Il riformismo sabaudo e la prima legislazione istituzionale della Regione Piemonte

Mario Dogliani[1]

 

Questo saggio è di prossima pubblicazione nel volume “Lineamenti di Diritto Costituzionale della Regione Piemonte”, a cura di Mario Dogliani, Joerg Luther, Anna Poggi in “Diritto costituzionale regionale” collana diretta da Pasquale Costanzo e Antonio Ruggeri, Giappichelli, Torino, 2017.

 

Premessa

Ripercorrendo le vicende della politica sabauda nei confronti di quelle che (per comodità e in modo fortemente semplificato) possiamo definire collettività territoriali, è possibile rintracciare una, forse tenue, ma tuttavia ben visibile, linea di continuità che, muovendo dalla “ristorazione” di Emanuele Filiberto, percorre il periodo dell’assolutismo e conduce, evolvendosi durante la Restaurazione, alla elaborazione del modello della “monarchia consultiva”, che sarà destinato ad entrare in conflitto con quello della “monarchia rappresentativa”, e ad esserne sconfitto, ma restandone un “preparatore”.

Tale modello “consultivo” non può non evocare (per quanto prudentissime) suggestioni di rimandi e persistenze in chi, riflettendo sul nostro recente passato, cerchi di ricostruire l’ispirazione di fondo della legislazione che tra gli inizi degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, a livello soprattutto regionale – e in modo particolarmente vivace e creativo nella Regione Piemonte – tentò di affiancare al circuito rappresentativo fondato sulle assemblee elettive – e dunque sul tessuto connettivo rappresentato dai partiti politici – un diverso, parallelo e complementare circuito di trasmissione dei bisogni fondato sulla partecipazione (non puntuale ed episodica, ma istituzionalizzata) delle collettività territoriali e delle forze economiche e sociali, e consistente nell’elaborazione a cascata di una complessiva (sinottica) programmazione socio-economica e pianificazione territoriale. Programmazione da realizzare attraverso la consultazione degli interessi espressi da ambiti territoriali omogenei (zone agricole, bacini di traffico, aree ottimali per l’attuazione di politiche della salute e dei servizi socio-assistenziali … comprensori).

Di fronte alle difficoltà che stava incontrando già negli anni Settanta-Ottanta il modello di democrazia fondato sul mero fatto elettorale (e che molti già allora volevano ulteriormente accentuare, vieppiù enfatizzando ed istituzionalizzando il processo di personalizzazione del potere) si cercò di trasformare quello che era definito “il nodo della partecipazione” in una politica istituzionale di largo respiro. Questa politica si concretizzò (per lo meno nella memoria della nostra tradizione culturale) in ipotesi che rieccheggiano le impostazioni di quel non tanto lontano passato in cui si posero le basi per uscire dal modello assolutistico. E’ anche questo un motivo che può, forse, giustificare un richiamo – e questo scritto non pretende di essere altro – a due momenti della nostra storia (gli anni precedenti l’octroi dello Statuto e i primi due decenni dell’esperienza regionale piemontese) in cui il principio consultivo si è posto in rapporto dialettico con quello elettivo.

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Intorno al rapporto tra comunità e poteri centrali negli stati sabaudi, e dunque intorno al lungo cammino che ha condotto a progettare la monarchia consultiva, si possono ricordare schematicamente i seguenti punti (ovviamente con tutti i rischi che la selezione e la sottolineatura di alcuni profili della realtà storica – e la mancata considerazione di moltissimi altri –  inevitabilmente comporta nella formazione di modelli: ma è un rischio che non si può evitare e che sarà eventualmente giustificato e “assolto” solo dalla, anche minima, capacità esplicativa di cui il modello si dimostrerà capace).

1) Per quanto il riformismo sabaudo sia stato certamente caratterizzato da un’impostazione empirica non può però considerarsi storicamente fondata l’enfasi con cui parte della dottrina sottolinea il livello teorico modesto delle politiche dell’assolutismo in materia di organizzazione del governo[2], e può invece essere considerata ragionevole l’ipotesi di una loro continuità nel segno della realizzazione di un assolutismo inteso come assolutismo amministrativo, o “monarchia amministrativa”[3].

