L’autonomia statutaria tra omogeneità e differenziazione

Marco Olivetti1

Nota di prova 99

1. Premessa

Nel riformare gli art. 121, 122, 123 e 126 della Costituzione, la legge costituzionale n. 1/1999 non si è limitata ad apportare alcuni emendamenti al testo originario della Carta del 1947, ma ha delineato un assetto profondamente innovativo sia della forma di governo delle regioni ordinarie, sia dello statuto, la fonte normativa deputata ad integrare e sviluppare le norme costituzionali sull’organizzazione istituzionale regionale. In tal modo, la riforma del 1999 si poneva come punto di avvio di un processo riformatore destinato a prolungarsi nella redazione dei nuovi statuti, in quanto essa rendeva necessario non un mero adattamento, ma una vera e propria “revisione totale” (per utilizzare una categoria nota al diritto costituzionale svizzero2 ed austriaco3) degli statuti del 1971.

A prima vista, in verità, una implementazione della riforma costituzionale mediante l’adozione di nuovi statuti regionali avrebbe potuto sembrare non necessaria in virtù dell’art. 5 della legge cost. n. 1/1999, in cui venne prevista una disciplina (qualificata come transitoria), molto dettagliata, finalizzata a rendere operative le principali novità contenute nella legge (in particolare l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e il c.d. meccanismo simul stabunt simul cadent) sin dalle elezioni regionali del 2000. L’assetto così delineato era dunque formalmente disorganico (dato che rendeva “monchi” gli statuti previgenti), ma sostanzialmente idoneo a funzionare: gli statuti del 1971 restavano in vigore in tutte le loro parti non abrogate dall’art. 5 della legge cost. n. 1/1999, mentre i nuovi art. 121 e ss. Cost. erano finalizzati ad orientare l’esercizio della potestà statutaria per il futuro.

Tuttavia, ad un più attento esame, si potevano ravvisare nello stesso art. 5 della legge cost. n. 1/1999 alcune indicazioni che qualificavano come provvisorio siffatto assetto e richiedevano alle Regioni – sia pur senza prevedere termini, neppure ordinatori – di dotarsi di “nuovi statuti” e di “nuove leggi elettorali” (si v. l’incipit del citato art. 5). L’apertura di una seconda stagione statutaria non era dunque per le Regioni una mera possibilità di fatto, ma un vero e proprio obbligo costituzionale: e queste ultime la intesero effettivamente così, istituendo sin dall’inizio della VII legislatura regionale (2000-2005) commissioni speciali per la preparazione dei nuovi statuti o avviando comunque procedure di revisione totale con tali finalità4.

Peraltro, i tempi della seconda stagione statutaria si sono rivelati ben più lunghi della prima, che all’inizio degli anni settanta si era conclusa in pochi mesi. Alla metà del 2012, infatti, due regioni ordinarie (le meno popolose: il Molise5 e la Basilicata6), non hanno ancora concluso il processo di redazione del nuovo statuto, mentre altre (fra le quali i “giganti” Lombardia e Veneto) hanno terminato i loro lavori solo molti anni dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale (rispettivamente nel 2008 e nel 2011).

Il percorso sinora compiuto dalla maggioranza delle Regioni – in cui si registrano ormai anche talune revisioni puntuali dei “nuovi statuti” – consente comunque una riflessione sul significato costituzionale odierno dell’autonomia statutaria, come manifestazione della più generale autonomia riconosciuta alle Regioni sin dal 1947 ed assoggettata ad un complesso restyling nel 2001. Interrogarsi oggi sul senso dell’autonomia statutaria è operazione non poco problematica: le indicazioni che provengono dalla normazione costituzionale e dall’esperienza storica compongono infatti un quadro articolato, nel quale convivono elementi di segno contraddittorio. Si tratta, del resto, di una contraddizione che non è del tutto indipendente da altre tensioni che attraversano il sistema regionale italiano e, più in generale, la “Repubblica delle autonomie”.

In queste pagine si ritiene necessario mettere anzitutto in evidenza gli elementi innovativi che la riforma costituzionale del 1999 (e, indirettamente, quella del 2001) hanno innestato sulla potestà delle regioni ordinarie di darsi uno statuto. E riprendendo le conclusioni di uno studio monografico condotto un decennio fa7, si tenterà di spiegare perché l’interpretazione più corretta del titolo V riformato nel 1999-2001 avrebbe dovuto condurre a riconoscere agli statuti la natura di costituzioni (o leggi costituzionali) substatali (par. 2-3). Verranno quindi presi sinteticamente in esame gli ostacoli all’accoglimento di una impostazione di questo tipo (par. 4), richiamando sia le scelte principali della giurisprudenza costituzionale (par. 5), sia il contesto politico-culturale in cui la seconda generazione di statuti ha visto la luce (par. 6). In conclusione si accennerà al fatto che, pur in margini assai ristretti, i nuovi statuti abbiano introdotto alcune novità la cui effettiva portata potrà essere valutata solo alla prova dell’effettività (par. 7).

