L’amministrazione delle società a capitale pubblico per la gestione dei servizi pubblici locali

Lo “stato dell’arte”, dopo le modifiche introdotte dal D.L. 95/2012 in tema di contenimento della spesa pubblica, dal D. Lgs. 39/2013 in tema di incompatibilità degli incarichi, dalla Legge di stabilità per il 2014 e dal D.L. 90/2014, contenente misure urgenti per l’efficienza della P.A.

Alessandro Baudino1

   

1. Introduzione.

Norme societarie e norme di diritto speciale: una difficile conciliazioneI limiti normativi imposti alla nomina e composizione degli organi amministrativi delle società di capitali a partecipazione pubblica (solo in parte attenuati dal D.L. 90/2014, contenente misure urgenti per l’efficienza della P.A., convertito con la Legge 114/2004), comporta l’insorgere di problemi operativi delicatissimi per coloro che devono confrontarsi giornalmente con l’amministrazione delle società di gestione dei servizi pubblici locali, facendosi carico delle responsabilità che ne derivano.

La rilevanza della problematiche sopra riferite imporrebbe l’emanazione di una regolamentazione il più possibile chiara e precisa.

Per contro, la disciplina della materia è il frutto di una congerie di disposizioni ispirate a finalità tra loro diverse e non sempre facilmente conciliabili (garantire l’efficienza e la qualità dei servizi, evitare effetti distorsivi della concorrenza sui mercati, moralizzare la gestione sottraendola alle logiche della politica, evitare gli sprechi e contenere la spesa pubblica, etc.). Si tratta inoltre di disposizioni in molti casi lacunose, di non felice formulazione e spesso emanate sull’onda dell’urgenza e inserite in “leggi contenitore” volte a disciplinare le materie più disparate, e purtroppo nella maggior parte dei casi disancorate dalle logiche che devono necessariamente presiedere alla gestione delle società di capitali.

Sebbene l’impiego, da parte degli enti pubblici, delle società di capitali per la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica o per lo svolgimento di attività strumentali alla gestione di tali servizi costituisca una prassi consolidata in ambito comunitario ed internazionale, che risponde ad esigenze da lungo tempo recepite anche dal nostro ordinamento, la materia continua ad essere una delle più complesse ed inestricabili del nostro sistema giuridico, e sconta gli effetti di un tormentato processo di produzione legislativa, caratterizzato dal continuo sovrapporsi di norme tra loro contraddittorie, influenzate dall’avvicendarsi di opposti indirizzi di politica legislativa2.

Invero, è ormai trascorso quasi un trentennio dall’emanazione della L. 142/1990, che introdusse la possibilità, per i comuni e le province, di gestire i servizi pubblici mediante l’impiego di società per azioni costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio. Tuttavia l’intervento dal legislatore in questo settore risulta ancora condizionato da quella forma di strabismo che ha influenzato l’evoluzione della normativa in materia.

Con un occhio, infatti, il legislatore volge lo sguardo al sistema del diritto societario.

Da questa prospettiva, il legislatore individua nella società di capitali un modello organizzativo dell’attività di impresa altamente perfezionato che, per le sue caratteristiche di efficienza ed affidabilità, da un lato si presta ad essere utilizzato (anche in assenza di un substrato pluripersonale, e cioè in forma di società unipersonale), per il perseguimento di finalità di interesse pubblico a prima vista incompatibili con la finalità di lucro che caratterizza il contratto sociale (nell’accezione di cui all’art. 2247 c.c.); d’altro lato consente di dare piena attuazione ai principi ispiratori della disciplina di emanazione comunitaria volta a garantire la concorrenza sui mercati nazionali e comunitari3: nel senso che permette di assicurare un mercato unico, senza frontiere, ponendo sullo stesso piano vari soggetti pubblici e privati, in armonia con gli artt. 3 e 41 Cost., artt. 90, 92, 93, Trattato CE, artt. 4 e 34 Direttiva 93/38/CEE4.

Con l’altro occhio, il legislatore punta invece lo sguardo sul mondo del diritto amministrativo, caratterizzato dall’esercizio, da parte dello Stato e degli enti pubblici, di ampi poteri di imperio, volti a garantire il perseguimento di interessi pubblici che spesso sfuggono ad una logica d’impresa.

Da questa prospettiva, la partecipazione dell’ente pubblico al capitale della società diventa il presupposto per l’emanazione di norme che comportano brusche deviazioni dai principi generali del diritto societario: deviazioni che si intensificano a seguito del recepimento, nel nostro ordinamento, del concetto di origine comunitaria di “organismo di diritto pubblico”5.

L’introduzione nel nostro ordinamento di tale definizione, che individua un soggetto non classificabile secondo gli schemi del diritto interno, ha permesso alla giurisprudenza di poter affermare che la normativa di diritto amministrativo si applica anche a soggetti di diritto privato, quali appunto le società per azioni a partecipazione pubblica, con riferimento a determinate materie6. E sull’onda di questo orientamento si va ora sviluppando la tendenza legislativa a restringere ulteriormente i margini di libertà di azione delle società a capitale pubblico e misto, con la finalità di a evitare distorsioni della concorrenza.

In questa particolare visione, influenzata dalla natura pubblica della compagine sociale, si inseriscono le disposizioni volte a prevenire il malcostume di utilizzare le società di capitale come schermo per eludere i vincoli di finanza pubblica, o per attribuire e remunerare incarichi legati a logiche puramente politiche.

Queste due visioni dello stesso fenomeno procedono tuttavia separate; e ad oggi il legislatore non ha ancora saputo adottare quella lente correttiva che gli consentirebbe di far convergere le due prospettive e regolamentare la materia in modo organico7.

A ciò aggiungasi che il percorso seguito dal legislatore nel disciplinare la materia delle società a partecipazione pubblica è stato, negli anni tutt’altro che univoco. Ed infatti dopo un primo periodo caratterizzato da un netto favore del legislatore verso l’impiego del modello organizzativo delle società di diritto privato (con la finalità di introdurre anche nel settore dei servizi pubblici i princìpi dell’efficienza e della competizione per consentire al pubblico dei consumatori la possibilità di usufruire dei servizi migliori a prezzi il più possibile contenuti), si è dovuto assistere ad un’inversione di tendenza: come dimostrato dalle numerose disposizioni che si sono succedute negli anni più recenti, finalizzate a limitare in misura sempre più rilevante sia l’ambito di operatività delle società a controllo pubblico, sia l’ambito di discrezionalità del socio pubblico nella costruzione del modello organizzativo8.

La situazione sopra descritta è ulteriormente aggravata dall’illusoria pretesa (che caratterizza gli interventi legislativi che si sono succeduti in materia) di contenere gli abusi e stimolare comportamenti virtuosi apponendo limiti alle modalità di organizzazione e gestione delle società, anziché premiando gli amministratori capaci ed onesti e rimuovendo e sanzionando i negligenti e i corrotti.

Il fenomeno sopra descritto ha influenzato in misura rilevantissima sia la disciplina della scelta e nomina degli amministratori, sia l’attribuzione e ripartizione dei poteri gestori in seno all’organo amministrativo: incidendo quindi non solo su aspetti attinenti alla governance, ma addirittura sulla questione (delicatissima, per le responsabilità che ad essa si ricollegano) relativa all’attuazione di quegli “adeguati assetti organizzativi” che – come meglio si osserverà nel prosieguo – costituiscono uno dei cardini essenziali del sistema dei doveri e delle responsabilità degli amministratori.

Pare quindi opportuna una riflessione critica su questi specifici aspetti, al fine di evidenziare le problematiche che la normativa che si è susseguita comporta e individuare le possibili strade per superarle, nell’attesa che un legislatore illuminato si concentri sull’obiettivo di riordinare in modo organico e sistematico l’intera materia.

A tal fine occorre ricostruire il quadro normativo di riferimento, ripercorrendo i vari interventi legislativi che hanno contribuito a formarlo.

2. Il quadro normativo di riferimento: l’assoggettamento delle società a capitale pubblico alle norme del diritto societario.

2.1. Le disposizioni del codice civile: le norme in tema di nomina degli amministratori.

Il quadro normativo di riferimento è costituito, per una parte limitata – ma di significativa importanza ai fini dell’inquadramento del fenomeno – dalle disposizioni del titolo V del codice civile.

Tra queste disposizioni spicca l’art. 2449 c.c. che, derogando al principio generale che riserva all’assemblea il potere di nomina degli amministratori delle società per azioni, attribuisce al socio pubblico un autonomo potere di nomina e di revoca di amministratori e sindaci.

La disposizione in commento affronta il delicato problema della tutela del socio pubblico nella fase fondamentale della nomina degli amministratori della società partecipata, e lo risolve mediante l’attribuzione di una prerogativa consistente nel diritto di nominare uno o più amministratori e componenti degli organi di controllo.

La ragione di tale disciplina deve essere ricercata nel timore che “la longa manus privata” possa in qualche modo sottrarre l’attività sociale al controllo da parte del socio pubblico e ciò ha indotto il legislatore a dettare norme specifiche volte “a regolamentare alcuni elementi essenziali della società mista a partecipazione pubblica minoritaria”, al fine di “tutelare il socio pubblico minoritario, ma soprattutto, attraverso di esso, di garantire il raggiungimento del fine pubblico9. Da qui l’esigenza di attribuire al socio pubblico diritti e poteri più ampli di quelli che gli spetterebbero in rapporto al capitale conferito e permettendogli in tal modo di mantenere un potere di controllo sull’impresa privata.

L’attuale formulazione dell’art. 2449 c.c. (frutto di una serie di modifiche resesi necessarie a seguito di censure mosse al testo previgente dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea10) così recita:

Art. 2449. – (Società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici). – Se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione al capitale sociale.

Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea.(…)” I sindaci, ovvero i componenti del consiglio di sorveglianza, restano in carica per tre esercizi e scadono alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo al terzo esercizio della loro carica.

La disposizione sopra richiamata comporta l’insorgere di problemi applicativi assai delicati11, il cui esame esula tuttavia dall’ambito di questa indagine12.

Ciò che preme invece rilevare e che le norme in questione, mentre dettano alcune disposizioni specifiche in tema di governance, implicitamente ammettono l’assoggettamento delle società a partecipazione pubblica alle norme che disciplinano le società di capitali. In questa direzione assume particolare rilevanza la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 2449 c.c. sopra riportato, ove si precisa che “Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del primo comma (…) hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea”.

La precisazione contenuta nella disposizione citata consente infatti di rimarcare il principio (accolto dalla dottrina prevalente) che il privilegio concesso al socio pubblico non influisce sulla disciplina giuridica della società, che resta regolata dalle norme di diritto civile e societario, ove esse non siano espressamente derogate da leggi speciali13.Come si evince dalla stessa relazione tecnica di accompagnamento al D. lgs. 6/2003, di riforma del diritto societario 14, l’intenzione del legislatore è di attribuire soltanto un privilegio al socio pubblico, il quale, per il resto, può unicamente fare affidamento alla normativa di diritto comune, influenzando e dirigendo la gestione della società soltanto attraverso i normali poteri che gli vengono attribuiti in quanto socio di una società per azioni.La nomina degli amministratori di designazione pubblica si configura quindi come una nomina esterna, estranea alle dinamiche assembleari, analoga alla nomina da parte del socio di s.r.l. cui lo statuto riservi particolari diritti “riguardanti l’amministrazione della società”, a norma dell’art. 2468, 3° co., c.c.15.

L’attribuzione al socio (pubblico), in luogo dell’assemblea, del potere di nomina, comporta unicamente una diversità del luogo di adozione della decisione di nomina e dell’atto con cui tale decisione viene assunta. Con la previsione dell’art. 2449 c.c., il socio pubblico può infatti adottare tale decisione mediante un atto amministrativo, che non deve neppure essere recepito e convalidato da una delibera assembleare16, ed inoltre può assumerla al di fuori dell’assemblea dei soci.

Occorre a questo proposito sottolineare che, una volta effettuata la nomina, il rapporto (contrattuale) di amministrazione si instaura tra l’amministratore e la società: quest’ultima è dunque tenuta all’adempimento degli obblighi di legge e di contratto (ed in particolare è tenuta al versamento degli emolumenti deliberati dall’assemblea e di quelli eventualmente stabiliti dal consiglio di amministrazione a titolo di remunerazione di particolari cariche ai sensi dell’art. 2389, comma 2, c.c.); e nei confronti della società l’amministratore è tenuto al rispetto di tutti gli obblighi nascenti dalla legge e dello statuto, sotto pena di assunzione delle relative responsabilità nei confronti della società in caso inadempimento.

Le considerazioni che precedono sono una diretta e logica conseguenza dell’applicazione alla società a partecipazione pubblica della regole del diritto societario cui i soci hanno ritenuto di assoggettarsi all’atto della costituzione. Tuttavia tali considerazioni meritano di essere rimarcate: infatti l’ampia casistica delle disfunzioni che sovente affliggono le società a partecipazione pubblica nasce proprio dal fatto che la previsione di un potere esterno di nomina da parte del socio pubblico determina frequentemente un fenomeno di ingerenza del socio pubblico nella gestione sociale: ingerenza che viene sovente addirittura interpretata come legittima espressione di un interesse pubblico a condizionare ovvero controllare, in casi determinati, la gestione della impresa privata.

Invero, la natura esterna della nomina – ed il rapporto interno che lega l’amministratore pubblico designato all’ente pubblico che lo nomina – potrebbero indurre a ritenere (e questa è l’interpretazione generalmente accolta dalle amministrazioni pubbliche socie) che il potere di nomina implichi altresì un potere di direttiva nei confronti del soggetto nominato.

Alcuni autori erano giunti a questa conclusione muovendo dalla considerazione che la norma in esame riserva al socio pubblico la facoltà di revoca della nomina: “la quale starebbe a significare che l’interesse pubblico sotteso non va considerato solo nel momento della designazione, ma esige un riscontro costante sull’attività posta in essere dall’amministratore o dal sindaco nominato, così da consentire l’interruzione de1 rapporto nei casi in cui essa non sia ad esso conforme o adeguata. L’atto di nomina pertanto instaura, accanto al rapporto di diritto privato tra amministratore e società, un rapporto continuativo tra l’ente pubblico e l’amministratore, caratterizzato a sua volta dalla riconosciuta potestà del primo di emanare direttive che il secondo ha l’obbligo di eseguire. Con l’effetto, di evidente rilevanza pratica, di legittimare la revoca nel caso in cui l’amministratore nominato per mano pubblica non rispetti e non si adegui alle indicazioni operative che gli vengano impartite”17.

Quanto sopra detto ha indotto la dottrina e la giurisprudenza ad affrontare il problema (assai ricorrente nella pratica, e profondamente sofferto da chi è investito di nomine da parte del socio pubblico in società di diritto privato) di stabilire se ed in che misura i membri nominati in base all’art. 2449 c.c. possano o debbano far valere, nell’adempimento delle loro funzioni, le istanze del soggetto pubblico, anche quando non coincidenti con l’interesse sociale (con gli eventuali problemi che ciò può comportare sotto il profilo della responsabilità nei confronti della società e degli altri soci).

Orbene, alla luce degli orientamenti formatisi sul punto (culminati con la sentenza 26806/2009 delle S.U. della Corte di Cassazione di cui si dirà al paragrafo seguente) è oggi incontestabile che i soggetti nominati dallo Stato o dall’ente pubblico devono perseguire, al pari degli altri amministratori, l’interesse sociale, disattendendo le istanze provenienti dall’ente che li ha nominati qualora tali istanze siano contrastanti con l’interesse sociale.

Questa conclusione è, del resto, l’unica consentita proprio dal passo dell’art. 2449 c.c. sopra richiamato (rimasto invariato e confermato nella sua formulazione da tutti i successivi interventi che hanno interessato la predetta disposizione), in cui si precisa espressamente che “Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del primo comma (…) hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea”.

2.2. Gli orientamenti giurisprudenziali in tema di obblighi e responsabilità degli amministratori: rapporti e confini tra responsabilità civile e responsabilità contabile.

Ai fini di un corretto inquadramento della disciplina applicabile alle società a partecipazione pubblica e del successivo esame delle questioni operative che essa comporta è utile svolgere alcune considerazioni sulla delicatissima problematica degli obblighi e delle responsabilità degli amministratori e dei componenti degli organi di controllo delle società a capitale parzialmente o interamente pubblico, ed in particolare dell’assoggettamento di tali soggetti alla responsabilità contabile ed alla coesistenza di tale responsabilità con quella civile, regolata dalle norme del diritto societario.

Invero, alla domanda se, ed in che misura, la partecipazione dello stato o di enti pubblici al capitale di una società per azioni o a responsabilità limitata possa giustificare una deroga al sistema delle responsabilità degli organi di gestione e controllo delineato dal diritto societario, cui tali enti sono soggetti, parrebbe logico rispondere che la questione deve essere risolta semplicemente argomentando sulla base dei principi generali in materia di applicazione delle leggi: concludendo quindi che, ove manchi una legge speciale che deroghi ai principi generali della materia, la disciplina in materia di responsabilità degli organi di gestione e controllo delle società a partecipazione pubblica non potrà che essere la stessa applicabile a tutte le società di capitali.

Il problema non è tuttavia così scontato.

Ed infatti la più recente evoluzione dell’ordinamento – caratterizzata, da un lato, dalla tendenza ad affidare a soggetti privati la realizzazione di finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli organi pubblici; e, d’altro lato, dal sempre più frequente impiego di strumenti privatistici per il perseguimento di finalità di interesse pubblico – ha reso molto più incerti i confini tra l’agire dell’amministrazione in forza della potestà pubblica ad essa spettante e per le finalità tipicamente a questa connesse, ed il suo agire invece jure privatorum.

Come si è rilevato nel paragrafo introduttivo, questa evoluzione ha indotto la Corte di Cassazione ad assimilare agli enti pubblici economici le società di capitali partecipate in misura totale o prevalente dallo Stato e da enti pubblici: con l’effetto di estendere a tali società anche il regime della responsabilità contabile e la giurisdizione della Corte dei Conti, cui sono soggetti gli enti pubblici economici.

In quest’ottica anche le sezioni unite della Cassazione, per evitare il rischio di un sostanziale svuotamento – o almeno di un grave indebolimento – della giurisdizione della corte contabile in punto di responsabilità, per molti anni ha teso a privilegiare un approccio più “sostanzialistico”, sostituendo ad un criterio eminentemente soggettivo, che identificava l’elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica dell’agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a tal fine adoperate18.

In questo senso, con specifico riferimento alle società di capitali a partecipazione pubblica le Sezioni Unite della Cassazione19 erano giunte ad affermare il principio che una società per azioni costituita con capitale maggioritario di un ente locale in vista dello svolgimento di un servizio pubblico ha una relazione funzionale con l’ente territoriale, caratterizzata dall’inserimento della società medesima nell’iter procedimentale dell’ente locale e del conseguente rapporto di servizio venutosi così a determinare: con la conseguenza di riconoscere la giurisdizione della Corte dei conti per le controversie in materia di responsabilità patrimoniale per danno erariale riguardanti gli amministratori ed i dipendenti.

Tuttavia, l’attribuzione dell’azione risarcitoria alla Corte dei Conti poneva un problema delicatissimo di coordinamento con le azioni che, nel sistema delle responsabilità delineato dal diritto societario, possono essere fatte valere dai soggetti direttamente o indirettamente lesi dal comportamento illegittimo degli amministratori e dall’omessa vigilanza da parte degli organi sottoposti al loro controllo.

Ed infatti, l’orientamento che sosteneva che l’azione di responsabilità amministrativa dovesse prevalere su quella civile in caso di società interamente partecipate o controllate dallo Stato o da enti pubblici, finiva con il privilegiare l’utilizzo di un sistema di prevenzione, sanzione e risarcimento del danno decisamente più riduttivo ed imperfetto a discapito di un sistema più perfezionato ed efficiente: ciò in contrasto con le stesse finalità invocate (di apprestare adeguata reazione avverso le condotte illecite degli amministratori), e per di più in un settore (quello di società che utilizzano risorse di provenienza pubblica) in cui tale esigenza di reazione è ancor più sentita e giustificata.

Mentre, per contro, il ritenere che la responsabilità civile dovesse coesistere con quella amministrativa, avrebbe esposto gli amministratori al rischio di dover risarcire due volte (una volta alla società, ed una seconda volta al socio pubblico) lo stesso danno cagionato dal loro comportamento illegittimo.

I problemi sopra illustrati, ampiamente dibattuti in dottrina, in giurisprudenza sono rimasti aperti sino alla pronuncia della sentenza n. 26806/2009 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che è destinata a costituire una pietra miliare nella delicata materia della responsabilità degli amministratori e sindaci delle società a partecipazione pubblica, in quanto per la prima volta individua un principio che consente di demarcare in modo netto i confini tra responsabilità civile e responsabilità contabile.

La Corte di Cassazione, sulla base di una motivazione assai articolata e ben argomentata, giunge alla conclusione (qui riassunta con estrema sintesi), che la partecipazione (anche maggioritaria) del socio pubblico ad una società di capitali non consente di superare il principio della personalità giuridica che la legge riconosce a tale tipo di società: nel senso che la “distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri non consentono di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno che l’illegittimo comportamento degli organi sociali abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell’ente: patrimonio che è e resta privato”.