2) Le premesse di questo disegno sistematico vanno ricercate nella discontinuità che agli ordinamenti degli stati sabaudi è derivata dal fatto che Emanuele Filiberto si sia considerato il riconquistatore, e non l’erede, dei suoi Stati, e che abbia cessato (in conseguenza di ciò) di convocare – di fatto abolendoli – gli antichi parlamenti e abbia posto a capo delle province propri funzionari (i Prefetti, poi Referendari o Direttori, confermati da Carlo Emanuele I nel 1624). In conseguenza di questa scelta iniziò a consolidarsi una burocrazia in senso moderno, e conseguentemente a determinarsi un dualismo (altrettanto moderno) tra questa stessa burocrazia e le comunità locali)[4]. Di qui iniziò a divaricarsi la storia del Piemonte da quella degli altri Stati italiani, nei quali mancò questa discontinuità con gli istituti medievali, la cui sopravvivenza informe pose quegli stati sotto il segno del progressivo invecchiamento e indebolimento[5].

3) Dalla fine del Seicento inizia a manifestarsi un processo di imposizione dall’alto di finalità pubbliche e sovracomunali che, nel secolo successivo, con Vittorio Amedeo II, assumerà nettamente i tratti di una uniformizzazione centripeta (Regio Editto di riordinamento tributario del 1713, Istruzione del 1717, Stabilimento delle Intendenze nei paesi di nuovo acquisto e Istruzione del 1750, Regie Costituzioni del 1723, 1729, e soprattutto 1770). Il dichiarato scopo di tale funzionalizzazione e uniformizzazione è quello di incrementare, attraverso la “buona direzione delle comunità” (Istruzione del 1717) la capacità contributiva e la solvibilità delle comunità medesime di fronte all’amministrazione finanziaria centrale.

4) A far tempo dalle Istruzioni di Vittorio Amedeo II, del 1693, la “forma” del potere centrale si definisce e si stabilizza nella figura dell’Intendente. Dapprima tutore delle comunità locali (la cui dipendenza dal potere centrale venne precisata con l’Editto di riorganizzazione della Camera dei Conti del 1720), l’Intendente diventa nel Settecento il propulsore dell’attività del Comune. Il suo ruolo e il conseguente processo di accentramento vengono ulteriormente definiti con le Regie Costituzioni del 1729 (che aumentano i compiti dell’Intendente) e con l’Editto del 1733 (che aumenta il controllo sulla vita interna delle comunità).

5) Il progetto di uniformizzazione centripeta si compie con il Regolamento per l’amministrazione de’ Pubblici nelle città, borghi e luoghi de’ regj Stati del 1775, emanato da Vittorio Amedeo III: si tratta della più organica e complessa consolidazione di diritto amministrativo attuata nella storia sabauda. Il nuovo Regolamento – per i profili che qui interessano – da una parte mira all’omogeneizzazione delle comunità, dall’altra riconosce il Comune come ente primario dotato di personalità originaria. Da un lato persegue un disegno accentratore, aggressivo, illuminista, razionalizzante, che mira a definitivamente sostituire i vassalli con i funzionari, realizzando un programma di decentramento gerarchico. Dall’altro continua a garantire le autonomie comunali, e dunque l’antico patrimonio di tradizioni e di identità locali, con ciò lasciando spazio alle resistenze localistiche e conservatrici nei confronti della politica assolutistica[6].

6) L’imposizione a tutte le comunità di una legge uniforme, soprattutto a fini fiscali, rappresenta la cancellazione di ogni residuo contrattualismo e delle tradizioni medievali di autonomia. Non solo le libertà divengono eccezionali, ma anche la passion de l’uniformité (un diritto municipale uguale per tutte le comunità e da tutte e per tutte ugualmente applicato) diventa una costante del regime sabaudo: il “dominio fermo” sopra le autonomie locali si pone come indiscutibile precursore dell’apparato burocratico napoleonico[7].

7) In questo sforzo razionalizzante del movimento illuminista e riformista piemontese sono pienamente presenti – accanto alle esigenze, per così dire, proiettate all’esterno, di difesa e di potenza militare – le preoccupazioni di integrazione dei nuovi ceti, da realizzarsi attraverso un processo di coinvolgimento nell’amministrazione pur diretto e coordinato dall’alto. Fu, quello avviato da Vittorio Amedeo II, un disegno ampio e ben riuscito, se è vero che, grazie ad esso, un insieme disomogeneo di territori arretrati si era saldato a formare una delle macchine politiche e militari più efficienti d’Europa[8].