2. Gli elementi “federali” contenuti nell’art. 123 Cost.: a) la regionalizzazione del procedimento di formazione

Il primo elemento di taglio squisitamente federale contenuto nella riforma del 1999 è la disciplina del procedimento di formazione degli statuti regionali. Da questo punto di vista, la discontinuità con la normativa anteriore (caratterizzata dalla deliberazione dello statuto da parte del Consiglio regionale a maggioranza assoluta e dalla successiva approvazione con legge statale) è netta, ed è riconosciuta anche da quegli autori che, in dottrina, hanno messo in evidenza soprattutto la continuità fra la potestà statutaria delineata nella Costituzione del 1947 e quella della riforma di fine secolo8.

Svincolando il procedimento di formazione dello statuto da una legge statale di approvazione e delineando per l’atto normativo fondamentale della Regione9 un procedimento destinato ad esaurirsi – con la sola eccezione della eventuale impugnazione governativa davanti alla Corte costituzionale – nell’ordinamento giuridico della Regione interessata, il nuovo art. 123 Cost. ha adottato una tecnica utilizzata in molti Stati federali per disciplinare il procedimento di formazione delle Costituzioni degli Stati membri10. Si tratta, d’altro canto, di una tecnica che non viene utilizzata da quegli ordinamenti che non intendono riconoscere ad enti territoriali substatali dotati di competenza legislativa una autonomia costituzionale: esempi di quest’ultimo tipo si trovano, oltre che nell’ordinamento italiano fino al 1999, nel sistema costituzionale spagnolo e in quello messicano per il Distretto Federale11.

Ma la comparazione fra gli statuti ordinari e le Costituzioni substatali negli Stati federali non si esaurisce in questo profilo, ed è autorizzata anche da altri elementi.

2.1. (segue): b) Un procedimento di formazione ispirato all’art. 138 Cost.

Il procedimento di formazione dello statuto ordinario (ripreso, per questo aspetto, dalla legge cost. n. 2/2001 per le leggi di governo, o leggi statutarie, delle Regioni speciali) deve poi essere analizzato anche da un punto di vista diverso da quello appena accennato: dietro alla previsione di una doppia deliberazione del Consiglio regionale a maggioranza assoluta e con un intervallo non minore di due mesi fra le due deliberazioni e alla possibilità di richiedere un referendum confermativo, su iniziativa di un quorum di elettori della Regione o di una minoranza qualificata del Consiglio regionale, è difficile non vedere la logica cui si ispira l’art. 138 Cost., che disciplina il procedimento di formazione delle leggi di revisione costituzionale12. Su questa base, non appare stravagante ipotizzare che lo statuto – il quale, d’altronde, “è approvato con legge regionale”, secondo quanto letteralmente afferma l’art. 123 Cost. – sia stato configurato come una sorta di legge costituzionale regionale, in qualche modo sovraordinata alla legge regionale “ordinaria”, che consentirebbe non solo di dare stabilità alle norme sull’organizzazione politica regionale, evitando che esse possano essere ridefinite a maggioranza semplice, dopo ogni elezione, ma anche di irrigidire – sia pure per principia – la disciplina di alcune materie, sottraendone la disponibilità al legislatore ordinario regionale. In questa prospettiva, lo statuto non incontrerebbe nelle materie di competenza regionale un limite rigido alle sue possibilità di intervento.

2.2. (segue): c) L’ambito di competenza

Ma una tonalità federale – sia pur meno chiara – è altresì ravvisabile nella utilizzazione, per indicare gli ambiti di competenza degli statuti, di due locuzioni (la “forma di governo” ed i “principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” della Regione) che hanno entrambe una portata potenzialmente generale ed una vocazione costituzionale.

La prima (“forma di governo”) perché evoca la disciplina degli organi politici di un ente territoriale (in questo caso la Regione) e dei loro rispettivi rapporti, che è solo problematicamente distinguibile da, e comunque è sistematicamente intrecciata con, la forma di Stato (in questo caso la forma di Regione, per riprendere una felice intuizione di Antonio Ruggeri)13. Si tratta, del resto, del contenuto indefettibile di ogni documento costituzionale, al punto che in alcuni ordinamenti europei il termine Regeringsform è utilizzato per designare la stessa costituzione (Svezia).