La conseguenza di questa affermazione è che la giurisdizione della Corte dei Conti risulta confinata alle sole ipotesi in cui i soci pubblici siano stati direttamente danneggiati dall’operato degli amministratori della società partecipata (come nel caso del danno all’immagine dell’ente pubblico socio e, sembra corretto aggiungere, in tutte le altre ipotesi in cui l’art. 2395 c.c. riconosce azione diretta “ai soci ed ai terzi che siano stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori20).

In tutti gli altri casi il danno subito del socio pubblico è soltanto indiretto: in questi casi il soggetto direttamente pregiudicato dal comportamento degli amministratori è, infatti, la società, ed il risarcimento della stessa può essere fatto valere mediante l’esercizio delle azioni che il codice civile prevede, e che rientrano nella giurisdizione del giudice civile21.

Occorre tuttavia sottolineare che, sebbene i principi sopra enunciati possano dirsi consolidati (ad essi si è infatti ispirata la giurisprudenza successiva: Cass. Sez. un. 10299/13, 7374/13, 20940/11, 20941/11, 14957/11, 14655/11, 16286/10, 8429/10, e 519/10), una recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione22 – pur confermando nella sostanza le tesi enunciate nelle pronunce sopra richiamate – ha proposto un’interpretazione difforme per le cosiddette società “in house”: e cioè per quelle società partecipate totalitariamente da soci pubblici alle quali – in presenza di determinate condizioni individuate dalla giurisprudenza comunitaria23 – è consentito l’affidamento diretto di servizi pubblici, senza necessità di procedere ad una selezione mediante procedura di evidenza pubblica.Occorre segnalare che il principio enunciato con la citata sentenza Cass. Sez. un. n. 26283/2013 risulta accolto anche dalle pronunce successive rese dalle Sezioni unite delle suprema Corte su questa delicata materia24.

Nonostante l’indiscussa autorevolezza dell’estensore, la sentenza non pare condivisibile per svariate ragioni: ed in particolare per la ragione – assorbente – che le disposizioni che regolano l’amministrazione, il controllo e le responsabilità delle società di capitali (disposizioni peraltro emanate in attuazione di direttive comunitarie e volte a tutelare interessi diffusi – dei creditori e più in generale di tutti i cosiddetti stakeholder, i cui diritti ed interessi sono a vario titolo influenzati dall’attività della società), non sono disapplicabili o derogabili se non in presenza di una norma espressa di legge che lo preveda: norma che non è individuata dalle sentenze sopra richiamate e che nella fattispecie non esiste25.

Ma a prescindere dalle considerazioni che precedono, quand’anche si volesse estendere la competenza del Giudice Contabile alle azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci delle società “in house”, le considerazioni svolte nella pronuncia sopra citata non consentirebbero affatto di affermare che gli amministratori e i sindaci di tali società siano esonerati dal rispetto degli obblighi generali e specifici previsti dal legislatore e volti a garantire l’efficiente e corretta amministrazione delle società di capitale. E tale assunto pare condiviso anche dai giudici della Suprema Corte nel passo della sentenza in cui espressamente si afferma che l’assimilazione delle società in house ad “articolazioni” della pubblica amministrazione deve essere intesa “ai limitati fini del riparto di giurisdizione”.

2.3. L’assoggettamento delle società a partecipazione pubblica agli obblighi ed alle responsabilità introdotte dal D. Lgs. 231/2001 in tema di responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.

L’evoluzione giurisprudenziale volta a confermare l’assoggettamento delle società a capitale pubblico e dei suoi organi al sistema generale dei doveri e delle responsabilità previste dal dritto societario è culminata nella sentenza 21/7/2010, n. 28699, della Corte di Cassazione, Sez. II Penale, che ha affermato il principio dell’applicabilità alle società a partecipazione pubblica delle disposizioni dettate dal D. Lgs. 231/2001, istitutivo della responsabilità amministrativa degli enti per i reati commessi nel loro interesse dagli amministratori o dai loro sottoposti.

L’analisi svolta dalla Suprema Corte si è concentrata sull’individuazione dell’ambito di applicazione dell’art. 1 del d. lgs. 231/2001, che, nell’individuare i soggetti esclusi dall’applicazione delle predette disposizioni, stabilisce che le stesse non si applicano “allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.

Orbene, la Corte di Cassazione rileva che “il tenore testuale della norma è inequivocabile nel senso che la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria, ma non sufficiente, all’esonero dalla disciplina in discorso”, essendo altresì espressamente richiesto che l’ente non svolga attività economica. Orbene, la Corte osserva come la condizione di assenza di attività economica sia “contraddetta dalla veste stessa di società per azioni26.

I principi enunciati dalla sentenza sopra richiamata sono stati confermati dalla successiva pronuncia n. 234/2011, resa in un caso in cui il soggetto coinvolto era una società per azioni svolgente funzione di Autorità d’Ambito per la gestione dei rifiuti27, e devono ritenersi oggi pacificamente acquisiti.

2.4. In conclusione: il sistema della responsabilità delle società a capitale pubblico e dei loro amministratori; in particolare, l’assoggettamento agli obblighi di organizzazione di cui al D. Lgs. 231/2001 ed all’art. 2381 c.c.

Le considerazioni sin qui svolte consentono quindi di concludere che, indipendentemente dalla natura pubblica del capitale sociale e dall’attività economica svolta (e salve le disposizioni specifiche dettate per le cosiddette “società di diritto speciale”, costituite per previsione di legge e assoggettate ad una disciplina speciale), le società a partecipazione pubblica sono sottoposte al complesso ed articolato sistema delle responsabilità, frutto di quell’evoluzione normativa (avviata con l’emanazione del D. Lgs. 231/2001 e proseguita con il D. Lgs. 6/2003 di riforma del diritto societario) che ha fatto assurgere il controllo di gestione, da strumento di misura e garanzia dell’efficienza dell’impresa, a parametro fondamentale per l’accertamento e la misura della responsabilità delle imprese e dei soggetti che le gestiscono e controllano. Nel senso che la previsione, a carico degli enti, dell’obbligo (pesantemente sanzionato) di dotarsi di un adeguato assetto organizzativo, idoneo ad evitare la commissione, da parte dei loro amministratori e sottoposti, di violazioni di legge suscettibili di arrecare danno ai terzi, ha consentito al legislatore di costruire un’ipotesi di “colpa di organizzazione” che risponde ad una triplice funzione: a) quella di estendere la responsabilità all’ente che non ha adottato un assetto organizzativo ed un sistema di procedure adeguati ed idonei a prevenire la commissione dell’illecito; b) quella di agevolare l’accertamento delle responsabilità, invertendo l’onere della prova della colpevolezza, e cioè addossando all’ente l’onere di dimostrare di essersi diligentemente attivato (dotandosi di una struttura organizzativa adeguata) per evitare la commissione di comportamenti illecito; c) quella di fondare la responsabilità degli amministratori e dei loro controllori per i danni cagionati dalla mancata adozione di adeguati sistemi di pianificazione e gestione dei rischi e dalla mancata verifica della loro idoneità ed adeguatezza.

In questo processo di evoluzione della disciplina in tema di responsabilità degli enti e dei loro organi di gestione e controllo, il D.Lgs. 231/2001 ha concentrato l’attenzione sulla rilevanza esterna dell’assetto organizzativo degli enti, sanzionando le carenze organizzative suscettibili di agevolare il compimento di comportamenti illeciti da parte dei vertici aziendali, al fine di disincentivare tali comportamenti ed evitare la commissione di violazioni di legge suscettibili di arrecare danno ai terzi.

Il D.Lgs. 6/2003 di riforma del diritto societario – riformulando gli artt. 2381 c.c. e 2403 c.c.28 – ha posto invece l’accento sulla rilevanza interna dell’organizzazione dell’ente, imponendo agli amministratori di adottare gli assetti organizzativi più adeguati in relazione alle dimensioni e alla natura dell’attività svolta dalla società, ed al Collegio Sindacale di verificare l’adeguatezza di tali assetti e vigilare costantemente sulla loro osservanza29. Tali previsioni richiedono cioè che l’impresa venga esercitata secondo modelli organizzativi ed in base a procedure di rilevazione, gestione e controllo dei rischi idonei a garantire il rispetto di principi di corretta e prudente amministrazione ed evitare che dalla violazione (dolosa o colposa) delle norme che governano l’attività di impresa possano derivare conseguenze pregiudizievoli in capo ai soggetti a vario titolo portatori di interessi.

Ne consegue che l’inadeguatezza delle procedure interne o la carenza della pianificazione possono costituire precisi elementi probatori idonei a fondare la responsabilità degli amministratori delegati (ed eventualmente dell’intero consiglio, nonché del collegio sindacale, in considerazione degli obblighi di vigilanza loro attribuiti) per le perdite derivate alla società da iniziative intraprese senza adeguata programmazione o in presenza di un’inadeguata verifica dei profili di rischio e in mancanza di adozione delle misure correttive volte a contenere tali rischi entro margini accettabili da un punto di vista patrimoniale, finanziario ed economico.

Con la riformulazione degli artt. 2381 e 2403 c.c., il D. Lgs. 6/2003 ha quindi creato, in sostanza, la saldatura tra il sistema della responsabilità esterna (e cioè della società nei confronti del mondo esterno, per i reati commessi dai suoi amministratori) e il sistema della responsabilità interna (degli amministratori nei confronti della società e degli altri soggetti danneggiati dai predetti comportamenti). Nel senso che la mancata adozione, da parte dell’organo gestorio, di adeguati sistemi di pianificazione dell’attività e di valutazione e gestione dei rischi, diviene un elemento fondante sia della responsabilità della società verso i terzi, sia della responsabilità degli amministratori verso la società.

3. Le deroghe alla disciplina generale delle società di capitali: le norme speciali in tema di amministrazione e governance.

Le considerazioni svolte ai paragrafi precedenti consentono di concludere che l’amministrazione delle società a partecipazione pubblica è soggetta a quelle stesse regole generali che disciplinano la gestione delle società di capitali, ed in particolare è soggetta allo stesso sistema dei doveri e delle responsabilità degli amministratori, che si incentra sugli obblighi di professionalità, efficienza, pianificazione ed attuazione di assetti organizzativi adeguati all’entità ed alla struttura dell’impresa.

Un contributo essenziale per giungere a queste conclusioni è dato, infine, dalla disposizione contenuta nell’art. 4, comma 13 del D.L. 95/2012 (“spending review”), che ha introdotto una norma interpretativa di carattere generale chiaramente volta a tentare di mettere ordine in questa complessa materia, e la cui rilevanza non può essere trascurata ai fini di una corretta ricostruzione del quadro giuridico di riferimento.

La disposizione sopra richiamata stabilisce infatti che, “Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”.

In questo quadro normativo si innestano tuttavia le numerose disposizioni (assai discutibili e discusse e spesso di ardua interpretazione) che hanno limitato in misura significativa la libertà dell’azionista pubblico di definire gli assetti gestori della società e condizionano pesantemente l’organo amministrativo in sede di attuazione degli adeguati assetti organizzativi imposti dalla disciplina sopra richiamata.

Si tratta delle varie norme che introducono limiti alla composizione dell’organo gestorio, stabiliscono limiti all’attribuzione dei compensi e prevedono specifici requisiti soggettivi per l’assunzione della carica di amministratore, addirittura incidendo sulle modalità di attribuzione dei poteri in seno all’organo amministrativo.

Occorre quindi tentare, innanzitutto, di definire l’esatta portata di tali norme, e quindi chiedersi se ed in che misura sia possibile perseguire gli obiettivi di efficienza e organizzazione cui la gestione delle società a capitale pubblico (in particolare quelle costituite per lo svolgimento dei servizi pubblici locali) dovrebbero mirare.

Di queste norme e dei problemi che esse comportano si tratterà nei paragrafi che seguono.

4 – Le disposizioni in tema di delimitazione dell’ammontare dei compensi degli amministratori.

4.1. Il quadro normativo di riferimento.

Sull’onda dei rilievi mossi dalla Corte dei Conti circa l’utilizzo improprio delle società pubbliche come strumento per favorire sprechi e gestioni clientelari30, la spinta verso una moralizzazione del fenomeno ha indotto il legislatore ed emanare una serie di disposizioni che hanno imposto tetti massimi ai compensi dei componenti del consiglio di amministrazione e limitazioni numeriche alla composizione dell’organo amministrativo.

Per quanto attiene all’attribuzione dei compensi, sono state emanate disposizioni che prevedono un regime differenziato per le società a partecipazione statale e per le società partecipate dagli enti locali (escludendo dall’ambito di applicazione di tale disciplina le società quotate nei mercato regolamentati).

I limiti ai compensi degli amministratori delle società a partecipazione statale sono disciplinati dall’art. 3, comma 44 della l. 244/2007 (l. finanziaria 2008)31, che ha sostituito la precedente disciplina introdotta dall’art. 1, comma 466 della l. 296/2006 (l. fin. 2007).

Per quanto riguarda le società partecipate dagli enti locali, restrizioni notevoli sono state introdotte dai commi 725, 726, 727 e 728 dell’articolo unico della l. 296/2006 (l. finanziaria per il 2007).

Con riferimento alle società a totale partecipazione di un solo ente pubblico locale, il comma 725 prevede che “Nelle società a totale partecipazione di comuni o province, il compenso lordo annuale, onnicomprensivo, attribuito al presidente e ai componenti del consiglio di amministrazione, non può essere superiore per il presidente all’80 per cento e per i componenti al 70 per cento delle indennità spettanti, rispettivamente, al sindaco e al presidente della provincia ai sensi dell’articolo 82 del Testo Unico di cui al Decreto Legislativo n. 267/2000 (Testo Unico degli Enti Locali)”.

La disposizione soggiunge che “Resta ferma la possibilità di prevedere indennità di risultato solo nel caso di produzione di utili e in misura ragionevole e proporzionata”.

Qualora la società sia a partecipazione interamente pubblica, ma composta da più enti locali, il comma 726 stabilisce che: “Nelle società a totale partecipazione pubblica di una pluralità di enti locali, il compenso di cui al comma 725, nella misura ivi prevista, va calcolato in percentuale della indennità spettante al rappresentante del socio pubblico con la maggiore quota di partecipazione e, in caso di parità di quote, a quella di maggiore importo tra le indennità spettanti ai rappresentanti dei soci pubblici.”

Per le società miste è previsto che (comma 728): “Nelle società a partecipazione mista di enti locali e altri soggetti pubblici o privati, i compensi di cui ai commi 725 e 726 possono essere elevati in proporzione alla partecipazione di soggetti diversi dagli enti locali, nella misura di un punto percentuale ogni cinque punti percentuali di partecipazione di soggetti diversi dagli enti locali nelle società in cui la partecipazione degli enti locali è pari o superiore al 50 per cento del capitale, e di due punti percentuali ogni cinque punti percentuali di partecipazione di soggetti diversi dagli enti locali nelle società in cui la partecipazione degli enti locali è inferiore al 50 per cento del capitale”.

Infine, il comma 727 della legge 296/2006 oggetto di commento ha introdotto il diritto degli amministratori delle società pubbliche di percepire indennità di missione e rimborsi spese.

I compensi come sopra determinati sono stati ulteriormente ridotti del dieci per cento dalla manovra economica del 2010 (D.L. n. 78/2010, convertito con L. n. 122/2010)32.

Su questo quadro normativo è infine intervenuto il D.L. 90/2014, convertito con L. 114/2014, in tema di organizzazione della P.A..

L’art 16 del predetto decreto legge ha sostituito l’art. 4 del D.L. 95/2012 (convertito con legge 135/2012), stabilendo che per i consigli di amministrazione delle società a totale partecipazione pubblica, diretta o indiretta, “a decorrere dal 1º gennaio 2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori di tali società, ivi compresa la remunerazione di quelli investiti di particolari cariche, non può superare l’80 per cento del costo complessivamente sostenuto nell’anno 2013”.

La stessa disposizione ha stabilito inoltre che “In virtu’ del principio di onnicomprensività della retribuzione, qualora siano nominati dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione, o della società controllante in caso di partecipazione indiretta o del titolare di poteri di indirizzo e di vigilanza, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al precedente periodo, essi hanno l’obbligo di riversare i relativi compensi all’amministrazione o alla società di appartenenza e, ove riassegnabili, in base alle vigenti disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio“.

4.2. L’ambito di applicazione della norma: la posizione degli amministratori investiti di deleghe.

Le disposizioni sopra richiamate hanno determinato l’insorgere di delicate problematiche applicative, con particolare riferimento all’interpretazione della disciplina applicabile ai compensi spettanti agli amministratori investiti di deleghe ai sensi dell’art. 2389 c.c.

Il dato testuale dell’art. 1, comma 725 della L. Fin. 2007, evidenzia un trattamento differenziato per quanto attiene ai compensi del presidente del consiglio di amministrazione (quantificati nell’80% dei compensi del sindaco o del presidente della provincia) e quanto invece riguarda i “componenti del consiglio di amministrazione” (quantificati invece nel 70% dei compensi del sindaco o del presidente della provincia).

Tale distinzione, che attribuisce una maggiore remunerazione all’organo presidenziale, trova una sua astratta giustificazione nel diverso ruolo spettante al presidente rispetto a quello degli altri consiglieri. Il presidente del consiglio di amministrazione, infatti, salvo diversa disposizione dello statuto, ha funzioni istituzionali di impulso, coordinamento e supervisione del funzionamento del CdA, nonché di garanzia dei flussi informativi tra gli organi societari ed i loro singoli componenti.

La disposizione in commento, facendo genericamente riferimento ai “componenti del consiglio di amministrazione”, non chiarisce tuttavia se i predetti limiti siano imposti anche ai componenti del consiglio di amministrazione investiti di particolari cariche, ai sensi dell’art. 2489 c.c..

Tale omissione ha comportato l’insorgere di seri problemi interpretativi, posto che la distinzione tra amministratori privi di deleghe a amministratori delegati – che costituisce uno dei cardini del diritto societario e che, per quanto attiene ai compensi, trova preciso riconoscimento nell’art. 2389 c.c. – era infatti ravvisabile nelle disposizioni (coeve) in tema di limiti ai compensi degli amministratori delle società pubbliche partecipate dal Ministero dell’economia e delle finanze, contenute nel già richiamato art. 3, comma 44 della l. 244/2007 (l. finanziaria 2008), che aveva sostituito la precedente disciplina introdotta dall’art. 1, comma 466 della l. 296/2006 (l. fin. 2007). In questo caso, infatti, nel disciplinare la posizione degli amministratori delegati (e cioè investiti di particolari cariche a norma di statuto, ai sensi dell’art. 2389 c.c.), il legislatore vi aveva fatto espresso riferimento, precisando che i limiti si riferiscono espressamente agli “amministratori investiti di particolari cariche, ai sensi dell’art. 2389, terzo comma del c.c.”.

Era quindi sorto il dubbio se l’omissione consentisse di ritenere che i compensi degli amministratori delegati non fossero soggetti ad alcun tetto, o se invece l’omissione fosse un mero “lapsus calami” del legislatore, e la norma dovesse interpretarsi nel senso che il limite ai compensi si applicasse a tutti gli amministratori, indipendentemente dalle deleghe ad essi attribuite ed alla complessità e delicatezza dei correlativi incarichi.

Sul punto, la Circolare interpretativa del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali del 13.7.2007 (la cosiddetta Circolare Lanzillotta) ha affermato testualmente che “il tetto ai compensi non può essere superato per effetto del riconoscimento di remunerazioni attribuite ad alcuni amministratori in relazione all’investitura di particolari cariche previste statutariamente, avuto riguardo alla perentorietà del comma 725, che ammette il superamento solo per effetto di indennità di risultato e solo per il caso di produzione di utili, purché sia determinato in misura ragionevole e proporzionata, tenuto conto della onnicomprensività del compenso preso in considerazione dalla citata disposizione”.

A questa interpretazione (seppur censurabile, per le ragioni svolte infra) si è attenuta la prassi, che, in linea con le indicazioni fornite nello stesso senso dalla Corte dei Conti33, si è uniformata ai criteri di parametrazione dei compensi stabiliti dalle disposizioni sopra richiamate, applicando al Presidente del consiglio di amministrazione il tetto dell’80% dei compensi del sindaco o del presidente della provincia, ed il tetto del 70% agli altri “componenti del consiglio di amministrazione, ed attribuendo i compensi entro i predetti limiti massimi, a seconda della complessità e onerosità dei compiti ad essi delegati.

4.3. Profili di criticità della disciplina.

Le disposizioni in questione si prestano, tuttavia, a serie critiche.

Ed infatti, non è ragionevole, ed è contrario ai principi di efficienza cui deve tendere l’attività delle società (indipendentemente dalla natura pubblica o meno dell’azionariato) introdurre tetti di spesa astratti che prescindono totalmente dalle dimensioni della società, dal contesto ambientale in cui essa opera, dal tipo di attività svolta, dai profili di rischio e dalle responsabilità ad essi correlate.