8) Va notato che la continua variazione del numero delle Province (7 nel 1560, 16 nel 1619, 12 nel 1622, 18 nel 1653, 12 nel 1697, 9 nel 1723, 11 nel 1749)[9], oltre che come sintomo del tentativo di dar vita ad una amministrazione efficiente sotto il profilo economico, sembra poter essere interpretato – e qui sta il punto – anche come un tentativo di far acquisire all’amministrazione centrale quella legittimazione che le deriva dall’essere percepita come conforme agli interessi delle comunità locali in quanto dimensionata conformemente alle aspirazioni delle medesime e alle rappresentazioni che queste ultime abbiano dei loro interessi comuni (così da sfiorare il tema della loro rappresentatività, o comunque da porre le premesse per la elaborazione dei nessi tra “rappresentanza del basso” e “rappresentanza dell’alto” nelle istituzioni decentrate del potere centrale, come si chiarirà negli anni tra il 1831 e il 1847)[10].

9) Questo lungo processo di accentramento amministrativo si svolse – come nella generalità delle forme principesche tardomedievali e dell’età moderna – attraverso atti che contenevano la formula “Avuto il parere del Nostro Consiglio”. Il Consilium principis è un’istituzione – variamente denominata – presente fin dagli inizi degli Stati sabaudi, che fu riorganizzato da Emanuele Filiberto e poi, soprattutto, da Vittorio Amedeo II (1717) come importante tassello della sua riforma assolutistica. Ma è nel periodo napoleonico – soprattutto immediatamente dopo il colpo di stato del 18 brumaio, con la Costituzione dell’anno VIII – che (ri)emerge in Francia l’idea (forse originaria, legata alle caratteristiche della regalità medievale) di una separazione concettuale, e politicamente possibile, tra il carattere (tendenzialmente) “assoluto” del potere e il suo carattere “razionale, o deliberativo, o – potremmo dire oggi (con tutte le cautele del caso) discorsivo”. Il Consiglio di Stato istituito da Napoleone, in quegli anni, è infatti «un organo dotato di ampie funzioni consultive, investito di una forte connotazione politica e strettamente legato al Primo Console … con la facoltà di sovrintendere – sempre e solo a livello consultivo – su tutti i principali settori dell’ordinamento statale»[11]. Con la Costituzione dell’anno X – cioè con l’assunzione del titolo imperiale da parte di Napoleone (2 dicembre 1804) – inizia il percorso della tecnicizzazione-giurisdizionalizzazione di tale organo, che non perse però la sua connotazione politico-consultiva originaria.

10) Ne è testimonianza la Nota con cui Cesare Balbo ricordò la sua esperienza, iniziata nel 1807, come “uditore” del Consiglio napoleonico: «In questo Consiglio di Stato furono ideati, discussi e portati a perfezione tutti que’ codici e que’ regolamenti che malgrado dei loro gravi vizj fanno pure immortale il regno di Napoleone. E prima i cinque codici, civile, penale, di procedura civile, di procedura criminale e del commercio; inoltre i decreti e i regolamenti delle contribuzioni dirette e indirette, del demanio, delle acque e foreste, dei ponti e delle strade, dell’amministrazione della guerra e insomma tutti quei tanti regolamenti che si fecero nei dieci anni dal 1800 al 1810. Ai quali, quando si aggiunga la discussione del bilancio annuo, e poi l’immensità degli affari particolari che venivano da quell’immenso imperio, si vede che sarebbe stato impossibile bastare a tutto ciò coi soli ministeri. … per gli affari grandi e complicati, pe’ regolamenti che devono durare e principalmente per le leggi, Napoleone volle … far lavorare attivissimamente gli uomini più cospicui e più capaci dello stato»[12].

Questa memoria venne stesa da Cesare Balbo all’inizio del 1831, e venne presentata da Prospero Balbo (padre di Cesare) a Carlo Alberto nei mesi immediatamente precedenti l’istituzione, da parte di questi, con il regio editto 18 agosto 1831 (editto di Racconigi), del nuovo Consiglio di Stato nel Regno di Sardegna. Si ricordi che Carlo Alberto era salito al trono il 27 aprile 1831, e che quindi l’istituzione del Consiglio di Stato fu uno dei suoi primi atti di governo.

