come da ultimo stabilito, C. cost. sent. 21/2018, le popolazioni debbono aver la possibilità di esprimersi – tramite referendum consultivo – in merito alla modifica della circoscrizione comunale, anche quando questa non comporti l’istituzione di un nuovo Comune per effetto di fusione o scorporo, e anche qualora il numero di persone direttamente interessate dalla variazione è esiguo. Per una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale si rinvia a: Vandelli L., Il sistema delle autonomie locali, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 76-77.

 

[9] C. cost. sent. 50/2015, par. 6.2.2. Per una lettura critica di tale decisione si veda Tommasi C., Fusione e incorporazione alla luce della sentenza n. 50 del 2015 della Corte costituzionale, in Istituzioni del federalismo, n. 2, 2015, pp. 447-459.

 

[10] Come riconosciuto da C. cost. sent. 261/2011.

 

[11] Ci si riferisce all’art. 11, co. 3-4, della l.r. 11/2012.

 

[12] Per un’analisi, in chiave comparata, delle diverse leggi regionali che disciplinano le variazioni delle circoscrizioni comunali si veda il contributo di: Filippini R., Maglieri A., Il procedimento legislativo di fusione di Comuni nelle leggi regionali, in Istituzioni del Federalismo, n. 2, 2015, pp. 313-329, nonché Politi F., Dall’Unione alla fusione dei Comuni: il quadro giuridico, in Istituzioni del Federalismo, n.s. 1, 2012, pp. 5-35.

 

[13] Art. 2-bis, co. 1, l.r. 51/1992.

 

[14] Art. 75 dello statuto regionale.

 

[15] Art. 74 dello statuto regionale.

 

[16] Più precisamente, la disposizione è stata introdotta dall’art. 5, co. 1, della l.r. 10/2009.

 

[17] Art. 3, co. 3, l.r. 51/1992.

 

[18] Come prevede l’art. 3, co. 5, l.r. 51/1992.

 

[19] Ci si riferisce all’art. 3, co. 3, l.r. 51/1992 il quale prevede che «La relazione di accompagnamento al progetto di legge comprenderà opportunamente: […] e ter) quando ricorre la fattispecie dell’incorporazione sono allegate le deliberazioni dei consigli comunali interessati alla variazione territoriale che attestano l’avvenuta effettuazione del referendum consultivo comunale e i verbali di proclamazione dei risultati della consultazione referendaria svolta secondo le norme dei rispettivi statuti e regolamenti e ai sensi dell’ articolo 133, ultimo comma, della Costituzione riportandone gli esiti e indicando l’eventuale sussistenza di contenziosi in atto». Dello stesso tenore è il co. 5-bis del medesimo articolo: «La commissione, nel caso di richiesta di modificazione delle circoscrizioni comunali mediante incorporazione di uno o più comuni in un comune contiguo, esamina il progetto di legge e le deliberazioni dei consigli comunali interessati alla variazione territoriale che attestano l’avvenuta effettuazione del referendum consultivo comunale, coinvolgente tutti gli elettori residenti nei comuni interessati, secondo le norme dei rispettivi statuti e regolamenti e ai sensi dell’articolo 133, ultimo comma, della Costituzione».

 

[20] A tal proposito la disposizione prevede che: «Le popolazioni interessate sono sentite ai fini dell’articolo 133 della Costituzione mediante referendum consultivo comunale, svolto secondo le discipline regionali e prima che i consigli comunali deliberino l’avvio della procedura di richiesta alla regione di incorporazione».

 

[21] Art. 3, co. 5-bis, l.r. 51/1992.

 

[22] Art. 36, co. 3, l.r. 4/1973.

 

[23] Art. 3, co. 7, l.r. 51/1992.

 

[24] Per effetto della l.r. 4/2017.

 

[25] Dati Istat al 1° gennaio 2016.

 

[26] Dati Istat al 1° gennaio 2016.

 

[27] Relazione al disegno di legge regionale 195/2016.

 

[28] Tar Piemonte, sez. II, sent. 12 novembre 2018 n. 1228, par. 2 cons. in diritto.

 

[29] Ibid., par. 2.1 cons. in diritto.

 

[30] Ibid.

 

[31] Ibid.

 

[32] Ibid., par. 1.2 cons. in diritto

 

[33] Tar Marche, sez. I, sent. 29 giugno 2017 n. 544, par. 5.