Le disposizioni dettate in tema di contenimento della finanza locale dovrebbero infatti essere inquadrate nel contesto normativo descritto nei paragrafi introduttivi, che, in attuazione di precise ed inderogabili indicazioni comunitarie, mira ad introdurre anche nel settore dei servizi pubblici i princìpi dell’efficienza e della competizione: princìpi ritenuti di interesse pubblico in quanto volti a consentire al pubblico dei consumatori la possibilità di usufruire dei servizi migliori a prezzi il più possibili contenuti. Se si affrontano le problematiche in oggetto da questa prospettiva, occorre allora necessariamente ritenere che la finalità delle disposizioni in questione non sia quella di ridurre acriticamente e indiscriminatamente i costi, sacrificando irragionevolmente e illegittimamente le finalità di efficienza dei servizi pubblici per esigenze meramente demagogiche o di facciata, ma sia invece quella di evitare gli sperperi, eliminando le inutili sovrapposizioni di cariche, le rendite di posizione nonché il pagamento di compensi esorbitanti e sproporzionati rispetto ai compiti correlati, e sanzionando in modo adeguato i responsabili di scelte interessate, clientelari o inadeguate.

La previsione di tetti ai compensi ha creato infatti situazioni di evidente sperequazione tra soggetti operanti in contesti diversi, pur a parità di rischi ed oneri: è questo, per esempio, il caso, tutt’altro che infrequente, delle società costituite per la gestione dei servizi di raccolta e trattamento dei rifiuti, operanti tra consorzi di piccoli comuni i cui sindaci percepiscono un’indennità modesta per non dire simbolica; in questo caso l’amministratore delegato dovrebbe accettare l’incarico a fronte di un compenso pari al 70% di tale indennità, pur svolgendo un’attività assai assorbente ed onerosa ed essendo esposto a rischi rilevantissimi (si pensi a quelli legati alla sicurezza sul lavoro e all’ambiente).

Le norme in commento si espongono anche a fondate critiche di contrarietà alla Costituzione (in relazione all’ 3 – principio di eguaglianza – e all’art. 41, in tema di libertà dell’iniziativa privata) ed al Trattato CE, in quanto operano un’evidente discriminazione da un lato tra le società aventi medesimo oggetto e funzione ma diversa compagine sociale (pubblica o privata); dall’altro tra le società pubbliche e miste, sulla base della partecipazione o meno di enti locali.

La fissazione di un limite al compenso per gli amministratori (delegati) delle società pubbliche e miste si porrebbe inoltre in contrasto con l’obbligo di garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno (art. 3), nonché con il divieto di emanare e mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, misure contraria alle norme del trattato (art. 86) (nel senso che i privati soci di società miste si vedrebbero preclusa la possibilità di accaparrarsi i manager migliori, e di ottenere quindi adeguata remunerazione dei loro investimenti; e le società pubbliche si vedrebbero pregiudicata la possibilità di competere su basi paritarie con le società private operanti nello stesso settore).

A ciò aggiungasi che, sotto il profilo operativo, l’applicazione indiscriminata delle disposizioni in questione rischia altresì di frustrare anche gli obiettivi di contenimento della spesa che il legislatore si è prefissato. Lo svilimento dell’opera degli amministratori delegati comporta infatti il rischio concreto di dimissioni di personalità capaci ed efficienti: con conseguente rischio di una grave lacuna gestoria in capo alle società pubbliche e miste, che, non potendo competere con le società private, incorrerebbero sicuramente in quei ben maggiori costi che una gestione inefficiente comporta.

4.4. Le ulteriori novità in tema di compensi degli amministratori introdotte dalla legge di stabilità per il 2014.

Le criticità evidenziate al paragrafo precedente non sono state prese in considerazione né dalla giurisprudenza, né dal legislatore nelle disposizioni successivamente emanate, e risultano quindi tutt’ora attuali.

Anzi, il quadro sopra delineato è stato ulteriormente complicato dalle prescrizioni in tema di contenimento della spesa pubblica dettate dalla Legge 27 dicembre 2013 n. 147 (Legge stabilità 2014).

Il comma 553 della legge stabilisce infatti che a decorrere dall’esercizio 2014 i soggetti di cui al comma 550 (e cioè “le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni locali indicate nell’elenco di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 19634”) a partecipazione di maggioranza, diretta e indiretta, delle pubbliche amministrazioni locali, concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, perseguendo la sana gestione dei servizi secondo criteri di economicità e di efficienza.

In linea con il principio enunciato al comma precedente, il successivo comma 554 introduce poi un’ulteriore limitazione ai compensi degli amministratori, limitatamente ad una particolare categoria di società a capitale pubblico maggioritario. La norma stabilisce infatti che “a decorrere dall’esercizio 2015, le società a partecipazione di maggioranza, diretta e indiretta, delle pubbliche amministrazioni locali titolari di affidamento diretto da parte di soggetti pubblici per una quota superiore all’80 per cento del valore della produzione, che nei tre esercizi precedenti abbiano conseguito un risultato economico negativo, procedono alla riduzione del 30 per cento del compenso dei componenti degli organi di amministrazione”.

Ma non è tutto. La disposizione in esame soggiunge che il conseguimento di un risultato economico negativo per due anni consecutivi rappresenta giusta causa ai fini della revoca degli amministratori.

L’unica eccezione prevista dalla norma è l’ipotesi in cui il cui risultato economico, benché negativo, “sia coerente con un piano di risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante35.

La disposizione sopra riportata crea nuovi problemi interpretativi ed operativi, complicando ulteriormente un quadro normativo già eccezionalmente complesso.

Il primo problema è quello dell’individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione della norma: occorre cioè chiedersi quali siano “le società a partecipazione di maggioranza, diretta e indiretta, delle pubbliche amministrazioni locali titolari di affidamento diretto da parte di soggetti pubblici per una quota superiore all’80 per cento del valore della produzione”.

Il problema nasce dal fatto che secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi anche in Italia a seguito dell’indirizzo formatosi in sede di giurisprudenza comunitaria36, le società a capitale pubblico titolari di affidamenti diretti possono essere esclusivamente le cosiddette società “in house”, interamente partecipata da enti pubblici e soggette al cosiddetto “controllo analogo” da parte degli stessi. Se, dunque, questi sono i requisiti necessari affinché possa procedersi ad affidamento diretto del servizio, non pare vi sia spazio per ipotizzare l’esistenza di “società a partecipazione di maggioranza, diretta e indiretta, delle pubbliche amministrazioni locali” che rientrino nell’ambito di applicazione di tale norma: mentre, per converso, parrebbe di dover ritenere che l’ambito di applicazione della predetta norma sia circoscritto alle sole società “in house”, e cioè alle società totalmente partecipate da pubbliche amministrazioni, che esercitino in loro favore la parte più importante della propria attività e siano soggette al loro controllo analogo.

Ciò detto, la formulazione della norma pare introdurre un riferimento trasversale a tutte le società “in house” che realizzino con le amministrazioni di appartenenza più dell’80% del valore della produzione, indipendentemente dal fatto che tale fatturato, seppur realizzato con le amministrazioni di appartenenza, sia riferito all’erogazione di servizi in favore dei cittadini (è questo il caso, per esempio, delle società costituire dagli enti pubblici territoriali per la gestione dei servizi pubblici di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani) ovvero all’esecuzione di prestazioni funzionali ad esigenze strumentali delle amministrazioni controllanti. Tale conclusione pare imposta dalla formulazione del comma 550, in cui si precisa che le disposizioni dei commi successivi, sino al comma 562, si applicano – senza alcuna distinzione – a tutte le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni locali indicate nell’elenco di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, essendo esclusi soltanto “gli intermediari finanziari di cui all’articolo 106 del testo unico di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, nonché le società emittenti strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati e le loro controllate”. E l’esattezza di tale interpretazione risulta confermata dalla disposizione dettata dal comma 555 che, nell’imporre la liquidazione, a decorrere dall’esercizio 2017, delle società di cui al comma precedente che hanno conseguito un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti, fa espressamente salve le “società che svolgono servizi pubblici locali”: così implicitamente confermando – a contrario – che anche tali società (e non solo quelle strumentali) sono sottoposte all’obbligo di riduzione dei compensi stabilito dal comma precedente.

Altro problema posto dalle disposizioni in commento è l’individuazione dell’ambito (oggettivo e soggettivo) di applicazione della giusta causa di revoca degli amministratori consistente nel “conseguimento di un risultato economico negativo per due anni consecutivi”.

Al riguardo occorre innanzitutto rilevare che la disposizione in commento deve essere necessariamente interpretata in coerenza con il sistema dei doveri e delle responsabilità degli amministratori delineato, in particolare, dagli artt. 2381, 2391 e 2392 c.c.: sistema in base al quale l’insuccesso dell’impresa non può costituire fonte di responsabilità per gli amministratori, salvo che le perdite siano derivate alla società da iniziative intraprese senza adeguata pianificazione e programmazione o in assenza di una adeguata verifica dei profili di rischio e in mancanza di adozione delle misure correttive volte a contenere tali rischi entro margini accettabili da un punto di vista patrimoniale, finanziario ed economico, ovvero operando in conflitto di interessi in danno della società.

Alla luce di tali rilievi, sembra corretto ritenere che la disposizione in esame introduca un’ipotesi di “giusta causa oggettiva” – predeterminata ex lege – di revoca degli amministratori dal loro incarico, svincolata da qualsiasi profilo di responsabilità gestoria. E tale interpretazione risulta del resto coerente con il fatto che la norma non opera alcuna distinzione tra amministratori delegati e amministratori privi di deleghe, ma pone tutti i componenti dell’organo amministrativo sullo stesso piano, indipendentemente dal ruolo ricoperto da ciascuno e dal correlativo (diverso) grado di responsabilità assunto nella gestione della società.

Ne consegue che il conseguimento di un risultato economico negativo per due anni consecutivi, qualora non sia riconducibile ad una violazione dei doveri (di diligenza, prudenza e pianificazione) che incombono sugli amministratori, non potrà essere invocato per fondare una loro responsabilità; ma a far data dall’esercizio 2015 tale dato oggettivo legittimerà comunque l’assemblea (o i soci che abbiano provveduto alla nomina diretta) a rimuovere gli amministratori dall’incarico senza comportare alcuna obbligazione risarcitoria a carico della società.

Secondo la formulazione della norma, la revoca degli amministratori costituisce, peraltro, una mera facoltà (a differenza della riduzione dei compensi, che costituisce invece un obbligo): si tratta cioè di una misura volta a consentire la riorganizzazione degli assetti gestori delle società partecipate senza che ciò comporti l’insorgere di responsabilità e, correlativamente, di oneri ulteriori a carico dell’ente pubblico socio. Pertanto competerà al socio pubblico valutare, a seconda dei casi, l’opportunità di revocare uno o più amministratori o anche l’intero consiglio di amministrazione (e sostituirlo, per esempio, con un amministratore unico), sulla base di una prudente valutazione dell’esigenza, da un lato, di evitare diseconomicità e procedere ad un contenimento della spesa, e d’altro lato di mantenere le condizioni necessarie per garantire l’efficienza del servizio.

Ulteriore problema è quello di individuare la data di decorrenza dell’obbligo di riduzione dei compensi e della facoltà di revoca degli amministratori, coordinandone le modalità di esercizio con l’eccezione – prevista dallo stesso comma 554 – consistente nell’adozione di un piano di risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante.

Per quanto attiene alla riduzione dei compensi, il comma 554 fa riferimento all’esercizio 2015. Ma non è chiaro se l’espressione “a decorrere dall’esercizio 2015” significhi nel corso del 2015 o non piuttosto dopo la chiusura di tale esercizio: e cioè dal 1 gennaio 2016. Se si volesse privilegiare la finalità della norma di dettare misure drastiche ed immediatamente efficaci, si dovrebbe optare per la prima interpretazione: con la conseguenza che già in sede di deliberazione degli emolumenti per l’anno 2015, l’assemblea dovrebbe tener conto del risultato conseguito dalla società nei tre esercizi precedenti (2012, 2013 e 2014): e qualora tale risultato fosse negativo in tutti e tre gli esercizi, l’assemblea dovrebbe deliberare la riduzione dei compensi dei componenti dell’organo amministrativo (i quali potranno ovviamente rassegnare le dimissioni ove non ritengano di accettare la riduzione proposta).

Per quanto attiene alla decorrenza della facoltà di revoca degli amministratori, ci si potrebbe ragionevolmente chiedere se tale la facoltà di revoca non sia già immediatamente esercitabile a decorrere dalla data stessa di entrata in vigore della legge (e cioè nel corso dell’esercizio 2014, prendendo come riferimento ai fini della valutazione i risultati conseguiti negli esercizi 2012 e 2013). Mentre, se si ritenesse che la legge abbia inteso disporre solo per il futuro e che gli esercizi di riferimento su cui effettuare la valutazione siano quello di entrata in vigore della legge e quello successivo (e cioè il 2014 ed il 2015), si dovrebbe allora concludere, all’opposto, che la revoca possa essere deliberata solo a decorrere dall’esercizio 2016.

Orbene, con tutte le cautele imposte dalla novità della disposizione e dai suoi vari e delicati profili di incertezza, sembra possibile proporre un’interpretazione alternativa, fondata su una lettura coordinata dei tre commi consecutivi (553, 554 e 555) dell’art. 1, che ponga in evidenza il concatenamento delle disposizioni in essa contenute ed il loro comune obiettivo di risolvere il problema dell’impiego diseconomico delle società a capitale pubblico entro un arco temporale che dovrebbe concludersi con l’esercizio 2017.

Sembra infatti che l’interpretazione delle disposizioni sopra richiamate non possa prescindere dal dettato del comma 553 dell’art. 1, in cui il legislatore individua chiaramente l’esercizio 2014 come quello in cui tutte le società partecipate (incluse quelle che svolgono servizi pubblici locali) devono porsi l’obiettivo di perseguire “la sana gestione dei servizi secondo criteri di economicità e di efficienza”.

In questa prospettiva l’esercizio 2014 risulta anche quello in cui le società che negli anni precedenti hanno conseguito risultati negativi devono attuare “un piano di risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante”, volto a riportare il bilancio in pareggio (art. 1, comma 554).

L’anno 2015 sarà l’anno della verifica, nel corso del quale l’azionista pubblico dovrà analizzare i risultati degli anni precedenti: se il risultato conseguito nei tre esercizi precedenti (2012, 2013 e 2014) sarà negativo, l’assemblea dovrà deliberare la riduzione del 30 per cento del compenso dei componenti degli organi di amministrazione; e potrà altresì procedere alla revoca e sostituzione degli amministratori in caso di conseguimento di un risultato economico negativo per due anni consecutivi. La riduzione dei compensi e la revoca degli amministratori potranno peraltro essere evitate qualora – ed a condizione che – la società abbia adottato “un piano di risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante”, e i risultati conseguiti siano coerenti con tale piano.

Nell’esercizio 2017 tutte le società di cui al comma 554, e cioè tutte le società “in house” che realizzino con le amministrazioni di appartenenza più dell’80% del valore della produzione, con la sola esclusione delle società che svolgono servizi pubblici locali, dovranno essere poste in liquidazione entro sei mesi dalla data di approvazione del bilancio o rendiconto relativo all’ultimo esercizio37 (e cioè il bilancio relativo all’esercizio 2016), qualora abbiano conseguito un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti (e cioè, ove fossero già in perdita nel 2012 e nel 2013, non siano state risanate nel 2014 e abbiano conseguito il pareggio di bilancio in tutti i successivi due esercizi 2015 e 2016)38.

5. Le disposizioni in tema di requisiti soggettivi e incompatibilità degli amministratori.

5.1. Requisiti di legge e requisiti statutari: il quadro normativo di riferimento.

L’assunzione della carica di amministratore di società di capitali è dalla legge subordinata, in via generale, all’inesistenza di specifiche cause di ineleggibilità39.

Ulteriori cause di ineleggibilità possono poi essere introdotte dallo statuto40 e dalla legge: il comma 2 dell’art. 2387 c.c. precisa infatti che “resta salvo quanto previsto da leggi speciali in relazione all’esercizio di particolari attività”. La disposizione sta cioè a significare che il codice civile si limita ad individuare le cause di ineleggibilità applicabili per tutte le società per azioni (e, secondo l’interpretazione più persuasiva, per tutte le società di capitali); il che non esclude che il legislatore, in casi specifici, ed in considerazione dei particolari interessi di volta in volta tutelati, possa introdurre ulteriori cause di ineleggibilità.

Con particolare riferimento alle società a capitale pubblico o misto, la spinta moralizzatrice ha indotto il legislatore ad emanare una serie di norme che subordinano l’eleggibilità degli amministratori al possesso di particolari requisiti, con la finalità di indirizzare la scelta su soggetti capaci e dotati di idonea professionalità ed indipendenza, evitando nomine ispirate a valutazioni di carattere meramente politico, o peggio nepotistico.

Tra queste norme occorre segnalare le disposizioni contenute nell’art. 1, co. 734 della l. 296/2006 (Legge Finanziaria 2007), come interpretato dall’art. 71 della L. 69/2009 (“Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”), che subordina la nomina degli amministratori delle società a capitale totalmente o parzialmente pubblico al possesso, da parte dei soggetti nominati, di alcuni requisiti soggettivi di professionalità.

A tale disposizione si è aggiunta la recente disciplina in materia dì incompatibilità ed inconferibilità di incarichi introdotta dal D. Lgs. 39/2013, emanato in attuazione della legge delega n. 190/2012, cosiddetta “anti corruzione”, e sulla quale ci si soffermerà infra.

Le disposizioni sopra richiamate hanno determinato l’insorgere di delicati problemi applicativi ed operativi.

Per comprendere la gravità di tali problematiche e le conseguenze che ne derivano sul piano operativo occorre tuttavia chiarire preliminarmente il regime normativo delle cause di ineleggibilità e gli effetti che il loro accertamento comporta sul rapporto di amministrazione.

5.2. Gli effetti dell’insussistenza dei requisiti soggettivi sull’atto di nomina degli amministratori.

La mancanza dei requisiti previsti dalla legge o dallo statuto determina la nullità della delibera di nomina (per la sua contrarietà, appunto, alla legge ed all’atto costitutivo) e, qualora sopravvenga nel corso dell’esercizio, determina la decadenza dell’amministratore dalla carica, come espressamente previsto dall’art. 2382 c.c..

A questo proposito occorre subito rilevare che la nullità della delibera di nomina non determina conseguenze rilevanti sui rapporti con i terzi, il cui affidamento è sempre protetto dalle disposizioni (di derivazione comunitaria) dettate a tutela dell’affidamento. Qualora siano state osservate le pubblicità prescritte dalla legge (iscrizione della nomina nel Registro delle Imprese), l’esistenza o la sopravvenienza di cause di ineleggibilità non determinano la nullità né l’annullabilità degli atti compiuti dall’amministratore che abbia ricoperto invalidamente l’ufficio. Infatti, a norma dell’art. 2383, u. co. c.c., le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori non sono opponibili ai terzi dopo l’adempimento delle pubblicità di legge, salvo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza).

Diverse, è ben più serie, sono invece le conseguenze della nullità della nomina sul rapporto interno che lega l’amministratore alla società.

Innanzitutto, la nullità della nomina determina la nullità dell’intero rapporto: con pesanti effetti per quanto attiene al problema degli eventuali crediti per gli emolumenti ed all’obbligo di restituzione di quelli eventualmente già percepiti.

In secondo luogo, la nullità della nomina comporta l’insorgere di problemi particolarmente delicati quando l’amministratore privo dei requisiti soggettivi (di legge o statutari) sia stato nominato in sede di costituzione di un organo amministrativo collegiale.

Il problema si pone in termini diversi, a seconda che la nomina del soggetto sprovvisto dei requisiti sia avvenuta mediante nomina assembleare, ovvero mediante nomina diretta (ai sensi dell’art. 2449 c.c. nel caso di società per azioni, ovvero ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c., nel caso di società a responsabilità limitata).

Nel caso di nomina diretta, sembra corretto ritenere che l’insussistenza dei requisiti soggettivi infici esclusivamente tale atto di nomina, senza riverberare effetti sul rapporto con gli altri amministratori (i quali potranno quindi ritenersi validamente insediati nella loro carica). In questo caso, dunque, ove venga accertata l’invalidità della nomina di uno o più amministratori, sarà sufficiente prendere atto dell’insussistenza dei requisiti (di legge o di statuto) e procedere alla nomina di nuovi amministratori in sostituzione di quelli invalidamente nominati o decaduti.

Diverso è il caso in cui la nomina sia avvenuta mediante delibera assembleare assunta a maggioranza. Infatti in questo caso, se si accoglie la tesi che considera inscindibile la delibera di nomina degli amministratori41, occorre altresì ritenere che il consiglio di amministrazione possa considerarsi validamente costituito solo dal momento in cui tutti gli amministratori siano stati validamente eletti, e si siano validamente insediati nelle loro cariche.

Ne consegue che, nel caso in cui risultino nominati amministratori ineleggibili o privi dei necessari requisiti, la delibera dovrà essere rinnovata ripetendo la votazione per l’intero numero degli amministratori da eleggere42. Ed in caso di inerzia la delibera assembleare invalida sarà impugnabile dagli altri amministratori e dovrà essere impugnata dai sindaci, in quanto l’impugnazione delle delibere illegittime rientra nei poteri/doveri di attivazione che il legislatore ha posto a carico del collegio sindacale ai fini dell’esercizio degli obblighi di vigilanza sull’osservanza della legge e dello statuto di cui il collegio sindacale è investito (ex artt. 2377, 2° co., c.c. e 2388, 4° comma, c.c.).