La seconda, in quanto si riferisce a quei principi che regolano l’organizzazione ed il funzionamento della Regione, autorizzando, così, oltre ad un intervento in materia di organizzazione (già consentito dal testo originario dell’art. 123, il quale ragionava di “organizzazione interna” della Regione), anche una incidenza sul funzionamento dell’ente regionale. Appare al riguardo poco plausibile sostenere che, evocando il “funzionamento” della Regione, la legge cost. n. 1 del 1999 abbia inteso riferirsi solo ad un prolungamento della dimensione organizzativa, escludendo incursioni statutarie, sia pure con la sola forma delle disposizioni di principio, nel campo delle competenze regionali, al fine di orientarne l’esercizio. Se è vero, infatti, che la nozione di “funzionamento” di organi od enti costituzionali è per lo più utilizzata in Costituzione in una accezione diversa da quella di “funzione” e di competenza, resta il fatto che tale locuzione, nel contesto dell’art. 123 apparirebbe utilizzata inutilmente se fosse intesa come riferita solo alle norme sulle procedure decisionali regionali: queste ultime, infatti, erano pacificamente ritenute incluse, prima della riforma del 1999, nella nozione di organizzazione, e dovrebbero pertanto esserlo anche ora, oltre ad essere sicuramente incluse nella nozione di forma di governo.

Fra le due clausole generali ora evocate – e fra esse e gli oggetti specifici rimessi dallo stesso art. 123 alla competenza dello statuto – vi è una indubbia, anche se parziale, sovrapposizione (proprio in quanto la forma di governo è essa stessa organizzazione e funzionamento della Regione), che è ancora più accentuata se si considera che l’art. 123 include poi, fra gli oggetti di competenza statutaria, anche altre materie di portata più ristretta (referendum e pubblicazione) che dovrebbero essere ritenute incluse in una nozione non arbitrariamente restrittiva di forma di governo e di organizzazione e funzionamento della regione. Ne segue che una interpretazione sistematica avrebbe dovuto, o quantomeno potuto, valorizzare la potenziale portata generale dello statuto14, come fonte abilitata a regolare, con norme di principio, non solo l’organizzazione politica regionale, ma, più in generale, la complessiva forma di essa. Da questo punto di vista, sembra potersi affermare che l’interpretazione sistematica dell’art. 123, 1° comma, Cost. avrebbe dovuto spingere l’interprete a leggere le due clausole in maniera combinata, e non ad utilizzare l’una come strumento di sottrazione concettuale rispetto all’altra, proprio in quanto la disposizione ora citata attribuisce allo statuto la competenza su entrambi gli oggetti (forma di governo e principi fondamentali di organizzazione e funzionamento)15. L’interpretazione sistematica, infatti, dovrebbe essere intesa come quell’approccio ai testi normativi che fa emergere, dietro alle singole disposizioni, il sistema che queste concorrono a comporre, più che come la definizione del significato di ciascuna singola disposizione (o frammento di disposizione) in coordinamento con le altre.

2.3. (segue): d) Lo statuto alla luce della competenza legislativa generale della Regione

Inoltre la ricostruzione della potestà statutaria deve essere compiuta tenendo conto non solo delle norme ad essa espressamente dedicate (relative cioè alla fonte statuto e all’organizzazione regionale), ma anche delle norme che delineano in generale l’ambito di competenza della Regione. Al riguardo, la legge cost. n. 3/2001 ha un peso decisivo: rovesciando il criterio che reggeva il riparto di competenze fra Stato e Regioni, in modo da fare di queste ultime l’ente a competenza generale (art. 117.416), e attribuendo per la prima volta alle Regioni materie di competenza c.d. “residuale”, dunque potenzialmente primaria (se non si vuole utilizzare la parola “esclusiva”, poco popolare nella dottrina italiana), ha eliminato un corposo ostacolo che, prima del 1999, aveva (a nostro avviso correttamente) indotto un autorevole filone dottrinale17 a sostenere l’illegittimità costituzionale delle disposizioni statutarie di principio. Infatti, la circostanza che le competenze regionali, prima del 2001, fossero sempre e solo concorrenti, dunque tenute sì a rispettare i principi fondamentali, ma quelli posti dalle leggi statali di cornice, privava le disposizioni statutarie di principio della possibilità di indirizzare la potestà legislativa regionale.