 

[34] Sul punto merita di essere condivisa la riflessione di Guella F., Le leggi-provvedimento come atti di non mera approvazione: dall’ipotizzata consequenzialità al referendum della legge di variazione delle circoscrizioni comunali alla riserva del sindacato alla giurisdizione di costituzionalità, in Rivista Aic, n. 1, 2018, p. 21: «Tali rischi, che la Corte costituzionale nega sulla base del fatto che la tutela davanti a sé stessa escluderebbe l’assenza di un rimedio, non sembrano in realtà del tutto scongiurati. Ciò, in particolare, in quanto il giudizio di costituzionalità non conosce tutela cautelare, impugnazioni, pluralità di azioni o, comunque, perlomeno modalità di sindacato davvero equivalenti all’eccesso di potere; profili che, nel loro complesso, inducono a ritenere quella davanti alla Corte costituzionale – se completamente assorbente del sindacato del giudice amministrativo – come una tutela in concreto meno estesa. […] Le preoccupazioni circa il depotenziamento delle tutele in caso di approvazione di una legge-provvedimento in corso di giudizio amministrativo, infatti, sembrerebbero più radicalmente tacitabili solo mediante un rafforzamento della figura dell’irragionevolezza, come vizio di costituzionalità che in queste ipotesi ben potrebbe andare accostandosi ad una vera figura di eccesso di potere legislativo».

 

[35] A tal proposito afferma Tubertini C., Il procedimento di variazione del territorio comunale tra giudice amministrativo e giudice costituzionale: pienezza ed effettività della tutela?, in Le Regioni, n. 3, 2018, pp. 527-528: «Sia sul piano sostanziale che su quello processuale la soluzione prospettata dalla Corte, come già anticipato, suscita qualche perplessità, ponendo indubbiamente problemi non solo nel caso affrontato dalla sentenza, ma anche in tutte le ulteriori ipotesi in cui, in futuro, potrebbero sollevarsi dubbi relativi al rapporto tra referendum e l.r. di variazione. […] Su questo punto cosi importante – la correttezza o meno dell’ambito della consultazione – la Corte non si pronuncia, neppure incidenter tantum, lasciando quindi aperta la questione. Nel fare ciò, essa finisce per enfatizzare il passaggio politico costituito dall’avvenuta approvazione, da parte del Consiglio regionale, della legge di variazione, soggetta sì al passaggio procedurale necessario del referendum, ma dotata di ampia discrezionalità nell’apprezzamento degli esiti, eventualmente contrastanti, dello stesso.Il rischio che questa enfasi sulla discrezionalità del legislatore regionale porti a svilire il vincolo rappresentato dalla volontà espressa dalla popolazione, attenuando lo scrutinio stretto di ragionevolezza sulle leggi di variazione territoriale, non è meramente ipotetico. Non è un caso che, proprio nei giorni successivi al deposito della sentenza che qui si commenta, il Consiglio regionale del Veneto – adottando una decisione del tutto inedita nel variegato panorama legislativo regionale – ha proceduto ad approvare la fusione fra tre Comuni, nonostante il referendum consultivo si fosse svolto chiedendo alla popolazione di esprimersi su una proposta di legge riguardante la fusione di quattro Comuni. Anche la denominazione prescelta per il nuovo Comune è risultata, alla fine, diversa da quelle sottoposta a consultazione. Nelle sedute consiliari si è fatto espresso riferimento alla sent. 2/2018 della Corte costituzionale ed all’esclusiva valutazione discrezionale degli interessi, sottesi alle valutazioni, eventualmente contrastanti, emersi nella consultazione, per giustificare la legittimità della scelta operata dal Consiglio; la legge non è stata oggetto di impugnazione in via diretta da parte del Governo, nonostante le istanze e le sollecitazioni formulate in tal senso da un gruppo di cittadini del Comune escluso».

 

[36] Ossia, nel caso in cui i voti favorevoli al progetto di fusione non prevalgano, in maniera uniforme, in tutti i Comuni interessati dalla variazione territoriale.

 

[37] L.r. Lombardia 29/2006.

 

[38] L.r. Veneto 25/1992.

 

[39] L.r. Trentino-Alto Adige 29/1963.

 

[40] L.r Toscana 68/2011.

 

[41] L.r. Emilia-Romagna 24/1996.

 

[42] Ossia, in base all’art. 12, co. 9-quater, quando «a) i voti complessivi sul referendum sono favorevoli alla fusione ma nella maggioranza dei Comuni prevale il voto contrario; b) i voti complessivi sul referendum sono favorevoli alla fusione ma il numero dei Comuni favorevoli è uguale a quello dei contrari; c) i voti complessivi sul referendum sono sfavorevoli alla fusione ma nella maggioranza dei Comuni prevale il voto favorevole».

 

[43] Art. 9-ter, l.r. Emilia-Romagna 24/1996.