Nel caso, invece, in cui la causa di ineleggibilità si verificasse successivamente all’investitura nella carica, essa determinerà la decadenza dell’amministratore dal suo ufficio: il che comporterà la necessità di procedere alla convocazione dell’assemblea per la sua sostituzione (ai sensi degli artt. 2385 e 2386 c.c. in materia di cessazione e sostituzione degli amministratori, previa eventuale cooptazione a norma dell’art. 2386, 1º co., c.c.).

5.3. I requisiti soggettivi degli amministratori introdotti dall’art. 1, co. 734 della l. 296/2006, secondo l’interpretazione fornita dal comma 32-bis dell’art. 3 L. 244/2007: l’effetto retroattivo e sostanzialmente abrogativo delle nuove disposizioni interpretative.

La prima, significativa disposizione con cui il legislatore è intervenuto ad integrare e disciplinare la materia è costituita dall’art. 1, co. 734, della l. 296/2006 (L. Fin. 2007), che ha subordinato l’eleggibilità degli amministratori delle società a capitale totalmente o parzialmente pubblico al possesso di specifici requisiti soggettivi di affidabilità e professionali.

La disposizione sopra citata, nella sua formulazione originaria, prevedeva che non potesse essere nominato amministratore di ente, istituzione, azienda pubblica, società a totale o parziale capitale pubblico “chi, avendo ricoperto nei cinque anni precedenti incarichi analoghi, avesse chiuso in perdita tre esercizi consecutivi”.

La norma in questione (una delle più infelici, quanto alla formulazione, tra quelle che in questi ultimi hanno bombardato la disciplina dell’amministrazione delle società a capitale pubblico e misto) aveva suscitato aspre critiche43 da parte di giuristi ed operatori del settore, ed aveva contribuito non poco a complicare la vita a coloro che – sotto il fuoco incessante di un legislatore sempre più scollato dalla realtà – devono confrontarsi con le delicate problematiche operative poste dal quadro normativo che disciplina la gestione delle società a partecipazione pubblica.

Infatti, la previsione di un criterio rigido quale quello previsto dall’articolo 1, co. 734, della l. n. 296/2006, rischiava di disincentivare dall’assunzione di cariche gestorie nel settore pubblico tutti quei manager capaci e con prospettive di successo, che non intendono rischiare di pregiudicare la propria carriera sulla base di un dettato normativo che subordina la loro futura investitura a incarichi gestori a valutazioni del tutto disancorate dai criteri della professionalità e della meritevolezza.

Il legislatore si è visto quindi costretto ad intervenire direttamente, e lo ha fatto con l’art. 71 della L. 69/2009 (“Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”), che, inserendo il nuovo comma 32-bis all’interno dell’art. 3 della Legge 24 dicembre 2007, n. 244 (L. Finanziaria 2008), ha introdotto una norma interpretativa del seguente testuale tenore: “Il comma 734 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si interpreta nel senso che non può essere nominato amministratore di ente, istituzione, azienda pubblica, società a totale o parziale capitale pubblico chi, avendo ricoperto nei cinque anni precedenti incarichi analoghi, abbia registrato, per tre esercizi consecutivi, un progressivo peggioramento dei conti per ragioni riferibili a non necessitate scelte gestionali”.

La nuova norma, lungi dal fornire un’interpretazione autentica della disposizione in discussione, ha introdotto in realtà un concetto del tutto nuovo, che di fatto si sostituisce a quello enunciato dal comma 734 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Nonè infatti chi non veda come il requisito introdotto dall’art. 71 della L. 69/2009 sia del tutto diverso da quello precedente: sia sotto il profilo oggettivo (il termine di riferimento che occorre accertare non è più la sussistenza di una perdita, ma l’esistenza di un progressivo peggioramento dei conti); sia sotto il profilo soggettivo (il risultato negativo, e cioè il peggioramento dei conti, non rileva per sé stesso, ma solo se è e determinato da “non necessitate scelte gestionali”).

Siamo quindi in presenza di un nuovo e diverso requisito soggettivo, il cui accertamento e la cui applicazione comportano l’insorgere di problemi particolarmente delicati e complessi.

Innanzitutto la norma, spostando l’angolo di osservazione dal dato obiettivo della perdita (rilevabile documentalmente dal bilancio di esercizio), al concetto, molto più generico e complesso, di peggioramento dei conti, prevede che la verifica in ordine alla sussistenza o meno del requisito soggettivo si fondi su un parametro caratterizzato da ampi margini di opinabilità.

I “conti” della società includono infatti quelli dello stato patrimoniale, quelli del conto economico e quelli del rendiconto finanziario. Ora, è ben possibile, ed è anzi assai frequente, che al peggioramento di alcuni conti corrisponda il miglioramento di altri. Si pensi, per esempio, ad un miglioramento dei risultati registrati del rendiconto finanziario, dovuto all’alienazione di cespiti strategici, a seguito di un’operazione incauta che ha determinato l’ingresso di notevole liquidità ma ha depauperato sensibilmente la situazione patrimoniale della società. Oppure, all’opposto, si consideri l’ipotesi di un peggioramento dei risultati registrati del conto economico e del rendiconto finanziario, dovuto a rilevanti investimenti che nell’immediato hanno generato una perdita ed aggravato l’indebitamento della società, ma che sono destinati a generare rilevanti redditi e plusvalenze sul medio termine, e quindi a migliorare stabilmente la situazione economica e patrimoniale della società.

L’accertamento in ordine alla sussistenza di un peggioramento dei conti implica quindi una valutazione estremamente complessa, oltre che insuscettibile di condurre a risultati univoci, posto che il risultato può variare a seconda dell’angolo di visuale da cui si pone l’osservatore ad ai dati presi come riferimento.

In secondo luogo, la necessità di verificare che il peggioramento dei conti sia dovuto a scelte gestionali non necessitate introduce elementi di ulteriore gravissima incertezza e forte discrezionalità.

A prescindere dal rilievo che il concetto di necessità si pone in stridente contraddizione con quello di scelta, il legislatore non fornisce alcun indizio utile a comprendere quali scelte debbano ritenersi “necessitate” e quali no. Può, ad esempio, dirsi “necessitata” la scelta dell’organo gestorio che, uniformandosi acriticamente alle direttive provenienti dall’ente pubblico socio, applichi una politica di prezzi diseconomici, generando in tal modo perdite che nell’esercizio successivo il socio pubblico provvede sistematicamente a ripianare? O ancora: può sostenersi che politiche gestionali avvedute e prudenti, ma inidonee a migliorare i conti in quanto influenzate da fattori esterni (quali la crisi economica che notoriamente da alcuni anni sta interessando i mercati mondiali e falcidiando aziende operanti nei più disparati settori di attività), siano equiparabili alle “scelte gestionali necessitate” che escludono la sussistenza della causa di ineleggibilità di cui all’articolo 1, co. 734, della legge n. 296/2006?

Questi interrogativi sarebbero di per sé sufficienti a dar conto dell’estrema opinabilità dei concetti utilizzati dal legislatore: concetti che implicano delicate (e di fatto impossibili) valutazioni sull’osservanza dei doveri di diligenza e prudenza, nonché sull’ambito della cosiddetta “discrezionalità gestoria”.

Ma ancor più sorprendente è il pretendere che l’assemblea, o i soci (in caso di nomina diretta), e ancora prima di loro gli amministratori in carica ed i sindaci, che devono verificare la sussistenza dei requisiti di eleggibilità, possano (rectius: debbano!) ripercorrere la gestione della (o delle) società in cui il candidato da nominare ha ricoperto la carica di amministratore negli ultimi cinque anni, per verificare se la situazione dei conti di tali società sia stata influenzata da scelte gestorie più o meno avvedute, e in caso contrario “necessitate”: come se i conti delle società ed i libri sociali in cui sono trascritte le deliberazioni e le operazioni dell’organo gestorio fossero accessibili a tutti; come se non esistessero le disposizioni civilistiche in tema di obblighi di riservatezza e quelle penali sulla tutela dei segreti, e gli amministratori – per sostenere le loro candidature – potessero raccontare a terzi (in ipotesi anche concorrenti) quanto hanno fatto, e perché lo hanno fatto.

Alla luce delle considerazioni che precedono è lecito domandarsi se la disposizione risultante dalla lettura interpretativa fornita dall’art. 3, comma 32-bis della l. 244/2007, sia realmente provista dei caratteri di generalità, determinatezza ed astrattezza necessari per comminare validamente una sanzione di nullità o di decadenza, o se invece non sia più corretto ritenere che la disposizione in questione si limiti in realtà a dettare criteri puramente orientativi: quasi una sorta di raccomandazione a nominare amministratori in possesso di un profilo di professionalità adeguato.

In altre parole, la norma impone ai soci un obbligo di preventiva verifica in ordine ai requisiti di onorabilità e di professionalità dei candidati alla carica; ed a questi ultimi impone un obbligo di “disclosure” (onde consentire ai soci la verifica in ordine alla sussistenza dei predetti requisiti): senza peraltro che l’inosservanza di tali raccomandazioni comporti l’ineleggibilità del candidato.

La conclusione appare vieppiù corretta se si considera la portata delle conseguenze che l’accertamento di una causa di ineleggibilità determina, e sulle quali ci si è ampiamente soffermati al paragrafo 5.2. Diversamente opinando, si finirebbe con il lasciar spazio ad una serie interminabile di contenziosi giudiziali (impugnazioni di delibere assembleari e consiliari promosse da soci, amministratori e sindaci, e cause di accertamento introdotte da chiunque vi abbia interesse) volte ad accertare se, nel caso concreto, sia o meno riscontrabile la causa di ineleggibilità: con gravissimi intralci alla gestione della società e con il rischio che la sussistenza della causa di ineleggibilità (e la conseguente nullità della nomina e del rapporto di amministrazione) vengano accertate a distanza di anni dalla nomina.

6. Le disposizioni in tema di parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società controllate da pubbliche amministrazione (Legge n. 120/2011: “Quote Rosa”).

6.1. Ambito di applicazione e termine di decorrenza della nuova disciplina.

Le problematiche operative poste dalla disciplina in tema di composizione degli organi amministrativi delle società a partecipazione pubblica sono state accentuate dall’entrata in vigore delle disposizioni dell’articolo 3, comma 2, della legge 12 luglio 2011, n. 120, volte a garantire la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, non quotate in mercati regolamentati (le cosiddette “quote rosa”).Le predette disposizioni sono divenute operative a far data dal 12/2/2013, a seguito dell’emanazione del D.P.R. 251/2012, di recepimento del Regolamento di attuazione dell’articolo 3, comma 2, della legge 120/2011, n. 120, sopra citata.L’ambito di applicazione della predetta norma è stato ulteriormente chiarito dall’art. 1 del D.P.R. attuativo 251/2012, che stabilisce che la disciplina in tema di parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo si applica alle “società, costituite in Italia, controllate ai sensi dell’articolo 2359, primo e secondo comma, del codice civile, dalle pubbliche amministrazioni indicate all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ad esclusione delle società con azioni quotate”.Sono quindi soggette alle disposizioni in questione tutte le società controllate da pubbliche amministrazioni, e quindi – per quanto qui interessa – anche e specificamente quelle controllate da enti territoriali e costituite per la gestione dei servizi pubblici locali.Atteso il chiaro riferimento, contenuto nella disposizione in esame, al concetto di controllo espresso dall’art. 2359 c.c., devono ritenersi escluse dall’ambito di applicazione della predetta legge le società che, pur avendo un capitale interamente pubblico, hanno una compagine societaria frazionata nella quale non sia individuabile un socio di riferimento che le controlli disponendo “della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria” ovvero “di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria” (ai sensi dell’art. 2359, commi 1 e 2).Per quanto attiene alla data di decorrenza della nuova disciplina, l’art. 2 della L. 120/2011, ripreso dall’art. 3 del D.P.R. 251/201, stabilisce che le società assicurano il rispetto della composizione degli organi sociali indicata all’articolo 2, anche in caso di sostituzione, per tre mandati consecutivi a partire dal primo rinnovo delle cariche successivo alla data di entrata in vigore del predetto regolamento.La disposizione specifica, peraltro, che per il primo mandato la quota riservata al genere meno rappresentato è pari ad almeno un quinto del numero dei componenti dell’organo.

6.2. Gli obblighi di adeguamento statutario: le attivazioni imposte dalle nuove disposizioni introdotte dalla Legge 120/2011 (“quote rosa”) ed il regime sanzionatorio previsto per il caso di inadempimento.

La disciplina introdotta dalla L. 120/2011 è richiamata dal D.P.R. 251/2012, che precisa le modalità con cui le società devono darvi attuazione.Il predetto D.P.R. stabilisce che le società soggette alle disposizioni in esame prevedono nei propri statuti che la nomina degli organi di amministrazione e di controllo, ove a composizione collegiale, sia effettuata secondo modalità tali da garantire che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei componenti di ciascun organo.Occorre a questo proposito precisare che le disposizioni in esame non impongono, per le società controllate dalle pubbliche amministrazioni, l’adozione di un determinato sistema di voto, ma lasciano agli azionisti libertà di scelta: il che si spiega in ragione del fatto che, nelle società a partecipazione pubblica, è adottato assai di frequente il meccanismo della nomina diretta, regolato dall’art. 2449 c.c..Peraltro, è indubbio che il meccanismo del voto di lista sia quello più idoneo per garantire che la scelta e la nomina degli amministratori – nel rispetto dei criteri imposti dalla nuova normativa – possano essere deliberate con la necessaria rapidità e agilità, evitando situazioni di stallo e ripetizioni delle operazione di voto, ma allo stesso tempo senza alterare gli equilibri interni tra gli azionisti.A questo riguardo le disposizioni in esame stabiliscono che qualora, negli statuti delle società, sia già previsto per la nomina degli organi sociali il meccanismo del voto di lista, “gli statuti disciplinano la formazione delle liste in applicazione del criterio di riparto tra generi, prevedendo modalità di elezione e di estrazione dei singoli componenti idonee a garantire il rispetto delle previsioni di legge”.Gli statuti non possono prevedere il rispetto del criterio di riparto tra generi per le liste che presentino un numero di candidati inferiore a tre.Qualora dall’applicazione di dette modalità non risulti un numero intero di componenti degli organi di amministrazione o controllo appartenenti al genere meno rappresentato, tale numero è arrotondato per eccesso all’unità superiore. Gli statuti dovranno inoltre anche prevedere le modalità di sostituzione dei componenti dell’organo di amministrazione e dell’organo di controllo venuti a cessare in corso di mandato, in modo da garantire il rispetto della quota di cui sopra. Tale quota si applica anche ai sindaci supplenti. Se nel corso del mandato vengono a mancare uno o più sindaci effettivi, subentrano i sindaci supplenti nell’ordine atto a garantire il rispetto della stessa quota.Poiché, per espressa previsione di legge, l’adeguamento alle disposizioni in esame deve passare attraverso un’integrazione degli statuti, spetterà all’organo amministrativo attivare la procedura di aggiornamento, esercitando il cosiddetto potere di impulso, e cioè procedendo alla convocazione dell’assemblea, predisponendo quanto necessario affinché la deliberazione delle necessarie modifiche statutarie da parte dell’assemblea avvenga sulla base di un’adeguata preparazione ed un’idonea informativa.

Occorre a questo proposito evidenziare che il D.P.R. 251/2012 ha introdotto un meccanismo alquanto articolato di verifica del rispetto dei nuovi criteri imposti dalla L. 120/2011, volto ad accertare le inadempienze e sanzionare le società che, pur essendo soggette alle predette disposizioni, non si sono uniformate per tempo.

Questo meccanismo coinvolge gli organi amministrativi e di controllo delle società, cui il D.P.R. sopra richiamato attribuisce specifici obblighi di controllo e di attivazione.

L’art. 4 del D.P.R. 251/2012 stabilisce infatti che le società soggette alle disposizioni della L. 120/2011 (in tema di quote rose) “sono tenute a comunicare al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità la composizione degli organi sociali entro quindici giorni dalla data di nomina degli stessi o dalla data di sostituzione in caso di modificazione della composizione in corso di mandato”. La disposizione soggiunge che “E’ fatto obbligo all’organo di amministrazione e all’organo di controllo delle medesime società di comunicare al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità la mancanza di equilibrio tra i generi, anche quando questa si verifichi in corso di mandato”.

L’accertamento del mancato rispetto delle disposizioni in tema di equilibrio tra i generi comporta lo scattare di un meccanismo sanzionatorio che culmina con la sanzione di decadenza dell’intero organo amministrativo. Il comma 5 dell’art. 4 del D.P.R. 25 2012 stabilisce infatti che “Nei casi in cui il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità accerti il mancato rispetto della quota stabilita all’articolo 2, comma 1, nella composizione degli organi sociali, diffida la società a ripristinare l’equilibrio tra i generi entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza alla diffida, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità fissa un nuovo termine di sessanta giorni ad adempiere, con l’avvertimento che, decorso inutilmente detto termine, ove la società non provveda, i componenti dell’organo sociale interessato decadono e si provvede alla ricostituzione dell’organo nei modi e nei termini previsti dalla legge e dallo statuto”.

L’adozione dell’espressione “decadono” lascia intendere che il legislatore abbia voluto determinare non la semplice cessazione dei componenti dell’organo gestorio (il che comporterebbe il permanere in carica dell’organo cessato in regime di prorogatio, ai sensi degli artt. 2385 e 2386 c.c.), ma la loro definitiva perdita di ogni potere: con la conseguenza che, in caso di inottemperanza agli obblighi di legge, la società rimarrebbe priva dell’organo amministrativo e la gestione passerebbe al collegio sindacale, cui competerebbe (in virtù dei poteri/doveri di amministrazione vicaria attribuitigli dall’art. 2386, u. co., c.c.), l’obbligo di convocare la nuova assemblea per la nomina di un nuovo organo amministrativo che, nella sua composizione, rispetti i criteri di ripartizione tra generi imposti dalla L. 120/2011 sopra richiamata.

7. Le limitazioni alla scelta del numero degli amministratori e alla composizione dell’organo amministrativo.

7.1. Il quadro normativo di riferimento.

Sull’onda dei rilievi mossi dalla Corte dei Conti circa l’utilizzo improprio delle società pubbliche come strumento per favorire sprechi e gestioni clientelari44, la spinta verso una moralizzazione del fenomeno ha indotto il legislatore ed emanare una serie di disposizioni che impongono limitazioni numeriche alla composizione dell’organo amministrativo.

La normativa distingue tra:

-le società non quotate, direttamente o indirettamente controllate dallo Stato ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numero 1), del codice civile;

– le società partecipate totalmente anche in via indiretta da enti locali, nonché le società miste in cui il socio pubblico è un ente locale.

Il primo gruppo di società è regolato dall’art. 1, comma 465, l. n. 296/2006 (l. fin. Per il 2007) e dall’articolo 3, comma 12, della legge 244/2007, nel testo riformulato dall’art. 71 della Legge 18 giugno 2009, n. 69 (“Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”)45.

Il secondo gruppo di società è regolato invece dall’art. 1, comma 729, della l. 27 dicembre 2006, n. 296 (l. fin. 2007), che sarà illustrato al paragrafo seguente. Questa disciplina non ha più subito successivi ritocchi da parte del legislatore sino all’emanazione del D.L. 95/2012 (c.d. “spending review”), che ha comportato l’insorgere delle delicatissime questioni interpretative sulle quali ci si soffermerà ampiamente infra.

7.2. Le società pubbliche e miste direttamente o indirettamente partecipate da enti locali.

L’art. 1, comma 729, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (la legge finanziaria per il 2007) ha previsto che il numero complessivo di componenti del consiglio di amministrazione delle società partecipate totalmente anche in via indiretta da enti locali, non può essere superiore a tre, nel caso in cui la società abbia un capitale, interamente versato, inferiore a due milioni di EURO46.

Il limite è aumentato a cinque membri per le società con capitale, interamente versato, pari o superiore a due milioni di EURO47.

L’art. 1, comma 729, della legge 296/2006 prevede poi un diverso limite per le società miste partecipate direttamente o indirettamente da enti locali.

In questo caso il numero massimo di componenti del consiglio di amministrazione designati dai soci pubblici locali, comprendendo nel numero anche quelli eventualmente designati dalle regioni, non può infatti essere superiore a cinque.

Non esiste invece un limite al numero degli amministratori designati dal socio privato.

In applicazione delle disposizioni richiamate al paragrafo precedente le società a partecipazione pubblica hanno provveduto ad adeguare i loro statuti, introducendo clausole di indirizzo che imponevano il rispetto dei limiti normativi in tema di numero dei componenti dell’organo amministrativo48.

Senonché il quadro normativo sopra descritto è stato ulteriormente complicato dall’emanazione di disposizioni che hanno reso la nomina degli organi amministrativi ancor più problematica, incidendo sia sulla composizione numerica degli organi amministrativi, sia sui criteri di scelta dei componenti degli organi amministrativi. Alla nuova disciplina ed hai problemi applicativi e di coordinamento che essa comporta è dedicato il paragrafo che segue.