11) Quel che a noi interessa qui sottolineare è che nel periodo precedente i moti del 1821 vi fu un intenso proliferare di progetti tesi ad introdurre nel Regno un Consiglio di Stato “modernizzato” sul modello francese (progetti tra i quali particolare interesse assumono quelli di Prospero Balbo), e che, interrotta questa stagione dai moti predetti, una ripresa si ebbe nel 1831, con l’ascesa al trono di Carlo Alberto. Tali progetti, tutti orientati a innovare il modello monarchico secondo le formule della “monarchia amministrativa” o “consultiva”, si ispiravano però a due diverse anime. Per alcuni il modello della monarchia consultiva si poneva in alternativa a quello di monarchia rappresentativa, e serviva dunque ad evitare uno scivolamento verso le posizioni liberali che la reclamavano, e dunque a mantenere il carattere assoluto del potere monarchico. Per altri, invece, essa apriva la strada proprio a questo esito, prefigurando che gli interessi e le forze sociali “consultati” inevitabilmente avrebbero poi finito per essere “rappresentati” («prospettiva intravista – più nelle aspettative proprie che nella realtà – dall’ambiente liberalmoderato»[13]).

12) Si può dunque concludere – dato il carattere meramente informativo di queste pagine – ricordando che:

 – Negli anni della Restaurazione, dopo un iniziale ripudio delle innovazioni francesi ad opera di Vittorio Emanuele I (con il regio editto 21 maggio 1814, uno dei primi pubblicati dopo la restaurazione e il ritorno del re a Torino, vennero abrogati i codici e la legislazione francese e richiamate in vigore le regie Costituzioni del 1770 e le altre leggi emanate fino al 23 giugno 1800), riprese, sulla base dell’eclettismo giuridico tipico di quel periodo l’opera di innovazione.

 – Risultando ormai installata una forte burocrazia, iniziò a diffondersi, da un lato (come espressione del rifiuto dell’eredità del periodo rivoluzionario e napoleonico) un atteggiamento di contestazione del suo egoismo e della sua irresponsabilità; ma dall’altro il convincimento che la centralizzazione fosse indispensabile, e che il problema consistesse nel renderla più razionale.

– Se da un lato la dialettica tra autonomia e centralizzazione si mantenne, durante il regno di Carlo Alberto, nelle coordinate definite dal progetto centralizzatore settecentesco (l’autonomia come affermazione del potere dei notabili locali, dei loro interessi privati e dei campanilismi; la centralizzazione come strumento per contrastarli e per affermare l’interesse generale), d’altro lato emerge però un profilo nuovo (che si ricollega alla strategia integrazionistica dell’assolutismo e alla sua preoccupazione di ampliare le basi sociali del potere monarchico): l’autonomia come mezzo per favorire la partecipazione dei governati.

«L’istituzione del Consiglio di Stato doveva servire anche per attestare un altro modo di impostare il governo dello Stato: … aperto alla discussione ed alla ricerca (nel Consiglio di Stato) delle soluzioni migliori dei singoli problemi; non limitato alle dirette decisioni ministeriali, ma frutto di una continua consulenza di un organo collegiale del quale facevano parte personalità apprezzate per le loro capacità e conoscenze; non un gruppo verticistico di collaboratori regi, ma un collegio di esperti, aperto pure ad altri con conoscenze specifiche dei singoli problemi da esaminare, ed allargato anche – verso il basso – ad ulteriori voci delle realtà locali delle varie parti del regno. … La “monarchia consultiva” incanalava la persistente assolutezza formale del potere del re entro un alveo nel quale era presumibile che nella sostanza esso potesse essere influenzato (cioè “aiutato” …) da un organo di consulenza nel quale la pluralità delle voci presenti poteva venire ad esprimere pure l’opinione comune o pubblica».[14]

L’obiettivo della “partecipazione” – latente nel decreto istitutivo del Consiglio di Stato – venne esplicitato e ufficializzato con il Regio Editto 27 novembre 1847, dovuto all’opera di Giacomo Giovannetti, che delineò una sostanziale riforma dell’ordinamento amministrativo sabaudo. Esso prevedeva, per la prima volta, l’elezione dei Consigli comunali dal basso (e da un corpo elettorale molto più ampio anche di quello del periodo napoleonico, in quanto esteso, in parte, a consiglieri non appartenenti al ceto dei proprietari, essendo sufficiente il pagamento della sola tassa personale) ma soprattutto instaurava un sistema ascendente di trasmissione degli interessi. Per i profili che qui particolarmente rilevano, va sottolineato il disegno di dar vita ad un meccanismo di organi consultivi che sale per gradini successivi dai comuni alle province, alle divisioni ed al Consiglio di Stato così da instaurare pienamente la monarchia consultiva[15]. Nel progetto originario era previsto che il Consiglio di Stato avesse facoltà di esporre al Re quei bisogni e quei desideri che emergessero nell’interesse della divisione e delle sue province, ma nella redazione finale si volle specificare che l’interesse poteva essere solo quello economico: il che comprova come nel progetto fossero presenti(e dunque fossero temute) ambizioni profonde, quali quella di delineare una via dialettica di fusione dell’elemento democratico-rappresentativo e monarchico-assoluto. Riprendendo spunti già discussi prima dell’editto di Racconigi del 1831, l’editto del 27 novembre 1847 sulla riforma delle autonomie locali, elaborato da Giacomo Giovannetti[16], prevedeva che «fra gli eletti nei consigli comunali sarebbero stati scelti e nominati dal Re i consiglieri provinciali, che avrebbero eletto fra loro i consiglieri divisionali, due dei quali sarebbero poi stati ancora scelti dal re entro la Divisione a sedere nel Consiglio di Stato “compiuto” … era il massimo che una monarchia non costituzionale nel 1847 poteva giungere a prevedere»[17].