8 I nuovi limiti quali-quantitativi alla composizione degli organi amministrativi imposti dal D.L. n. 95/2012 (“spending review”), come modificato dal D.L. n. 90/2014.

8.1. L’ambito di applicazione delle disposizioni del D.L. 95/2012 e s.m. in tema di numero dei componenti dei consigli di amministrazioni delle società a partecipazione pubblica: considerazioni generali.

La disciplina in tema di composizione dei consigli di amministrazione delle società a partecipazione pubblica è contenuta nei commi 4 e 5 dell’art. 4del D.L. n. 95/2012 il cui testo è stato interamente riscritto dal D.L. 90/2014, convertito con legge 114/2014.

La disposizione dell’art. 4, rubricata “Riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche”, è ora strutturata nel modo seguente.

Il comma 4dell’art. 4 stabilisce le modalità di composizione dei consigli di amministrazione delle “società controllate direttamente o indirettamente dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, che abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90 per cento dell’intero fatturato”.

Il comma 5 dell’art. 4 stabilisce invece le modalità di composizione dei consigli di amministrazione delle “altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta”49.

Il D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, ha inoltre disposto (con l’art. 16, comma 2) che, fatto salvo quanto previsto in materia di limitazione ai compensi, le modifiche introdotte in tema di composizione degli organi amministrativi si applicano “a decorrere dal primo rinnovo dei consigli di amministrazione successivo alla data di entrata in vigore” del suindicato decreto.

Il Co. 13 dell’Art. 4 stabilisce infine che “ Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle società quotate ed alle loro controllate”..

Le disposizioni sopra riportate hanno comportato l’insorgere di problemi interpretativi seri e delicati, alcuni dei quali ancora parzialmente irrisolti, nonostante le modifiche introdotte dal D.L. 90/2014.

Questi problemi saranno affrontati nei paragrafi che seguono.

8.2. Le modalità di composizione dei consigli di amministrazione dettate dal comma 4 dell’art. 4, del D.L. n. 95/2012 (“spending review”) per le società a partecipazione pubblica “strumentali”.

Il primo problema interpretativo che si pone in sede di applicazione delle disposizioni sopra richiamate è quello dell’individuazione delle società soggette alle disposizioni dell’art. 4, comma 4 (di seguito: il “Comma 4”):e cioè “le società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell’intero fatturato”.

La formulazione, particolarmente infelice, della norma, crea problemi interpretativi di non agevole soluzione, poiché pare introdurre un riferimento trasversale a tutte le società controllate da pubbliche amministrazioni che realizzino con le stesse la maggior parte del proprio fatturato, indipendentemente dal fatto che tale fatturato, seppur realizzato con le amministrazioni di appartenenza, sia riferito all’erogazione di servizi in favore dei cittadini (è questo il caso, per esempio, delle società costituire dagli enti pubblici territoriali per la gestione dei servizi pubblici di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani) ovvero all’esecuzioni di prestazioni funzionali ad esigenze strumentali delle amministrazioni controllanti.Peraltro, l’analisi della ratio della norma, condotta alla luce dei lavori preparatori e delle vivaci discussioni sorte in sede di formazione del testo legislativo, consente di affermare con sufficiente certezza che dall’ambito di applicazione dell’art. 4, comma 1, sono escluse le società che, pur realizzando la parte predominante del proprio fatturato con le amministrazioni da cui sono controllate, erogano servizi pubblici in favore dei cittadini.Precisi riferimenti in questo senso si ricavano dalla Relazione Tecnica al D.L. 96/2012, che, introducendo il commento all’art. 4 con la rubrica “Messa in liquidazione o vendita delle società in house che svolgono servizi nei confronti della sola p.a.”, precisa che “Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 350 mirano a ridurre il numero delle società in house esistenti, quando le stesse non prestino almeno il 10% (in termini di fatturato) delle proprie attività a favore di soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, con alcune eccezioni individuate dalla legge o da successivo DPCM, motivate da particolare esigenze di interesse pubblico”.Le considerazioni che precedono inducono ragionevolmente a ritenere che, con l’espressione “società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni (…) che abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell’intero fatturato” il legislatore abbia inteso riferirsi esclusivamente alle società che si occupano dei “consumi intermedi” della Pubblica Amministrazione, e cioè alle cosiddette società strumentali gestite dalle pubbliche amministrazioni di appartenenza e che prestano servizi diretti alle stesse, e non funzionali alla collettività.Le disposizioni in tema di composizione del consiglio di amministrazione delle società menzionate dall’art. 4, comma 4, del d.l. n. 95/2012 sono contenute nel successivo comma 4, del predetto Art. 4 (di seguito: il “Comma 4”).

I criteri cui devono attenersi le società di cui al Comma 4, e cioè le società strumentali controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni e che prestano servizi diretti alle stesse, che abbiano conseguito “nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell’intero fatturato”, sono i seguenti.

I consigli di amministrazione devono essere composti da “non più di tre membri”, ferme restando le disposizioni in materia di “inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 3951.

In alternativa è consentita la nomina di un amministratore unico52.

8.3. Le modalità di composizione dei consigli di amministrazione delle “altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta”, contemplate dall’art. 4, comma 5, del D.L. n. 95/2012 (“spending review”).

La disciplina delle altre società a partecipazione pubblica diretta o indirettaè dettata dal comma 5 dell’art. 4 del D.L. 95/2012, ed è modellata sulla base di quella prevista dal comma precedente, accordando tuttavia una maggior libertà organizzativa nella definizione del numero dei componenti dell’organo amministrativo, da esercitarsi in funzione delle dimensioni e della complessità dell’attività svolta.

La disposizione del comma 5 stabilisce che anche in questo caso è consentita la nomina di un amministratore unico.

Qualora si opti invece per un organo amministrativo pluripersonale, “Fermo restando quanto diversamente previsto da specifiche disposizioni di legge (…), i consigli di amministrazione delle altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta, devono essere composti da tre o cinque membri, tenendo conto della rilevanza e della complessità delle attività svolte”53.

A questo proposito occorre subito sottolineare che, come espresso specificato in apertura del comma 5 dell’art. 4, il nuovo criterio introdotto da tale comma non si sostituisce alle disposizioni precedenti, ma le integra: pertanto restano salve le disposizioni dettate dall’art. 1, comma 729, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (la legge finanziaria per il 2007) che hanno limitato il numero complessivo di componenti del consiglio di amministrazione delle società partecipate totalmente anche in via indiretta da enti locali, a tre membri, nel caso in cui la società abbia un capitale, interamente versato, inferiore a due milioni di EURO; ed a cinque membri per le società con capitale, interamente versato, pari o superiore a due milioni di EURO 54.

Ne consegue che la soglia dei due milioni di EURO oltre la quale è possibile aumentare il numero degli amministratori, non costituisce più l’unico limite posto all’organizzazione dei consigli di amministrazione delle società a partecipazione pubblica totalitaria: infatti, al fine di decidere se dotarsi di un consiglio di amministrazione di cinque membri, le società che hanno un capitale sociale superiore alla predetta soglia dovranno altresì valutare con prudenza e ponderazione se la rilevanza e la complessità delle attività svolte giustifichino tale scelta55.

8.4. L’individuazione delle “altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta”, menzionate dall’art. 4, comma 5, del d.l. n. 95/2012.

L’individuazione delle “altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta”, che sono assoggettate al diverso regime sancito dall’art. 4, comma 5, del d.l. 95/2012, ha comportato l’insorgere di problemi interpretativi ancor più delicati e complessi di quelli posti dal comma 4 dello stesso articolo.

Questi problemi possono ritenersi sostanzialmente risolti a seguito della riformulazione delle disposizioni oggetto di commento da parte del D.L. 90/2014.

Tuttavia, per far comprendere la gravità delle problematiche operative generate da una proliferazione di norme disorganiche e spesso incoerenti, è utile illustrare sinteticamente il quadro normativo previgente.

L’originaria formulazione dei commi 4 e 5 dell’art. 4 del D.L. 95/2012 aveva introdotto una compressione rilevantissima dell’ambito di autonomia organizzativa degli enti pubblici soci. Le predette disposizioni, nel testo previgente, stabilivano infatti che nelle società di cui al comma 4, dei tre componenti del consiglio di amministrazione, due dovessero essere “dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione o di poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d’intesa tra le amministrazioni medesime, per le società a partecipazione diretta, ovvero due scelti tra dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione della società controllante o di poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d’intesa tra le amministrazioni medesime, e dipendenti della stessa società controllante per le società a partecipazione indiretta”.

Nel caso di consigli di amministrazione composti da cinque membri, la composizione doveva “assicurare la presenza di almeno tre dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione o di poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d’intesa tra le amministrazioni medesime, per le società a partecipazione diretta, ovvero almeno tre membri scelti tra dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione della società controllante o di poteri di indirizzo e vigilanza, scelti d’intesa tra le amministrazioni medesime, e dipendenti della stessa società controllante per le società a partecipazione indiretta.

Le disposizioni introducevano poi addirittura limitazioni rigidissime alle attribuzioni di poteri in seno ai componenti dell’organo amministrativo, rendendo estremamente difficile la gestione di strutture complesse quali quelle di gestione dei servizi pubblici locali e ponendosi in stridente contrasto con le norme del diritto societario che disciplinano la governance delle società di capitali (norme che, tra l’altro, il Comma 13 dell’art. 4 dichiara espressamente applicabili alle società a capitale interamente pubblico, ove non derogate espressamente56).

Il Comma 4 stabiliva infatti che nel caso di consigli di amministrazione composti da tre membri, il terzo membro svolgesse obbligatoriamente le “funzioni di amministratore delegato”. Mentre il Comma 5 stabiliva che nel caso di consigli di amministrazione composti da cinque membri “le cariche di Presidente e di Amministratore delegato” fossero “disgiunte” e al Presidente potessero essere affidate dal Consiglio di amministrazione “deleghe esclusivamente nelle aree relazioni esterne e istituzionali e supervisione delle attività di controllo interno”.

Le difficoltà operative causate dai rigidi vincoli introdotti dalle disposizioni sopra riportate si sono aggravate con l’emanazione del D. Lgs. 39/213, che, sotto la rubrica “Incompatibilità tra incarichi dirigenziali interni e esterni e cariche di componenti degli organi di indirizzo nelle amministrazioni statali, regionali e locali”, all’art. 12, comma 4, ha introdotto il divieto per le amministrazioni socie di nominare loro dirigenti nei consigli di amministrazione delle società partecipate.

Le nuove norme in tema di incompatibilità si ponevano in aperto contrasto con le precedenti disposizioni in tema di numero dei componenti dei consigli di amministrazioni delle società a partecipazione pubblica, contenute nell’art. 4del d.l. n. 95/2012. Ditalché molti commentatori avevano rilevato il “cortocircuito” che si era creato tra il D. Lgs. 39/2013 e il d.l. n. 95/2012, auspicando che il legislatore intervenisse sollecitamente per ridare ordine al sistema, eliminando una situazione di incertezza che rischiava di rendere ingovernabili le società a partecipazione pubblica soprattutto nel delicato settore della gestione dei servizi pubblici di interesse generale57.In questo quadro normativo, alcuni commentatori si erano chiesti se, nel dettare la disciplina relativa alle “altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta”, con questa espressione il legislatore avesse inteso riferirsi (come si doveva desumere dal tenore letterale della disposizione) a tutte le altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta, diverse da quelle “strumentali” controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni contemplate nel Comma 1 (e quindi anche alle società di gestione dei servizi pubblici locali); o se invece fosse possibile una lettura di buon senso, diversa da quella meramente letterale, che consentisse in qualche modo di superare le delicate problematiche operative sollevate dalla norma in questione.Invero, le pesanti limitazioni imposte dalla disposizione sopra richiamata potevano trovare una giustificazione nell’ambito delle società strumentali, in cui pare più pressante l’esigenza di evitare gli sperperi, eliminando le inutili sovrapposizioni di cariche, le rendite di posizione nonché il pagamento di compensi esorbitanti e sproporzionati rispetto ai compiti correlati. Ma tali limitazioni erano difficilmente giustificabili nel caso delle società che, quali quelle che svolgano la loro attività nel settore dei servizi locali, operano sul mercato in competizione con le altre imprese, e con riferimento alle quali le ben comprensibili e ragionevoli finalità di contenimento della spesa devono essere conciliate con le altrettanto comprensibili e ragionevoli finalità di garantire assetti organizzativi adeguati, idonei a contenere i rischi e a garantire l’efficienza dei servizi e la competitività sul mercato58.

Sulla base di queste riflessioni, uno studio approfondito condotto da esperti autorevoli della materia per conto di una associazione di categoria che raggruppa aziende del settore dei servizi pubblici locali, aveva proposto di interpretare in senso restrittivo le disposizioni del Comma 5 dell’art. 4, circoscrivendone l’ambito di applicazione alle “altre società” strumentali che appartenenti al medesimo genus di quelle previste dal Comma. 4, ma diverse quanto ai parametri quantitativi: e cioè le società strumentali che avevano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni inferiore al 90 per cento dell’intero fatturato.

Questa tesi si scontrava tuttavia, oltre che con il tenore letterale, con la finalità delle disposizioni del D.L. 95/2012, che era proprio quella di limitare l’autonomia organizzativa e di spesa di tutte e indistintamente le società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni59. Ed invero, una interpretazione restrittiva volta a circoscrivere le disposizioni del Comma 5 alle altre società strumentali diverse da quelle disciplinate dal comma 4, avrebbe finito con l’escludere la maggior parte delle società pubbliche e dare alla norma una rilevanza del tutto marginale, con l’effetto di frustrare l’obiettivo di contenimento della spesa pubblica sottesa al decreto spending review e dallo stesso perseguito attraverso l’imposizione di limiti al numero ed al compenso dei consiglieri di amministrazione delle società pubbliche60.

Mentre, sotto altro profilo, interpretando il comma 5 dell’art. 4 nel senso di restringere il campo di applicazione della norma alle sole società strumentali, si sarebbe ottenuto il risultato (paradossale) di penalizzare le amministrazioni virtuose, che si sono attenute ai rigorosi parametri dettati dall’art. 13 del D.L. n. 223/2006 (il cosiddetto Decreto Bersani)61 ed hanno limitato la propria attività alla prestazione di servizi esclusivamente a favore dell’ente controllante, e premiare invece le società strumentali che si sono rese inadempienti agli obblighi di legge, consentendo a queste ultime di dotarsi di un’organizzazione più complessa ed onerosa.

Le problematiche interpretative sopra riferite sono state fugate dagli interventi normativi succedutisi, che hanno inciso profondamente sulla formulazione dell’art. 4 del D.L. 95/2012 in commento.

Ed infatti la Legge 27 dicembre 2013 n. 147 (Legge stabilità 2014), ne modificare l’art. 4 del D. Lgs. 95/2012, lungi dal circoscrivere l’ambito di applicazione del comma 5 dell’art. 4, lo ha lasciato inalterato, dettando disposizioni ulteriormente restrittive in materia di contenimento dei costi di gestione, volte a disciplinare tutte indistintamente le società partecipate dagli enti locali, indipendentemente dal fatto che tale società siano state costituite per la gestione di servizi pubblici locali o per lo svolgimento di servizi strumentali per l’amministrazione di appartenenza62.

Da ultimo, l’art. 16 del D.L. 90/2014 ha, come già detto, riscritto i commi 4 e 5 dell’art. 4 del D. Lgs. 95/2012, espungendo dalla vecchia formulazioni le disposizioni che imponevano l’obbligo di assegnare individuare la maggioranza dei componenti dei consigli di amministrazione tra dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione o di poteri di indirizzo e vigilanza: con l’effetto di rimuovere le gravi problematiche applicative create dall’infelice formulazione delle disposizioni in questione; razionalizzare i criteri di nomina e composizione degli organi gestori di tutte le società controllate dalle amministrazioni pubbliche (indipendentemente dalla natura, strumentale o meno, dell’attività svolta); coordinare tali disposizioni con la normativa vigente in tema di limitazioni al numero e ai compensi degli amministratori.

Se si considera la disposizione del Comma 5 dell’art. 4 del D.L. 95/2012 alla luce degli interventi sopra riferiti, appare ragionevole concludere che con l’espressione “altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta” utilizzata al Comma 5 dell’art. 4 del D.L. 95/2012, il legislatore abbia inteso riferirsi a tutte le società diverse da quelle “strumentali” contemplate dal Co. 4, e quindi in particolare alle società costituite dagli enti territoriali per la gestione dei servizi pubblici locali, recuperando quell’indirizzo che aveva già in precedenza ricevuto ampi consensi, anche a seguito delle segnalazioni della Corte Conti (che aveva in più occasioni denunciato un uso “disinvolto” dello strumento delle società di capitali per eludere le norme in tema di contenimento della spesa pubblica63).

9 Le nuove disposizioni in materia dì inconferibilità di incarichi e incompatibilità introdotte dal D. Lgs. 39/2013 (“anticorruzione”).

9.1. Finalità della nuova disciplina e problematiche applicative.

Le disposizioni in tema di nomina e composizione dei consigli di amministrazione delle società a partecipazione pubblica commentate ai paragrafi precedenti delineano un quadro normativo particolarmente articolato e complesso, che comprime in modo significativo la libertà decisionale dei soci pubblici e la discrezionalità organizzativa interna degli organi gestori, operando peraltro in modo astratto e indiscriminato, e prescindendo dalle condizioni ed esigenze organizzative delle singole realtà (assai varie) riscontrabili sul territorio.

A complicare ulteriormente i delicati problemi operativi posti dalla normativa sopra richiamata è intervenuto il D. lgs. 39/2013, cosiddetto “anticorruzione”, che, in attuazione delle delega conferita al Governo dalla L. 190/2012, ha emanato la nuova disciplina in tema di inconferibilità e incompatibilità di incarichi: disciplina che pare introdotta da un legislatore del tutto avulso dal complesso quadro normativo in cui essa si sarebbe innestata.

Le nuove disposizioni in parte integrano ed in parte superano la disciplina detta dagli artt. 60 e seguenti del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL), in tema di cause di ineleggibilità a sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale e provinciale, dei legali rappresentanti ed i dirigenti delle società per azioni con capitale maggioritario rispettivamente del comune o della provincia; nonché in tema di incompatibilità tra la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale o provinciale e quella di amministratore o dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda soggetti a vigilanza, rispettivamente da parte del comune o della provincia.

Le finalità dichiarate dall’art. 1, comma 49 della legge delega n. 190/2012 erano la prevenzione e il contrasto della corruzione e la prevenzione dei conflitti di interessi64: finalità che il decreto legislativo 39/2013 si è proposto di perseguire con disposizioni che, per quanto attiene alla prima delle predette finalità, incidono sull’attribuzione degli incarichi; mentre, per quanto attiene alla seconda finalità, definiscono e individuano nuove e dettagliate ipotesi di incompatibilità.

Il decreto legislativo 39/2013 ha attuato la delega stabilita dai commi 49 e 50 dell’art. 1 della legge n. 190/2012 prevedendo fattispecie di:

inconferibilità, cioè di preclusione, permanente o temporanea, a conferire gli incarichi: a) a coloro che abbiano riportato condanne penali per i reati previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale; b) nonché a coloro che abbiano svolto incarichi o ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati da pubbliche amministrazioni o svolto attività professionali a favore di questi ultimi, a coloro che siano stati componenti di organi di indirizzo politico (art. 1, comma 2, lett. g);

incompatibilità, da cui consegue l’obbligo per il soggetto cui viene conferito l’incarico di scegliere, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di quindici giorni, tra la permanenza nell’incarico e l’assunzione e lo svolgimento di incarichi e cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l’incarico, lo svolgimento di attività professionali ovvero l’assunzione della carica di componente di organi di indirizzo politico (art. 1, comma 2, lett. h).

Purtroppo, la nuova normativa risente del problema di fondo che caratterizza la legislazione in materia di gestione delle società pubbliche che si è succeduta e sovrapposta nel corso degli ultimi anni: e cioè il problema di voler contenere, con la previsione dettagliata di obblighi e di divieti, un fenomeno che nasce invece da un decadimento del senso morale comune e da un sostanziale abbassamento della soglia di reazione avverso comportamenti clientelari che, anziché generare riprovazione sociale e determinare l’emarginazione dei responsabili dal contesto sociale in cui operano, oggi sono invece spesso accettati se non addirittura giustificati (ai più vari livelli) come strumento per raggiungere il fine in una situazione generale che offre poche prospettive a chi voglia inserirsi nel contesto economico (lavorativo o imprenditoriale) esclusivamente contando sulle proprie forze e capacità.

La formulazione delle norme in esame denota l’intento di prevedere e regolamentare – attraverso l’introduzione di una casistica estremamente analitica di singole fattispecie – tutte le ipotesi in cui possano crearsi posizione di potere suscettibili di favorire comportamenti scorretti o fenomeni corruttivi. Tuttavia la conseguenza di questa impostazione è quella di introdurre una griglia dalle maglie strettissime che restringe entro margini molto ridotti l’ambito di discrezionalità riservato ai soci pubblici e agli organi di governo delle società partecipate, per quanto attiene alla scelta della composizione e dell’organizzazione interna dell’organo gestorio di queste ultime.Invero, la percezione di chi deve confrontarsi quotidianamente con i complessi problemi operativi connessi all’amministrazione delle società di gestione dei servizi pubblici locali, è che il legislatore si muova in un suo mondo astratto, del tutto disancorato dalla realtà operativa in cui tali società sono costrette ad operare (indipendentemente dalla natura pubblica, privata o mista della loro compagine azionaria), senza preoccuparsi di verificare l’effettiva possibilità di pratica applicazione delle norme via via emanate, né di valutarne l’impatto sul contesto economico, imprenditoriale e concorrenziale nel quale le società a partecipazione pubblica sono, al pari delle altre, tenute ad operareAi fini di questo breve studio, le problematiche principali che emergono dalla normativa, e che formeranno oggetto di indagine nei paragrafi seguenti, sono principalmente due:a) Quella relativa alle condizioni alle quali è possibile la nomina, nel consiglio di amministrazione delle società partecipate, di dipendenti e dirigenti dell’ente pubblico socio;

b) quella relative alla possibilità di riconfermare e rinnovare per un ulteriore mandato gli incarichi attribuiti ai soggetti che rivestono la carica di amministratore delle società partecipate.

9.2. Le incompatibilità dei dirigenti: il problema del coordinamento tra le disposizioni del D. Lgs. 39/2013 e quelle dettate dall’art. 5 del D.L. n. 95/2012 (spending review).

La disposizione che ha comportato l’insorgere di delicati problemi di coordinamento è l’art. 12, comma 4 del D. Lgs. 39/213, che, sotto la rubrica “Incompatibilità tra incarichi dirigenziali interni e esterni e cariche di componenti degli organi di indirizzo nelle amministrazioni statali, regionali e locali” così stabilisce: “Gli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello provinciale o comunale sono incompatibili: (…) c) con la carica di componente di organi di indirizzo negli enti di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione, nonché di province, comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di forme associative tra comuni aventi la medesima popolazione della stessa regione”.Il primo problema posto dalle disposizioni sopra richiamate consiste nell’individuare gli “organi di indirizzo” degli enti di diritto privato in controllo pubblico cui la norma fa riferimento.Il problema è accentuato dallo scarso tecnicismo delle disposizioni predette, che introducono concetti estranei alla logica ed al lessico giuridico del diritto societario, come nel caso dell’espressione “organi di indirizzo”, che non ha un preciso significato giuridico.L’art. 1 del D. Lgs. 39/2013, contente le “definizioni” dei termini utilizzati negli articoli successivi, non definisce il concetto di “organo di indirizzo”.La definizione è tuttavia ricavabile indirettamente dalle altre definizioni utilizzate per individuare le persone che compongono tali organi e gli incarichi di cui esse possono essere investite.L’art. 1, alla lettera l), definisce infatti gli «incarichi di amministratore di enti pubblici e di enti privati in controllo pubblico», come “gli incarichi di Presidente con deleghe gestionali dirette, amministratore delegato e assimilabili, di altro organo di indirizzo delle attività dell’ente, comunque denominato, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico”.L’inclusione del Presidente e dell’Amministratore Delegato tra i componenti degli organi di indirizzo degli enti di diritto privato in controllo pubblico, induce a ritenere che tra gli organi di indirizzo contemplati dal D. Lgs. 39/2013 deve ritenersi incluso il Consiglio di Amministrazione delle società controllate dagli enti locali per la gestione dei servizi pubblici locali.Ne consegue che le disposizioni sopra richiamate stabiliscono il divieto per le amministrazioni socie di nominare loro dirigenti nei consigli di amministrazione delle società partecipate.Dal combinato disposto delle due norme sopra richiamate si ricava quindi che, in sede di formazione dei consigli di amministrazione delle società partecipate, le amministrazioni potranno nominare propri dipendenti, ma non quelli che abbiano la qualifica di dirigenti (sebbene la qualifica dirigenziale sia quella più consona per rivestire incarichi che, quali quello di amministratore di società, richiedono un elevato grado di professionalità e comportano l’assunzione di responsabilità rilevanti).

9.3. Il problema della riconferma degli incarichi gestori nelle società controllate dagli enti locali.

La disciplina delle ipotesi di inconferibilità di incarichi cui devono attenersi le società di gestione dei servizi pubblici locali è contenuta nell’art. 7, comma 2, del D. Lgs. 39/2013, che, sotto la rubrica “Inconferibilità di incarichi a componenti di organo politico di livello regionale e locale” testualmente recita: “(…) a coloro che nei due anni precedenti siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme associative della stessa regione, non possono essere conferiti: (…) d) gli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico da parte di una provincia, di un comune con popolazione superiore a 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione”.

L’ambito di applicazione di tale disposizione crea problemi interpretativi delicati.

Infatti l’art. 2 del D. Lgs. 39/2013, nel definire alla lettera f) la categoria dei «componenti di organi di indirizzo politico», vi include non solo “le persone che partecipano, in via elettiva o di nomina, a organi di indirizzo politico delle amministrazioni statali, regionali e locali”, ma anche quelleche partecipano a “organi di indirizzo (…) di enti di diritto privato in controllo pubblico, nazionali, regionali e locali”.Ci si è domandato, quindi, se la norma sopra richiamata escluda la possibilità di riconfermare, a fine mandato, gli amministratori in carica.Orbene, come è stato correttamente osservato, il decreto non ha una visione chiara delle diverse posizioni, e “vede come ‘politici’ non solo i membri della Giunta e i consiglieri comunali ma anche gli amministratori con deleghe degli enti partecipati65.Peraltro, l’equiparazione dei componenti degli organi amministrativi delle società partecipate ai componenti degli organi di indirizzo politico degli enti pubblici soci è priva di qualsiasi giustificazione sul piano societario.In sede di commento all’art. 7, la relazione tecnica al D. Lgs. 39/213 precisa che la finalità della norma è quella di evitare situazioni di influenzabilità “in sistemi oggi largamente caratterizzati da una costante permeabilità tra incarichi, fortemente condizionati dall’appartenenza politica. L’introduzione di un periodo di inconferibilità, di “raffreddamento”, è volta a consentire l’attribuzione di incarichi fondata su requisiti professionali, impedendo conferimenti che conseguano immediatamente alla fine del mandato politico”.La finalità della disposizione è cioè quella di evitare “la trasmigrazione” dei soggetti investiti di incarichi politici nei ruoli gestionali per evitare che ciò possa dar luogo a fenomeni corruttivi. Ed è evidente che il rischio di “trasmigrazione” non si verificherebbe nel caso di semplice riconferma in una carica già rivestita in precedenza66 .Donde un’interpretazione, fondata sul mero tenore letterale della norma, che escludesse la possibilità di riconfermare, a fine mandato, gli amministratori in carica, finirebbe con il frustrare la ratio stessa della norma predetta.Sembra quindi corretto concludere che l’ipotesi di inconferibilità in esame non si applichi al caso della semplice riconferma del presidente o degli amministratori investiti di deleghe della società partecipata.

9.4. L’ambito soggettivo di applicazione della nuova disciplina: l’applicazione agli “enti di diritto privato in controllo pubblico”.

Per quanto attiene all’ambito soggettivo di applicazione della disciplina sopra richiamata, l’Art. 2 del D. Lgs. 39/2013 stabilisce che le disposizioni in tema di incompatibilità e inconferibilità di incarichi si applicano “agli incarichi conferiti nelle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ivi compresi gli enti pubblici, nonché negli enti di diritto privato in controllo pubblico”.

Orbene, l’Art. 1 del D. Lgs. 39/2012, nella sezione destinata alle definizioni, individua e definisce chiaramente gli «enti di diritto privato in controllo pubblico», come “le società e gli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, che sono sottoposti a controllo ai sensi dell’articolo 2359 c.c. da parte di amministrazioni pubbliche”, oppure gli enti “nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi”.

Il richiamo espresso all’art. 2359 c.c. dimostra in modo inequivocabile che il Legislatore ha inteso riferirsi al concetto di controllo societario in senso tecnico: controllo che, in base alla disposizione sopra richiamata, può essere attuato dal socio che “dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria”; ovvero “dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria”; o ancora esercita una “influenza dominante (…) in virtù di particolari vincoli contrattuali”.Per quanto attiene al caso degli enti in cui “siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni (…) poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi”, sembra evidente il riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 2449 c.c. (“Società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici”), che stabilisce che “se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione del capitale sociale”.

Le espressioni utilizzate dal Legislatore non si riferiscono quindi genericamente alle ipotesi di società a capitale pubblico totalitario o maggioritario, ma paiono prendere in considerazione esclusivamente le ipotesi in cui un socio pubblico di riferimento disponga di un potere di influenza riconducibile alle ipotesi di cui agli artt. 2395 c.c. o 2449 c.c.. Questa interpretazione pare del resto confermata anche dalle considerazioni esplicative contenute nella relazione tecnica al D. Lgs. 39/213, ove si precisa che l’espressione utilizzata ha la finalità di includere nell’ambito di applicazione delle disposizioni in questione tutti gli enti in cui “le amministrazioni pubbliche abbiano un controllo effettivo, per titolarità della maggioranza delle azioni o per il riconoscimento, anche in caso di posizioni di minoranza, di poteri di influire fortemente sull’attività dell’ente, quali soprattutto i poteri di nomina degli amministratori”. Devono quindi ritenersi escluse dall’ambito di applicazione della predetta legge le società che, pur avendo un capitale interamente pubblico, abbiano una compagine societaria frazionata nella quale non sia individuabile un socio di riferimento che le controlli ai sensi dell’art. 2359, comma 1 o comma 2, c.c., ovvero che disponga di poteri di nomina diretta degli amministratori ai sensi dell’art. 2449 c.c..

9.5. La decorrenza delle disposizioni del D.Lgs. 39/2013 ed il sistema sanzionatorio.

Per quanto attiene al problema della decorrenza e degli effetti delle disposizioni introdotte dal D. Lgs. 39/2013, l’articolo 19 del D. Lgs. 39/2013 prende in considerazione le ipotesi di incompatibilità previste dai capi V e VI, stabilendo che l’insorgenza di una causa di incompatibilità determina la decadenza dall’incaricoe la risoluzione del relativo contratto, di lavoro subordinato o autonomo, decorso il termine perentorio di quindici giorni dalla contestazione all’interessato, da parte del responsabile del piano anticorruzione di cui all’articolo 15 del decreto, dell’insorgere della causa di incompatibilità67.Per contro l’art. 20, che disciplina l’accertamento delle ipotesi di inconferibilità previste dal capo IV (artt. 7 e 8), non affronta il problema della decorrenza delle nuove disposizioni e della loro applicabilità agli incarichi in corso alla data di entrata in vigore del decreto.In assenza di norme transitorie, occorre richiamare la giurisprudenza consolidata in materia, che tende a bilanciare il principio di legalità con la tutela costituzionale riconosciuta alle posizioni giuridiche soggettive oggetto delle disposizioni. In linea con questo orientamento giurisprudenziale, parrebbe corretto ritenere che, con riferimento agli incarichi pregressi legittimamente assegnati, trovi applicazione il principio “tempus regit actum”: con la conseguenza che le cause di inconferibilità in esame si applichino quindi con esclusivo riferimento agli incarichi conferiti dopo l’entrata in vigore del decreto (4 maggio 2013), e che gli incarichi conferiti in precedenza restino validi ed efficaci fino a naturale scadenza68. La prevenzione della violazione delle disposizioni del decreto è affidata da un lato alla vigilanza da parte dei responsabili dei piani anticorruzione e, dall’altro all’autocertificazione da parte del destinatario dell’incarico.La vigilanza, negli enti di diritto privato in controllo pubblico è effettuata, secondo l’art. 15, dal responsabile del piano anticorruzione di ciascun soggetto, con obbligo di segnalazione delle eventuali violazioni all’Autorità nazionale anticorruzione, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nonché alla Corte dei conti, per l’accertamento di eventuali responsabilità amministrative.L’art. 20 prevede inoltre l’obbligo dell’interessato, all’atto del conferimento dell’incarico, di presentare una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di inconferibilità e l’adempimento dell’obbligo è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico. Nel corso dell’incarico l’interessato presenta annualmente una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di incompatibilità di cui al presente decreto.La dichiarazione mendace, accertata dalla stessa amministrazione, nel rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio dell’interessato, comporta la inconferibilità di qualsivoglia incarico per un periodo di 5 anni. A norma dell’art. art. 17, gli atti di conferimento di incarichi adottati in violazione delle disposizioni del decreto e gli eventuali relativi contratti sono nulli e l’atto di accertamento della violazione è pubblicato sul sito dell’amministrazione o dell’ente che conferisce l’incarico.I componenti degli organi che hanno conferito incarichi dichiarati nulli sono responsabili per le conseguenze economiche degli atti adottati, salvo che fossero assenti al momento della votazione, o, se presenti, abbiano votato contrario o si siano astenuti.

 

10. Conclusioni: l’amministrazione delle società di gestione dei servizi pubblici locali, tra obblighi di organizzazione, obiettivi di efficienza e divieti di legge.

L’analisi svolta nei paragrafi precedenti consente di formulare alcune considerazioni conclusive sulla lacune e sulle criticità di un sistema normativo che è tutt’ora il frutto di interventi frammentari e scoordinati e che richiede un intervento urgente di riordino e di semplificazione.Sebbene le attività di gestione dei servizi pubblici locali rivestano rilevanza cruciale – sia per l’impatto che esse determinano sul nostro tessuto sociale ed economico, sia per la loro centralità ai fini dello sviluppo del nostro Paese – la gestione delle società a partecipazione pubblica che operano in questo settore comporta, per chi debba assumersi la responsabilità della loro amministrazione, uno sforzo improbo, a causa delle problematiche interpretative ed attuative generate da una disciplina che spesso ha l’effetto di ritardare, intralciare o addirittura impedire l’assunzione di decisioni di natura organizzativa che richiedono invece speditezza e determinazione.

Come si è illustrato nei paragrafi iniziali, l’applicazione alle società a partecipazione pubblica della disciplina delle società di capitali, comporta il loro assoggettamento allo stesso sistema dei doveri e delle responsabilità degli amministratori, che si incentra sugli obblighi di professionalità, efficienza, pianificazione ed attuazione di assetti organizzativi adeguati all’entità ed alla struttura dell’impresa, codificati dagli articoli 2381 e 2392 c.c..

Tali obblighi sono tuttavia limitati e compressi dalle norme, succedutesi nel tempo, che hanno ridotto entro margini ristretti la libertà degli azionisti e dei loro manager di adottare la struttura organizzativa più adeguata per garantire l’efficienza e minimizzare i rischi che dall’esercizio dell’attività sociale derivano alla società, ai creditori e più in generale a tutti i cosiddetti “stakeholders” che a vario titolo entrano in contatto con la società o sono comunque interessati dal suo operare.

A ciò si aggiunge l’impossibilità di conciliare esigenze tutte meritevoli di tutela, ma tra loro ben differenti (efficienza, risparmio della spesa e prevenzione di fenomeni corruttivi), con l’emanazione di disposizioni prive di qualunque coordinamento sistematico e spesso avulse dal contesto operativo sul quale vanno ad incidere.

Emblematico, in questo senso, è il contrasto che si crea tra la raccomandazione (rispondente a ragioni di risparmio della spese) di nominare nel consiglio di amministrazione delle società partecipate “dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione o di poteri di indirizzo e vigilanza”, ed il divieto (sancito per prevenire fenomeni corruttivi o clientelari) di nominare propri dirigenti: con la conseguenza che – per raccogliere le indicazioni del legislatore in tema di risparmi di spesa – le posizioni di responsabilità in seno ai consigli di amministrazione dovranno essere assunte da personale poco qualificato e verosimilmente inidoneo a svolgere il compito di amministratore.Tale paradosso appare ancor più evidente ove si consideri che i dipendenti investiti di cariche gestorie, e quindi gravati delle relative pesanti responsabilità, sono tenuti a riversare gli eventuali compensi all’amministrazione di appartenenza.

Fatte queste premesse, non si può non evidenziare come le norme in esame si prestino a serie censure di illegittimità costituzionale e di contrasto con il Trattato UE, in quanto operano un’evidente discriminazione, da un lato, tra le società aventi medesimo oggetto e funzione ma diversa compagine sociale (pubblica o privata), e dall’altro tra le società pubbliche e miste, sulla base del semplice fatto della partecipazione o meno alle stesse di enti locali.

Il quadro normativo illustrato crea inoltre problemi organizzativi delicati per gli amministratori delle società di gestione dei servizi pubblici locali, che vedono significativamente limitati i poteri/doveri di organizzazione loro imposti dalle disposizioni dell’artt. 2381 c.c. e del D. Lgs. 231/2001.

E’ pertanto auspicabile e sempre più urgente che il legislatore – anziché procedere con norme “tampone”, emanate sull’onda dell’emergenza, e con indicazioni programmatiche (spesso rimaste disattese a causa della resistenza o inerzia dei destinatari) – intervenga con un disegno di riordino dell’intera disciplina, come l’importanza la delicatezza della materia impongono.

1 Avvocato del Foro di Torino.

2 Le considerazioni che seguono riprendono e sviluppano il discorso avviato in A. BAUDINO, La nomina degli amministratori delle società a capitale pubblico e misto, in AA. VV, Governo, controllo e valutazione delle società partecipate dagli enti locali, a cura di D. Di Russo e L. Falduto, edizioni MAP, Torino, 2009, pag. 305 e ss..

3 In questi termini: Cassazione Civile, Sezione Unica, n. 64 del 13 febbraio 1999.

4 L’art. 90 Trattato C.E. salvaguarda il sistema di mercato aperto, instaurato dal diritto comunitario.

inibendo ai singoli Stati di emanare o mantenere vantaggi concorrenziali in favore delle imprese pubbliche, o di imprese cui si riconoscono diritti speciali o esclusivi e, l’art. 92 fa divieto di aiuti concessi sotto qualsiasi forma che possano falsare o solo minacciare di falsare la concorrenza.

5 Come è noto, per individuare un organismo di diritto pubblico, secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea è necessario che ricorrano cumulativamente tre precise condizioni: a) si tratti di una struttura istituita per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale; b) la struttura sia dotata di personalità giuridica; c) la sua attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la sua gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi o il suo organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico (F. Spiezia P. Monea, E. Iorio, I servizi pubblici locali, Milano, 2004, 139 e ss.).

6 E’ questo il caso, ad esempio, della materia degli appalti, allorché abbia oggetto l’affidamento del servizio pubblico ovvero la scelta del socio privato, nel qual caso è richiesto l’espletamento di procedure di evidenza pubblica.

7 Per una ricostruzione accurata e completa della normativa che si è succeduta, si veda il prezioso lavoro di G. Urbano, La società a partecipazione pubblica tra tutela della concorrenza, moralizzazione e amministrativizzazione, in Amministrazione in cammino, in Rivista elettronica di diritto pubblico, di diritto dell’economia e di scienza dell’amministrazione a cura del Centro di Ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet”, Direttore Prof. Giuseppe di Gaspare, reperibile su http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/ .

8 Per una disamina dei provvedimenti che si sono avvicendati cfr.: G. URBANO, La società a partecipazione pubblica tra tutela della concorrenza, moralizzazione e amministrativizzazione, in Amministrazione in cammino, Rivista elettronica di diritto pubblico, di diritto dell’economia e di scienza dell’amministrazione a cura del Centro di Ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet”, a cura di G. GASPARE, reperibile su http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/.

9 E. Massone, in Le società per azioni quale forma attuale di gestione dei servizi pubblici, a cura di E. Mele, Milano, 2003, pag. 217.

10 In realtà le censure investirono sia l’art. 2449 c.c., che attribuiva al socio pubblico un diritto di nomina diretta di uno o più amministratori, indipendente dalla percentuale (anche minoritaria) di partecipazione al capitale sociale, sia e soprattutto l’art. 2450 c.c. (poi abrogato dall’art. 3 comma 1 del D.L. 10/2007, conv. in L. 46/2007), che consentiva la possibilità di riservare allo Stato poteri di ingerenza nell’amministrazione e nel controllo di imprese private, anche indipendentemente dal possesso di una partecipazione alle stesse, facendo sorgere seri dubbi sulla sua compatibilità con le disposizioni comunitarie (di rango costituzionale) poste a tutela della libera concorrenza. Gli stessi dubbi furono sollevati dalla Commissione europea, che avviò una procedura di infrazione (n. 2104/2006) nei confronti dell’Italia per violazione degli articoli 43 e 56 del Trattato CE in tema di libera circolazione dei capitali e di diritto di stabilimento. Parallelamente, dinanzi alla Corte di Giustizia della Comunità Europea si svolgeva anche il procedimento promosso dal Tar Lombardia (l’ordinanza di rimessione è del 13 ottobre 2004, n. 175, ed è consultabile sul sito www.dirittodeiservizipubblici.it), avente ad oggetto la verifica della compatibilità dell’art. 2449 c.c. con l’art. 56 del Trattato. Il procedimento si concluse con la sentenza 6 dicembre 2007, che ritenne contrastante con l’art. 56 del Trattato l’allora vigente art. 2449 c.c., laddove consentiva di conferire allo Stato o ad altro ente pubblico il diritto di godere di un potere di controllo sproporzionato rispetto alla sua partecipazione nel capitale di una società. A seguito delle censure mosse dalla Commissione Europea e dalla Corte di Giustizia, il legislatore intervenne con due distinti provvedimenti: il citato decreto-legge 15 febbraio 2007, n. 10, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 aprile 2007, n. 46, il cui art. 3, comma 1, abrogò l’articolo 2450 del codice civile; la Legge 25 febbraio 2008, n. 34 (Legge comunitaria 2007), che all’art. 13, comma 1, ha riformulato il testo dell’art. 2449 c.c., introducendo il principio della proporzionalità: prevedendo cioè che il diritto di nomina diretta attribuibile statutariamente al socio pubblico sia limitato “un numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione al capitale sociale”.