Fu l’abbandono di questa prospettiva da parte dell’editto del 1831 che suscitò, allora, molte polemiche[18] e che fece scrivere, dopo centotrent’anni, a Ghisalberti: «… il Consiglio di Stato piemontese, investito di una competenza consultiva assai vasta, e rappresentativo per la composizione della sua adunanza generale degli interessi di tutto il paese, veniva trasformato … dalle lettere patenti del 13 settembre del 1831, da una istituzione politica di largo respiro in quell’organo esclusivamente consultivo della pubblica amministrazione la cui vicenda resterà strettamente legata alla storia del diritto italiano. L’originario proposito di Re Carlo Alberto, di porre in essere un compiuto sistema di governo consultivo, avente al vertice il Consiglio di Stato, e sulla base di organi consultivi comunali e provinciali, veniva così ad essere snaturato»[19].

13) Il progetto Giovannetti – che intendeva riprendere quell’originaria impostazione – fu criticato dai fautori del governo rappresentativo per il suo carattere ibrido, e il disegno che lo sosteneva (quello della monarchia consultiva) fu travolto dagli avvenimenti che portarono alla concessione dello Statuto: esso pertanto non fu mai attuato, e verrà sostituito dalla legge municipale del 1848.

14) Lo studio della successiva legislazione relativa al Consiglio di Stato e alla materia delle autonomie locali appartiene ad un’altra stagione e pone problemi del tutto diversi da quelli sui quali qui si è inteso attirare l’attenzione. La storia delle istituzioni liberali è, sul punto, la storia di una tensione tra poteri, centrali e periferici, omogenei (perché entrambi elettivi e, per così dire, “fattuali”; la storia delle istituzioni create dall’assolutismo illuministico (in una continuità non spezzata dalla restaurazione) è la storia di una tensione tra poteri non omogenei: tra quelli “fattuali”, espressione del tradizionalismo localistico e del privatismo municipale, e quelli che si autopercepivano come strumenti di una razionalità astratta e superiore.

15) Le considerazioni che precedono, in particolare il concetto di forma di governo consultiva e il suo legame – dilemmatico, ma anche di prossimità – con il concetto di forma di governo rappresentativa (e in ogni caso il loro legame storico) rendono per lo meno intrigante l’idea che non solo la democrazia rappresentativa sia uno sviluppo/perfezionamento (per quanto radicale) della democrazia consultiva; ma che possa residuare un nesso tra le due. Se si rifiuta – cosa di cui sono sempre più convinto – la concezione solo formale della democrazia (per cui questa si identifica totalmente con il voto dei singoli, e si dissolve in esso) e se si pensa invece che “votare non basta”, perché è necessario faticosamente e continuativamente dare forma politica (pluralistica) alla moltitudine, creando quelle istituzioni organizzative-culturali-di interesse (capaci di mediare in discorsi politici quelli religiosi, morali, filosofici …) attraverso cui la moltitudine cessa di essere un “volgo disperso che nome non ha” e si trasforma in un popolo (al quale, così organizzato, appartiene la sovranità), si pone allora – tra gli altri – il problema di “come” esercitare il potere legittimato dalle elezioni, e di rafforzare questa stessa legittimazione, affinché esso si presenti come un potere razionale, e non come l’espressione di una serie di umori scomposti. L’ipotesi qui avanzata è che si può cogliere, nella legislazione dei primi decenni della Regione Piemonte, una eco delle concezioni del potere consultivo: che cosa sono infatti la programmazione socio-economica e la pianificazione territoriale se non un tentativo di affiancare alla legittimazione rappresentativa (come, in altri tempi, alla legittimazione assoluta) una altra legittimazione fondata sulla “consultazione” istituzionalizzata e continua dei destinatari degli atti normativi e delle politiche, e che fa valere una razionalità diversa da quella dei rapporti di forza elettoralmente definiti? E’ solo una suggestione, ma fa pensare. Sta qui il generoso tentativo di quegli anni di trasformare lo Stato attraverso le Regioni.