11 La disposizione non chiarisce, infatti, come debba essere inteso il concetto di proporzionalità: problema di non agevole soluzione in un sistema che, come si vedrà in seguito, impone al socio pubblico precisi limiti al numero degli amministratori di sua designazione, e che dovrebbe essere risolto nel senso di ritenere che la proporzionalità debba ritenersi rispettata allorché al socio pubblico di minoranza sia consentito di nominare un numero di amministratori inferiore a quello necessario per determinare un’influenza determinante sulla decisioni del consiglio di amministrazione. Ancor più difficile è comprendere appieno quale sia la disciplina dettata per le società aperte, e cioè per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, per le quali parrebbe restare salva soltanto la facoltà di esprimere direttamente uno o più amministratori (sempre, ovviamente, nel rispetto del principio di proporzionalità sancito dalla Corte di Giustizia) mediante la sottoscrizione di strumenti finanziari attributivi di tale diritto, ai sensi dell’art. 2346, comma 6, c.c., ove lo statuto espressamente preveda tale possibilità (l’art. 2449, comma 4, stabilisce infatti che “Alle società che fanno ricorso al capitale di rischio si applicano le disposizioni del sesto comma dell’articolo 2346”). Costituisce invece un vero e proprio rompicapo il periodo successivo della disposizione, ove si stabilisce che “Il consiglio di amministrazione può altresì proporre all’assemblea (…) che i diritti amministrativi previsti dallo statuto a favore dello Stato o degli enti pubblici (n.d.r.: e cioè i diritti che, come prima specificato, possono essere attribuiti mediante emissione di strumenti finanziari) siano rappresentati da una particolare categoria di azioni”: posto che, secondo l’orientamento prevalente accolto dai commentatori delle riforma del diritto societario, l’autonomia accordata ai soci nel determinare il contenuto delle varie categorie di azioni, non si spingerebbe sino al punto di consentire la creazione di azioni provviste del diritto di nominare un amministratore. Il problema potrebbe tuttavia essere oggi risolto ricorrendo all’emissione di azioni con voto plurimo, come ora consentito dalle modifiche apportate all’art. 2351 c.c. e all’art. 127-quinquies del D. Lgs. 58/98 (T.U.F.), dall’art. 20 del D.L. 91/2014, convertito in Legge L. 11 agosto 2014, n. 116.

12 Per eventuali approfondimenti sul punto si rinvia alle considerazioni svolte in: A. BAUDINO, La nomina degli amministratori delle società a capitale pubblico e misto, in AA. VV, Governo, controllo e valutazione delle società partecipate dagli enti locali, a cura di D. DI RUSSO e L. FALDUTO, edizioni MAP, Torino, 2009, pag. 305 e ss..

13 Cfr. G. Frè, Società per Azioni, in AA. VV., Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna- Roma, 1982, 912 e ss.; M.T. Cirenei, Le società per azioni a partecipazione pubblica, in AA. VV., Trattato delle società per azioni, vol.8, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 1992, 133 e ss.; P. Cecchi, Gli amministratori di società di capitali, Milano, 1999, 218 e ss.;G.M. Panini, Commento sub.art.2449-2450 c.c., in AA.VV., La riforma delle società, società per azioni, società in accomandita per azioni, tomo II, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, Torino, 2003, 1039 e ss.; B. Petrazzini, Commento sub. artt.2449-2450 c.c., in AA.VV., Il nuovo diritto societario, commentario a cura di G. Cottino e G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, Bologna, 2004, 1695 e ss.

14 In tale relazione si legge: “in questi casi è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggior snellezza di forma e nuove possibilità realizzatrici. La disciplina comune delle società per azioni deve pertanto applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongono diversamente.

15 Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 6/2003 di riforma del diritto societario, si riteneva che l’articolo 2458 c.c. in tema di nomina diretta degli amministratori da parte degli enti pubblici soci (articolo il cui contenuto venne sostanzialmente trasfuso nell’art. 2449 licenziato dal d.l.gs. di riforma), sebbene dettato specificamente per le società per azioni, fosse applicabile in via analogica anche alle società a responsabilità limitata. Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 6/2003 di riforma del diritto societario, che ha emancipato la s.r.l. dalla sua “sorella maggiore” per azioni, questa tesi non è più sostenibile. Nel nuovo modello organizzativo di s.r.l. disciplinato dal legislatore, l’obiettivo (regolato dal legislatore all’art. 2449 c.c. con riferimento alle s.p.a.) di attribuire a singoli soci o gruppi di soci il potere di nominare uno o più amministratori, può essere raggiunto mediante un percorso diverso, e cioè ricorrendo alla facoltà, espressamente prevista dall’art. 2468 c.c., comma 3, c.c., di attribuire a singoli soci particolari diritti “riguardanti l’amministrazione della società”. Ovviamente, anche nel caso in cui si adotti il modello societario della s.r.l., la clausola attributiva dei diritti particolari di nomina di amministratori e sindaci dovrà essere formulata nel rispetto del principio di proporzionalità sancito dalla Legge 25 febbraio 2008, n. 34 (Legge comunitaria 2007), che, recependo le indicazioni della Corte di Giustizia circa l’incompatibilità dell’art. 2449 c.c. con l’art. 56 del Trattato UE, ne ha riformulato il testo.

16 Nel caso in cui si considerasse necessaria tale deliberazione assembleare si deve ritenere che essa avrebbe unicamente un carattere dichiarativo e ricognitivo (così M.T. CIRENEI, Le società per azioni a partecipazione pubblica, in AA. VV., Trattato delle società per azioni, vol.8, diretto da G.E. COLOMBO e G.B. PORTALE, Torino, 1992, 137; Cass. civ., 15 luglio 1982, n.4139, in Riv. dir. comm., 1983, II, 40).

17 M. BERTUZZI, Commento sub artt. 2449-2450 c.c., in M. BERTUZZI, G. BOZZA, G. SCIUMBATA, Patrimoni destinati , partecipazioni statali, s.a.a., (artt.2447-bis – 2461), in AA. VV., La riforma del diritto societario, a cura di G. LO CASCIO, Milano, 2003, 207 e ss.

18 Si ripercorrono, qui, le considerazioni svolte sul punto dalla sentenza 26806/2009 della Cass. Sez. U., su cui ci si soffermerà approfonditamente infra, e cui va il merito di aver definito i confini tra i due ambiti della responsabilità.

19 Cfr.: Cass., Sezioni Unite, 26 febbraio 2004, n. 3899.

20 E’ questo, per esempio, il caso in cui i soci siano stati indotti ad investire nella società insolvente sulla base di una rappresentazione falsa o inesatta della situazione della economico – patrimoniale o finanziaria della società stessa.

21 La sentenza in commento prende anche posizione sul problema, evidenziato da vari commentatori, che l’esclusione dell’ipotizzata giurisdizione del giudice contabile per l’azione di risarcimento di danni cagionati al patrimonio della società partecipata da un ente pubblico, possa favorire l’inerzia nel reprimere i comportamenti illegittimi posti in essere da soggetti che, in definitiva, pur sempre amministrano risorse pubbliche: il che avviene, per esempio, nel caso in cui l’accertamento delle responsabilità degli amministratori possa comportare per la società conseguenze pregiudizievoli sul piano fiscale oppure ricadute “politiche”. La Cassazione osserva, al riguardo, che, il socio pubblico è di regola in grado di tutelare egli stesso i propri interessi sociali mediante l’esercizio delle azioni civili (che nell’attuale sistema del diritto di societario possono essere promosse anche da minoranze esige, ed addirittura deliberate dal Collegio Sindacale, ai sensi dell’art. 2393, comma 3, c.c., in caso di inerzia da parte degli azionisti) . E quindi soggiunge che, se ciò non faccia e se, in conseguenza di tale omissione, l’ente pubblico abbia a subire un pregiudizio derivante dalla perdita di valore della partecipazione, “è sicuramente prospettabile l’azione del procuratore contabile nei confronti (non già dell’amministratore della società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensì nei confronti) di chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbia perciò pregiudicato il valore della partecipazione”.

22 Cass. Sez. Un., 25/11/2013, n. 26283, Presidente estensore R. RORDORF.

23 Ci si riferisce alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (recepita, in ambito nazionale, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato), formatasi sull’onda della nota sentenza Teckal del 18 novembre 1999, n. 107/98, che ha escluso la necessità del preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica (sul presupposto dell’insussistenza di esigenze di tutela della concorrenza) nel caso in cui la società affidataria del servizio sia interamente partecipata dall’ente pubblico, eserciti in favore del medesimo la parte più importante della propria attività e sia soggetta al suo controllo in termini analoghi a quelli in cui si esplica il controllo gerarchico dell’ente sui propri stessi uffici.

24 Cfr.: Cass. Sez. un. 5491/2014 e 7177/2014, Presidente estensore R. RORDORF.

25 Un’analisi approfondita della motivazione sottesa alla sentenza n. 26283/2013 della Cass. Sez. Un., sopra citata, esulerebbe dai confini di questo breve studio. E’ tuttavia opportuno, e allo stesso tempo sufficiente rilevare in questa sede, che le conclusioni cui giungono le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza in esame, non paiono coerenti con le premesse da cui muovono. Infatti la Corte Suprema, dopo aver richiamato i principi posti a base delle precedenti decisioni conformi delle Sezioni Unite, precisa infatti di essere persuasa “che l’orientamento ora richiamato, ispirato dall’esigenza di ricondurre la soluzione del problema di giurisdizione entro un quadro coerente di principi giuridici che sono a fondamento del sistema ordinamentale, debba essere in via generale tenuto fermo, anche alla luce della normativa sopravvenuta”; e ribadisce il concetto (pienamente condivisibile) che nessuna delle varie norma emanate in tema di amministrazione delle società a capitale interamente o parzialmente pubblico consente di “sottrarsi alla drastica alternativa già precedentemente segnalata: alternativa per la quale, fin quando non si arrivi a negare la distinzione stessa tra ente pubblico partecipante e società di capitali partecipata, e quindi tra la distinta titolarità dei rispettivi patrimoni, la giurisdizione della Corte dei conti in tema di risarcimento dei danni arrecati dai gestori o dagli organi di controllo al patrimonio della società potrebbe fondarsi soltanto: o su una previsione normativa che eccezionalmente lo stabilisca (previsione certo possibile, ma che allo stato non appare individuabile in termini generali nell’ordinamento) ; oppure sull’attribuzione alla stessa società partecipata della qualifica di ente pubblico, onde il danno arrecato al suo patrimonio potrebbe qualificarsi senz’altro come danno erariale. Soluzione, quest’ultima, che appare però ben difficilmente predicabile, perché trova un solido ostacolo nel disposto della L. 20 marzo 1975, n. 70, art. 4, a tenore del quale occorre l’intervento del legislatore per l’istituzione di un ente pubblico”.

Ciononostante, inspiegabilmente ed in aperto contrasto con quanto poco prima affermato, la sentenza conclude affermando che “le conclusioni cui questa corte è pervenuta nell’individuare i limiti della giurisdizione del giudice contabile nelle cause riguardanti la responsabilità degli organi di società a partecipazione pubblica non possano valere (…) anche quando si tratti di società in house. (…) perché – ciò sia detto quanto meno ai limitati fini del riparto di giurisdizione – queste ultime hanno della società solo la forma esteriore ma, come s’è visto, costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi”. Affermazione, quest’ultima, che appare priva di giustificazione, proprio perché – per le stesse ragioni menzionate dalla sentenza nei passi precedenti – il principio della separazione tra patrimonio della società e patrimonio dei soci (che è principio fondante delle società di capitali) non può essere ignorato o aggirato in assenza di una norma che lo consenta espressamente.

26 Corte di Cassazione, Sez. II penale, 21/07/2010 n. 28699.

27 Corte di Cassazione, Sez. II penale, 10/01/2011, n. 234.

28 In base alla nuova disciplina (dettata dall’art. 2381 c.c.), gli organi delegati “curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” (art. 2381, 5° co., c.c.); il consiglio di amministrazione “valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società”; inoltre il consiglio di amministrazione, “quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società; valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione. (art. 2381, 3° co., c.c.). A norma dell’art. 2403 c.c., il collegio sindacale “vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento”.

29 In questo nuovo quadro normativo, l’inadeguatezza dell’assetto organizzativo dell’ente (e cioè la sua inidoneità a prevedere, gestire e contenere i rischi entro margini economicamente e socialmente accettabili) viene quindi assunta come uno dei fondamentali parametri di valutazione ai fini dell’accertamento e dell’imputazione della responsabilità degli amministratori e dei sindaci nei confronti della società per i danni subiti a seguito di carenze ed inefficienze dei processi di controllo di gestione.

30 Gli esiti delle indagini effettuate e le osservazioni via via formulate dalla Corte dei Conti sono confluiti nella relazione approvata con la Deliberazione n. 14/2010, Sezione delle Autonomie, nell’adunanza del 22 giugno 2010.

31 La disposizione citata stabilisce che “Il trattamento economico onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle pubbliche finanze emolumenti o retribuzioni nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, agenzie, enti pubblici anche economici, enti di ricerca, università, società non quotate a totale o prevalente partecipazione pubblica nonché le loro controllate, ovvero sia titolare di incarichi o mandati di qualsiasi natura nel territorio metropolitano, non può superare quello del primo presidente della Corte di cassazione. Il limite si applica anche ai magistrati ordinari, amministrativi e contabili, ai presidenti e componenti di collegi e organi di governo e di controllo di società non quotate, ai dirigenti”.

32 A norma dell’art. 6, comma 6, del D.L. 78/2010, “Nelle società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché nelle società possedute ( direttamente o indirettamente ) in misura totalitaria, alla data di entrata in vigore del presente provvedimento dalle amministrazioni pubbliche, il compenso di cui all’articolo 2389, primo comma, del codice civile, dei componenti degli organi di amministrazione e di quelli di controllo è ridotto del 10 per cento. La disposizione di cui al primo periodo si applica a decorrere dalla prima scadenza del consiglio o del collegio successiva alla data di entrata in vigore del presente provvedimento. La disposizione di cui al presente comma non si applica alle società quotate e alle loro controllate”.

33 Cfr.: Corte dei Conti, Sez. reg. Lombardia 16/10/2008, n. 220.

34 L’elenco cui fa riferimento la disposizione in commento è quello che ai sensi del comma 3 della Legge 31 dicembre 2009, n. 196, contiene “La ricognizione delle amministrazioni pubbliche di cui al comma 2” che deve essere “operata annualmente dall’ISTAT con proprio provvedimento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale entro il 30 settembre”. Il comma 2 della disposizione di legge sopra richiamata stabilisce che “Ai fini della applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendono (…) gli enti e i soggetti indicati a fini statistici dall’ISTAT” nella ricognizione e nei suoi successivi aggiornamenti annuali “effettuati sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti dell’Unione europea, le Autorità indipendenti e, comunque, le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni”.

35 Il comma 555 detta poi un regola ulteriormente restrittiva per i soggetti previsti dal comma precedente, diversi dalle società che svolgono servizi pubblici locali. La norma dispone infatti che tali soggetti, a decorrere dall’esercizio 2017, in caso di risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti, sono posti in liquidazione entro sei mesi dalla data di approvazione del bilancio o rendiconto relativo all’ultimo esercizio. E la norma soggiunge che, in caso di mancato avvio della procedura di liquidazione entro il predetto termine, i successivi atti di gestione sono nulli e la loro adozione comporta responsabilità erariale dei soci.

36 Ci si riferisce alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea formatasi sull’onda della nota sentenza Teckal del 18 novembre 1999, n. 107/98, citata alla nota 21, che ha escluso la necessità del preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica (sul presupposto dell’insussistenza di esigenze di tutela della concorrenza) nel caso in cui la società affidataria del servizio sia interamente partecipata dall’ente pubblico, eserciti in favore del medesimo la parte più importante della propria attività e sia soggetta al suo controllo in termini analoghi a quelli in cui si esplica il controllo gerarchico dell’ente sui propri stessi uffici.

37 La disposizione del comma 555 dell’art. 1 soggiunge che, “in caso di mancato avvio della procedura di liquidazione entro il predetto termine, i successivi atti di gestione sono nulli e la loro adozione comporta responsabilità erariale dei soci”.

38 Le disposizioni in commento devono essere lette in coordinamento con il successivo comma 562 della Legge di stabilità 2014, che ha abrogato il comma 1 (ed altri) dell’articolo 4 del D. Lgs. 95/2012 (cosiddetto Spending Review). Il predetto comma 1 dell’art. 4 stabiliva che per le società strumentali che avessero conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell’intero fatturato, si sarebbe dovuto procedere, “alternativamente: a) allo scioglimento della società entro il 31 dicembre 2013”; ovvero: “b) all’alienazione, con procedure di evidenza pubblica, delle partecipazioni detenute alla data di entrata in vigore del presente decreto entro il 30 giugno 2013”. La disciplina previgente mirava a porre fine al fenomeno delle società pubbliche strumentali mediante la loro chiusura o alienazione, secondo criteri indifferenziati che prescindevano dall’economicità e dall’efficienza. Il nuovo quadro normativo delineato dalla Legge di stabilità 2014 introduce invece la regola – sicuramente più coerente con i principi generali del nostro ordinamento e con quelli di derivazione comunitaria in materia – che il ricorso all’utilizzo, da parte delle amministrazioni pubbliche, di società strumentali in house per la gestione dei servizi deve essere subordinato alla condizione che il ricorso alla forma societaria risponda ad esigenze di economicità ed efficienza. Diversamente, ove la società in house generi solo perdite ed accresca la spesa pubblica, l’ente socio dovrà chiuderla e rivolgersi al mercato.

39 L’art. 2382 c.c. stabilisce in via generale che “non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l’interdetto, l’inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che comporta l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l’incapacità ad esercitare uffici direttivi”.

40 L’art. 2387 c.c. prevede infatti, al comma 1, che “lo statuto può subordinare l’assunzione della carica di amministratore al possesso di speciali requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, anche con riferimento ai requisiti al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati”.

41 Questa tesi, che considera la delibera assembleare di nomina non già come una serie di scelte distinte e fra loro autonome, ma come una scelta unica e tendenzialmente inscindibile che ha per oggetto l’organo collegiale nel suo complesso, si fonda su un’interpretazione che privilegia l’esigenza di garantire che nel consiglio di amministrazione siano rispecchiati gli equilibri e le contrapposizioni esistenti in seno all’assemblea che lo nomina. A favore di questa interpretazione depone il secondo comma dell’art. 2385 c.c., secondo cui “la cessazione degli amministratori per scadenza del termine ha effetto solo dal momento in cui l’intero consiglio di amministrazione è stato ricostituito”. Questa disposizione sembra lasciar intendere che il procedimento di nomina può ritenersi esaurito solo allorquando siano valide (e siano state validamente accettate) tutte le nomine proposte dall’assemblea. Un ulteriore principio invocabile, in via interpretativa, a sostegno di questa soluzione, può essere individuato nell’art. 1716, 1° co., c.c., che, in materia di mandato congiuntivo (e cioè di attribuzione di un incarico a più mandatari), stabilisce “che, salvo patto contrario, il mandato conferito a più persone designate a operare congiuntamente, non ha effetto se non è accettato da tutte”.

42 Secondo altra tesi, sostenuta in dottrina, affinché il consiglio possa dirsi validamente costituito sarebbe invece sufficiente che vi siano nomine (e accettazioni) valide bastevoli a reintegrare la maggioranza del consiglio medesimo. Questa tesi si fonda su ragioni di ordine pratico, e cioè sull’opportunità (particolarmente sentita nelle società di grandi dimensioni, con un elevato numero di consiglieri) di evitare che la nomina invalida (o la mancata accettazione) anche di un solo eletto paralizzi la nomina di un intero consiglio. Tale tesi si scontra tuttavia con la disposizione dell’art. 2386 c.c., che stabilisce che gli amministratori nominati in sostituzione di quelli cessati scadono con quelli in carica all’atto della loro nomina: proprio a conferma del fatto che la nomina è considerata come unitaria e riferita al consiglio nella sua composizione complessiva.

43 Le critiche non attenevano certo alla finalità della norma, che è quella di porre freno al malcostume di nominare gli amministratori delle società a capitale interamente o parzialmente pubblico non in base alle capacità ed al profilo professionale necessari per l’assolvimento dell’incarico, bensì in base a logiche puramente politiche, e talora addirittura nepotistiche o di spartizione del potere. Le critiche attenevano alle modalità con cui questa finalità veniva perseguita. Ed infatti è di solare evidenza che il dato fattuale, costituito dall’aver chiuso in perdita tre esercizi consecutivi, è del tutto inadeguato ed inidoneo per poter esprimere una valutazione di merito sull’operato dell’amministratore: soprattutto in un settore, quale quello dei servizi pubblici locali, in cui il risultato di esercizio è spesso profondamente influenzato da svariate esigenze di natura sociale (legate al contesto economico in cui l’impresa opera ed alla collettività cui i servizi sono resi), che travalicano le logiche di profitto proprie delle imprese private che operano sul mercato. Era stato inoltre obiettato che il requisito soggettivo introdotto dalla finanziaria 2007 non considerava in alcun modo il fatto che la situazione di perdita può essere determinata da scelte gestorie imposte da fattori esterni o dall’azionista di riferimento (si pensi, ad esempio, al settore dei trasporti, in cui è frequente che la società sia costretta dall’azionista pubblico ad applicare prezzi “politici” che determinano una situazione di perdita costante, che viene ripianata dall’azionista pubblico in base ad accordi contrattuali assunti con la società esercente il servizio di trasporto). In secondo luogo era stato rilevato che l’infelice formulazione della norma poneva acriticamente (ed illogicamente) sullo stesso piano figure diverse (ad esempio: amministratori delegati con ampli poteri e consiglieri privi di deleghe), il cui profilo soggettivo può variare in misura considerevole quanto ad autonomia, poteri e responsabilità, a seconda della posizione e del ruolo rivestiti in seno all’organo amministrativo. Era stata inoltre contestata la genericità del concetto di “perdita”, che non consente di dar conto di situazioni in cui, pur in presenza di perdite, agli amministratori vada invece riconosciuto il merito di aver gestito con avvedutezza e nel rispetto dei criteri di una prudente e corretta gestione (si pensi, ad esempio, alla fase di start up delle società, od all’attuazione di programmi di ristrutturazione aziendale, in cui la chiusura di più bilanci successivi in perdita costituisce una conseguenza necessaria ed inevitabile, connaturata alla particolarità della situazione che l’amministratore si vede costretto a gestire).

44 Si veda, sul punto, la relazione approvata con la Deliberazione n. 14/2010, Sezione delle Autonomie, nell’adunanza del 22 giugno 2010, richiamata alla nota 25).

45 In particolare, l’articolo 3, comma 12, della legge 244/2007 (l. fin. 2008, nella formulazione oggi derivante dalle già citato art. 71 Legge 18 giugno 2009, n. 69), ha statuito la riduzione del numero massimo dei componenti degli organi di amministrazione: 1) a cinque, se le disposizioni statutarie vigenti prevedevano un numero massimo di componenti superiore a cinque; 2) a sette se le citate disposizioni statutarie prevedevano un numero massimo di componenti superiore a sette. Le predette disposizioni hanno introdotto inoltre alcune rilevanti limitazioni alla governance delle società direttamente o indirettamente controllate dallo Stato. Ci si riferisce, in particolare: 1) alla possibilità di attribuire al presidente deleghe operative con delibera dell’assemblea dei soci; 2) alla soppressione della carica di vicepresidente eventualmente contemplata dagli statuti, ovvero la previsione che detta carica sia mantenuta esclusivamente quale modalità di individuazione del sostituto del presidente in caso di assenza o impedimento, senza dare titolo a compensi aggiuntivi; 3) alla previsione che l’organo di amministrazione possa delegare proprie attribuzioni a un solo componente, al quale soltanto possano essere riconosciuti compensi ai sensi dell’articolo 2389, terzo comma, del codice civile; 4) alla previsione della possibilità che l’organo di amministrazione conferisca deleghe per singoli atti anche ad altri membri dell’organo stesso, solo a condizione che non siano previsti compensi aggiuntivi. Si tratta di disposizioni estremamente discutibili, poiché impongono considerevoli limitazioni all’autonomia organizzativa delle società, e confliggono con esigenze palesi di natura gestionale, oltreché con i principi sottesi alla nuova disciplina della governance societaria introdotta dal D.Lgs. 6/2003, comportando l’insorgere di problematiche operative analoghe a quelle che verranno affrontate nel prosieguo, con riferimento alle limitazioni imposte dall’art. 4 del d.l. 95/2012 (c.d. “spending review”).

46 L’art. 1, comma 729, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (la legge finanziaria per il 2007) stabiliva che il limite di tre si sarebbe potuto innalzare a cinque per le società con capitale, interamente versato, pari o superiore all’importo che da determinarsi con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, di concerto con il Ministro dell’interno e con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città e autonomie locali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della predetta legge. Il decreto di determinazione dell’importo del capitale sociale rilevante ai fini dell’individuazione del numero massimo dei componenti del consiglio di amministrazione è stato approvato, allo scadere del semestre concesso, in data 26 giugno 2007, pubblicato però sulla Gazzetta Ufficiale solo il 7 agosto 2007; esso dispone che: “Ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1, comma 729, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, l’importo di cui al primo periodo del predetto comma è determinato nella misura di due milioni di euro”.

47 E’ utile segnalare, a questo proposito, che la soglia dei due milioni di EURO oltre la quale è possibile aumentare il numero degli amministratori è riferita al capitale sociale e non al patrimonio netto della società. Pertanto, le società che hanno un capitale sociale inferiore alla predetta soglia ma dispongano di riserve che consentano di superarla ampiamente, potrebbero legittimamente portare le riserve a capitale con un aumento gratuito, per usufruire, ove necessario, della maggior flessibilità concessa dalla norma.

48 È utile ricordare, a questo proposito, che subito dopo l’emanazione delle disposizioni di cui sopra alcune fonti autorevoli avevano addirittura sostenuto un’interpretazione incomprensibilmente rigida, affermando che le disposizioni in questione avrebbero addirittura determinato la cessazione immediata degli organi amministrativi con effetto dalla data di entrata in vigore della legge. In questo senso si era espressa la Circolare del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali del 13.7.2007 (la cosiddetta Circolare Lanzillotta), che aveva sostenuto che “gli effetti della nomina, dando luogo ad un rapporto di durata, si prestano ad essere incisi dalla normativa sopravvenuta. Conseguentemente, alla scadenza del termine di tre mesi dall’adozione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il numero degli amministratori non potrà essere superiore a quello normativamente stabilito, a nulla rilevando l’eventuale data di scadenza successiva del relativo mandato”. Nello stesso senso si era espressa la Corte dei Conti Sezione Lombardia (deliberazione n. 46/2007), che aveva sostenuto che “…la modifica che riguardi il numero degli amministratori riducendolo, comporta la cessazione dalla carica dell’organo amministrativo che risulterebbe formato in modo difforme dalla previsione dello Statuto”, trattandosi di “una norma di coordinamento della finanza pubblica, come tale rientrante fra quelle alle quali deve essere riconosciuto il carattere della imperatività”. A questa tesi era stato obiettato che l’interpretazione proposta non trovava alcun fondamento nel tenore letterale della disposizione in commento, e che non si poteva ritenere che, in assenza di espressa previsione, una disposizione di legge modificasse autoritativamente e retroattivamente i termini economici di un rapporto di durata liberamente stipulato tra privati (quale appunto è il rapporto che intercorre tra società e suoi amministratori). Era stato inoltre osservato che questa interpretazione contrastava anche con le finalità stesse della norma: nel senso che la previsione di una causa di cessazione immediata degli amministratori dal loro ufficio avrebbe determinato un vuoto di potere gestorio, con conseguenze gravissime e devastanti sia sull’efficienza della gestione dei servizi pubblici, sia sull’idoneità stessa delle norme a raggiungere lo scopo che si sono prefissate. E’ quindi prevalsa la tesi (recepita poi dall’art. 71 della l. 69/2009 e dalle altre norme che sono successivamente intervenute a regolare la materia) che affermava che le nuove disposizioni non incidessero direttamente e immediatamente sui rapporti in corso, ma imponessero semplicemente un onere positivo di attivazione per la modificazione degli statuti da parte delle società entro i termini prescritti.

49 Nel testo previgente, l’art. 4 del D.L. 95/2012 prevedeva tre commi iniziali, successivamente abrogati dalla L. 27 dicembre 2013, n. 147 (finanziaria per il 2014). Il comma 1 dell’art. 4 individuava la categoria di società a partecipazione pubblica che i commi successivi assoggettavano a determinati obblighi, finalizzati alla riduzione del numero delle società “in house” ed al contenimento della spesa pubblica: si tratta delle “società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell’intero fatturato”. I successivi commi da 1 a 3 dell’art. 4 prevedevano la messa in liquidazione o la vendita delle società di cui al comma 1. Il comma dell’art. 4 disciplinava quindi la composizione degli organi amministrativi delle società di cui al comma 1; ed il successivo comma 5 disciplinava la composizione degli organi amministrativi “delle altre società a totale partecipazione pubblica, diretta ed indiretta”. I predetti commi da 1 a 3 dell’art. 4 del D.L. 95/2012 sono stati abrogati dalla L. 27 dicembre 2013, n. 147 (finanziaria per il 2014). A seguito dell’abrogazione dei predetti commi, l’individuazione degli enti assoggettati alle disposizioni in tema di numero degli amministratori delle società a capitale pubblico è ora contenuta nei commi 4 e 5 dell’art. 4 del D.L. 95/2012, nel nuovo testo interamente riscritto dal D.L. 90/2014.

50 Si tratta dei commi dell’art. 4 menzionati alla nota precedente, ora abrogati dalla L. 27 dicembre 2013, n. 147 (finanziaria per il 2014), che prevedevano determinati obblighi finalizzati alla riduzione del numero delle società “in house” ed al contenimento della spesa pubblica, imponendo, alternativamente, “lo scioglimento entro il 31/12/2013”, ovvero “l’alienazione, con procedure di evidenza pubblica, delle partecipazioni detenute alla data di entrata in vigore del presente decreto entro il 30 giugno 2013 ed alla contestuale assegnazione del servizio per cinque anni, non rinnovabili, a decorrere dal 1° gennaio 2014”.

51 I problemi derivanti dall’esigenza di coordinamento delle norme in tema di composizione degli organi amministrativi con quelle in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al D. Lgs. 8 aprile 2013, n. 39, sono affrontate al successivo paragrafo 9.

52 La disposizione in commento stabilisce altresì che “A decorrere dal 1º gennaio 2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori di tali società, ivi compresa la remunerazione di quelli investiti di particolari cariche, non può superare l’80 per cento del costo complessivamente sostenuto nell’anno 2013. In virtu’ del principio di onnicomprensività della retribuzione, qualora siano nominati dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione, o della società controllante in caso di partecipazione indiretta o del titolare di poteri di indirizzo e di vigilanza, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al precedente periodo, essi hanno l’obbligo di riversare i relativi compensi all’amministrazione o alla società di appartenenza e, ove riassegnabili, in base alle vigenti disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio”.

53 Il Comma 5 stabilisce inoltre che anche alle “altre società”, diverse da quelle di cui al Comma 4, “si applica quanto previsto dal secondo e dal terzo periodo del comma 4”. E pertanto, “ In virtu’ del principio di onnicomprensività della retribuzione, qualora siano nominati dipendenti dell’amministrazione titolare della partecipazione, o della società controllante in caso di partecipazione indiretta o del titolare di poteri di indirizzo e di vigilanza, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al precedente periodo, essi hanno l’obbligo di riversare i relativi compensi all’amministrazione o alla società di appartenenza e, ove riassegnabili, in base alle vigenti disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio”.

54 In attuazione dell’art. 1, comma 729, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (la legge finanziaria per il 2007) il limite è stato fissato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, di concerto con il Ministro dell’interno e con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città e autonomie locali, con decreto in data 26 giugno 2007, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 7 agosto 2007.

55 In questo senso S. Rosina, la quale osserva che “il parametro qualitativo di cui all’art. 4, comma 5, deve considerarsi necessario, ma non sufficiente in quanto solamente complementare al parametro di cui all’art. 1, comma 729, primo periodo, L. 296/2006 e relativo decreto do attuazione” (S. ROSINA, Società di gestione dei servizi pubblici locali. La nuova governance, tra spending review, quote rosa e anticorruzione, in Rivista di scienze della comunicazione e di argomentazione giuridica, 2013, n.1, pag. 134.

56 Il comma 13 dell’articolo 4 stabilisce infatti che “Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”.

57 in questo senso: S. Pozzoli, nell’intervento pubblicato sul numero 122 del Sole 24 Ore del 6/5/2013.

58 Sotto questo profilo, i commi 4 e 5 dell’art. 4 del D.L. n. 95 del 2012, prima della loro riformulazione avvenuta adopera del D.L. 90/2014, formarono oggetto di esame da parte della Corte Costituzionale con la nota sentenza in data 23/7/2013 n. 229, pronunciata a seguito di varie censure di legittimità costituzionale dell’art. 4 del D. L. 95/2012, sollevate da alcuni Regioni sul presupposto di un’asserita lesione della competenza regionale in tema di ordinamento degli enti locali. La predetta sentenza, mentre ha accolto le censure con riferimento ai commi 1, 2 e 3 secondo periodo, 3-sexies ed 8 dell’art. 4 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, ha invece respinto la censura di incostituzionalità sollevata con riferimento ai predetti commi 4 e 5 “nella parte in cui determinano il numero massimo dei componenti dei consigli di amministrazione delle società pubbliche di cui al comma 1 (comma 4) e delle società a totale partecipazione pubblica (comma 5), individuando anche le modalità di composizione dei predetti consigli e le funzioni dei componenti”. La reiezione è avvenuta sulla base della considerazione che tali commi “ vanno ricondotti ad una materia diversa da quelle sopra individuate in relazione agli altri commi”. Ed infatti, prosegue la Corte, una volta che la Regione “abbia esercitato la sua autonomia organizzativa, operando la scelta fra i vari moduli organizzativi possibili per lo svolgimento dei servizi strumentali alle proprie finalità istituzionali in favore dell’affidamento diretto a società pubbliche, essa ha anche accettato di rispettare lo speciale statuto che contraddistingue tali società, il quale, pur connotato da rilevanti profili di matrice pubblicistica, è comunque riconducibile, in termini generali, al modello societario privatistico che ha radice nel codice civile”.

59 A questo proposito è utile ricordare che, successivamente all’emanazione delle disposizioni introdotte dalla Legge finanziaria 2007 (l. 296/2006), integrata dal D.P.C.M. 26.6.2007, in tema di governance delle società partecipate (totalitariamente o parzialmente) da enti locali, un tentativo di ridurre ulteriormente e drasticamente i margini di libertà dell’azionista pubblico nella determinazione della composizione e della remunerazione dei consigli di amministrazione delle società partecipate era stato effettuato con il disegno di legge finanziaria 2008, che prendeva in considerazione indiscriminatamente tutte le società (strumentali e non) partecipate dagli enti locali. Il disegno di legge finanziaria 2008 aveva infatti previsto che le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che detengono, direttamente o indirettamente, il controllo di società, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, n. 1) e 2) del codice civile, promuovessero atti di indirizzo, volti a: (…) “b) prevedere, per i consigli di amministrazione o di gestione costituiti da tre componenti, che al presidente siano attribuite, senza alcun compenso aggiuntivo, anche le funzioni di amministratore delegato; c) sopprimere la carica di vice presidente, eventualmente contemplata dagli statuti, ovvero prevedere che la carica stessa sia mantenuta esclusivamente quale modalità di individuazione del sostituto del presidente in caso di assenza o di impedimento, senza titolo a compensi aggiuntivi; d) eliminare la previsione di gettoni di presenza per i componenti degli organi societari, ove esistenti, nonché a limitare la costituzione di comitati con funzioni consultive o di proposta ai casi strettamente necessari”. Il predetto disegno di legge proibiva inoltre alle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che detengono il controllo indiretto, di “nominare, nei consigli di amministrazione o di gestione, amministratori della società controllante, a meno che non siano attribuite ai medesimi deleghe gestionali a carattere permanente e continuativo ovvero che la nomina risponda all’esigenza di rendere disponibili alla società controllata particolari e comprovate competenze tecniche degli amministratori della società controllante”. Era altresì stabilito che, nel caso in esame, “gli emolumenti rivenienti dalla partecipazione agli organi della società controllata sono comunque riversati alla società controllante”. In sede di approvazione del testo definitivo della legge, il campo di applicazione delle norme limitative – che inizialmente prendevano in considerazione tutte “le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che detengono, direttamente o indirettamente, il controllo di società, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, n. 1) e 2) del codice civile” – venne tuttavia successivamente circoscritto alle sole “amministrazioni pubbliche statali che detengono, direttamente o indirettamente, il controllo di società, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numeri 1) e 2), del codice civile”.

60 In questo senso: S. Rosina, Società di gestione dei servizi pubblici locali. La nuova governance, tra spending review, quote rosa e anticorruzione, in Rivista di scienze della comunicazione e di argomentazione giuridica, 2013, n.1, pag. 131.

61 L’art. 13 del D.L. n. 223/2006 così recita: “1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti. (…) 2) Le società di cui al comma 1 sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1. 3). Al fine di assicurare l’effettività delle precedenti disposizioni, le società di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto le attività non consentite.”

62 Ed invero, come già evidenziato al paragrafo 4.5, cui rimandiamo, il comma 550 dell’art. 1 della legge di stabilità 2014 stabilisce che le disposizioni in tema di contenimento della spesa si applicano a tutte le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni locali, con le precisazioni e distinzioni di volta in volte effettuate nei commi successivi. Il comma 553, che impone alle società a partecipazione di maggioranza, diretta e indiretta, delle pubbliche amministrazioni locali di perseguire la sana gestione dei servizi secondo criteri di economicità e di efficienza, si rivolge sia alle società di gestione dei servizi pubblici locali, sia alle società strumentali, precisando che “Per i servizi strumentali i parametri standard di riferimento sono costituiti dai prezzi di mercato”. Così come a tutte le società inhouse, strumentali e non, si rivolge il comma 554, che stabilisce, a decorrere dall’esercizio 2015, l’obbligo delle società a partecipazione di maggioranza, diretta e indiretta, delle pubbliche amministrazioni locali titolari di affidamento diretto da parte di soggetti pubblici per una quota superiore all’80 per cento del valore della produzione, di ridurre del 30 per cento il compenso dei componenti degli organi di amministrazione in caso di conseguimento di un risultato economico negativo nei tre esercizi precedenti. Mentre, laddove il legislatore ha voluto limitare l’ambito di applicazione della norma (come nel caso del comma 555, che sancisce l’obbligo di porre in liquidazione entro il 2017 le società che hanno conseguito un risultato negativo per quattro dei cinque esercizi precedenti), lo ha fatto espressamente, stabilendo che la disposizione sia applica esclusivamente ai soggetti “diversi dalle società che svolgono servizi pubblici locali”.

63 Sul punto si veda la relazione della Corte dei Conti approvata con la Deliberazione n. 14/2010, Sezione delle Autonomie, nell’adunanza del 22 giugno 2010, citata alla nota 25. L’ultima delle iniziative emanate nell’ambito del frustrante ed inefficace tentativo di recepire le indicazioni della Corte Conti, è rappresentato dalle disposizioni contenute nei commi 611 e segg. Dell’art. 1 della l. 190/2014 (Finanziaria 2015). Il comma 611, raccogliendo le indicazioni del Commissario per la “spending review”, Carlo Cottarelli, ha previsto “che le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti locali, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le università e gli istituti di istruzione universitaria pubblici e le autorità portuali, a decorrere dal 1º gennaio 2015, avviano un processo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, in modo da conseguire la riduzione delle stesse entro il 31 dicembre 2015, anche tenendo conto dei seguenti criteri: a) eliminazione delle società e delle partecipazioni societarie non indispensabili al perseguimento delle proprie finalità istituzionali, anche mediante messa in liquidazione o cessione; b) soppressione delle società che risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti; c) eliminazione delle partecipazioni detenute in società che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre società partecipate o da enti pubblici strumentali, anche mediante operazioni di fusione o di internalizzazione delle funzioni; d) aggregazione di società di servizi pubblici locali di rilevanza economica; e) contenimento dei costi di funzionamento, anche mediante riorganizzazione degli organi amministrativi e di controllo e delle strutture aziendali, nonché attraverso la riduzione delle relative remunerazioni”.

64 Sul tema del potenziale conflitto degli interessi degli amministratori di designazione pubblica, in relazione alla sussistenza di un rapporto di dipendenza con l’ente pubblico socio, si vedano le considerazioni svolte in: A. Baudino, La nomina degli amministratori delle società a capitale pubblico e misto, in AA. VV, Governo, controllo e valutazione delle società partecipate dagli enti locali, a cura di D. Di Russo e L. Falduto, edizioni MAP, Torino, 2009, pag. 305 e ss..

65 Cfr.: S. Pozzoli, nell’intervento del 20/5/2013 pubblicato su Il Sole 24Ore.

66 In questo senso: S. Pozzoli, nell’intervento pubblicato su Il Sole 24Ore del 20/5/2013.

67 A norma dell’art. 19, comma 2, del D. Lgs. 39/2013, restano tuttavia ferme le disposizioni che prevedono il collocamento in aspettativa dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni in caso di incompatibilità.

68 In questo senso: M. Mordenti, Il sole 24Ore, 20/5/2013.