[1] Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino.

[2] Enrico Genta, Intendenti e comunità nel Piemonte settecentesco, in Comunità e poteri centrali negli antichi Stati italiani, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli 1996, 43.

[3] Tra i contributi più recenti relativi alle vicende degli stati sabaudi, per quanto riguarda il profilo dei rapporti tra potere assoluto e attività consultiva cfr. Francesco Aimerito, Il consilium principis medievale, in Claudio Franchini (a cura di) Il Consiglio di Stato nella storia d’Italia, Wolters Kluver Italia, Milanofiori Assago 2011, 7 ss.; Id., Il Consiglio di Stato da Emanuele Filiberto al secolo XVIII, ivi, 23 ss.; Paola Casana, Da Napoleone a Carlo Alberto. I molteplici volti del Consiglio di Stato nei progetti della restaurazione sabauda, ivi, 49 ss.; Gian Savino Pene Vidari, Il Consiglio di Stato nel Regno di Sardegna (1831 – 1861), ivi, 95 – 148. Sull’origine dell’espressione “monarchia amministrativa” nella storiografia moderna cfr. gli autori citati da Paola Casana, op. cit., 54, n. 6.

[4] Gian Savino Pene Vidari, Profili delle istituzioni sabaude nei secc. XV-XVIII (da Amedeo VIII a Carlo Emanuele III), in Aspetti di Storia giuridica piemontese, a cura di C. de Benedetti, Giappichelli, Torino 1994, 88-89; Enrico Genta, op. cit., 44-46.

[5] Enrico Genta, op. cit., 46 che riporta il pensiero di Cesare Balbo, secondo cui Emanuele Filiberto sarebbe stato il sovrano dell’unica provincia italiana non «evirata»; Giorgio Lombardi, I Comuni della provincia di Cuneo nello Stato Sabaudo: problemi evolutivi delle autonomie locali, in Scritti scelti, a cura di Elisabetta Palici di Suni e Stefano Sicardi, ESI, Napoli, 2011, 71-97, secondo cui gli altri Stati italiani avrebbero assunto «il tipico aspetto degli organismi invecchiati, nei quali sopravvivono in gran copia i resti informi degli istituti medievali».

[6] Gian Savino Pene Vidari, Comuni ed autonomia statutaria, in Aspetti di Storia giuridica…, op. cit., 38-43.

[7] Enrico Genta, op. cit., 56.

[8] Geoffrey Symcox, Vittorio Amedeo II: l’assolutismo sabaudo 1675-1730, SEI, Torino 1989.

[9] Enrico Genta, op. cit., 47.

[10] Gian Savino Pene Vidari, Il Consiglio di Stato albertino: istituzione e realizzazione, in Atti del convegno celebrativo del 150o anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Giuffrè, Milano, 1983, 21-61.

[11] Paola Casana, op. cit., 52.

[12] La Nota di Cesare Balbo è riportata ivi, 58-59.

[13] Gian Savino Pene Vidari, Il Consiglio di Stato nel Regno di Sardegna (1831 – 1861), op. cit., 119.

[14] Pene Vidari, op. ult. cit., 101.

[15] Gian Savino Pene Vidari, Aspetti di storia giuridica del secolo XIX, op. cit, 121-134.

[16] Corrado Pecorella, Giacomo Giovanetti e la riforma delle amministrazioni locali sabaude, in Id., Studi e ricerche di storia del diritto, Giappichelli, Torino 1995, 621 ss..

[17] Gian Savino Pene Vidari, Il Consiglio di Stato nel Regno di Sardegna (1831 – 1861), op. cit., 119.

[18] Vedi le polemiche di Brofferio (pubblicate nel 1850) riportate da Giorgio Lombardi, Il Consiglio di Stato nel quadro istituzionale della Restaurazione, in Atti del Convegno celebrativo del 150° anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Giuffrè, Milano 1983, 63 ss..

[19] Carlo Ghisalberti, Dall’antico regime al 1848, Laterza, Bari 1979, 135.