2.4. (segue): e) L’estraneità dello statuto alla ridefinizione del riparto di competenze

Va infine sottolineato che, anche qualora si ritenesse di dover accogliere i rilievi ora formulati per sottolineare la diversità fra l’autonomia statutaria pre-1999 e quella post-1999, un punto dovrebbe in ogni caso rimanere fermo. Il legislatore costituzionale del 1999, pur assimilando, per i profili appena visti, gli statuti regionali alle Costituzioni sub statali (o, detto in un altro modo, pur facendo di essi delle leggi costituzionali regionali, secondo uno schema noto all’ordinamento austriaco18), non ha abilitato tali fonti ad intervenire sul riparto di competenze fra la Regione e lo Stato, che resta indubitabilmente riservato alla competenza della legge costituzionale statale: il titolo V per le Regioni ordinarie, i rispettivi statuti (in combinato disposto con l’art. 10 della legge cost. 3/2001) per le Regioni speciali. Nessuna “deriva spagnola”, dunque, può essere intravista, in questa prospettiva, nell’art. 123, né nella interpretazione di esso qui prospettata19. Del resto, in nessuno Stato federale le costituzioni delle entità federative svolgono la funzione di concorrere a definire il riparto di competenze fra la federazione e gli Stati membri, che è invece riservato alla costituzione federale.

2.5. (segue): f) Il rispetto della costituzione statale e l’armonia con essa

In ogni caso, lo statuto regionale ordinario, anche se riletto nella sopra evocata prospettiva del costituzionalismo substatale, resta integralmente assoggettato alla supremazia gerarchica della Costituzione statale, che esso, in quanto legge regionale (sia pur “costituzionale” nel senso appena visto), è tenuto a “rispettare” ex art. 117.1 (clausola di supremazia) e con la quale deve essere in armonia, secondo quanto stabilito nell’art. 123 (clausola di omogeneità)20. Del resto, questa è la posizione delle Costituzioni substatali negli Stati federali, in molti dei quali la supremazia della Costituzione federale viene espressamente affermata21. L’accoglimento di una concezione costituzionale dello statuto richiede un uso accorto dei principi desumibili dalle norme sulla organizzazione costituzionale statale quale mezzo ermeneutico per colmare eventuali lacune delle disposizioni costituzionali sull’organizzazione regionale22. Qui avrebbe dovuto prevalere un approccio in parte differenziato rispetto al passato e al “culto per l’uniformità”23 che ha spesso segnato la vicenda del regionalismo italiano. La Corte costituzionale era sembrata esserne consapevole in una delle sue prime decisioni relative alle fonti regionali dopo le riforme costituzionali del 1999-2001, quando affermò, con cristallina chiarezza e con fedeltà allo spirito delle due riforme, che per lo statuto “l’autonomia è la regola, i limiti sono l’eccezione” (sent. 313/2003).

3. Alcune conseguenze della interpretazione dell’autonomia statutaria come autonomia costituzionale

Ribadito in quale (limitato) senso lo statuto ordinario potrebbe essere inteso come una sorta di “Costituzione regionale” (espressione cioè di una autonomia costituzionale, riconosciuta e garantita dalla Costituzione statale), occorre accennare ad alcune possibili conseguenze di tale qualificazione. Oltre che ad organizzare la Regione (organi, procedimenti ed atti), lo statuto sarebbe abilitato a prevedere norme di principio nelle materie di competenza regionale (o quantomeno nelle materie di competenza residuale delle regioni), esprimendo orientamenti circa il modo in cui la Regione intende esercitare le sue competenze. Inoltre lo statuto – essendo una legge regionale, sia pure approvata con un procedimento aggravato – potrebbe regolare qualsiasi oggetto non costituzionalmente sottratto alle competenze regionali, in virtù della competenza generale della legge regionale di cui all’art. 117.4 Cost. (ed in particolare qualsiasi “oggetto” avente una dimensione organizzativa).

In questa direzione, del resto, le Regioni ordinarie si erano mosse già nella prima stagione statutaria, compiutasi nel 1971 – andando da più punti di vista ben oltre il limite allora previsto all’ambito di competenza della potestà statutaria (per le ragioni accennate supra, par. 2.2.). Proprio l’esperienza della prima stagione statutaria era un dato di fatto che il legislatore costituzionale del 1999 non aveva potuto non presupporre: e pare poco ragionevole interpretare il nuovo testo dell’art. 123 Cost. come volto a restringere uno spazio che gli statuti previgenti avevano, sia pur indebitamente – ma senza contestazioni politiche o giurisprudenziali di rilievo – occupato, proprio mentre la ratio del nuovo art. 123 consisteva nell’ampliamento dell’ambito di competenza degli statuti stessi24. Del resto, malgrado la giurisprudenza costituzionale che verrà ricordata infra nel par. 5, questa è stata la strada percorsa anche dagli statuti di seconda generazione25.

Intesa in questo modo, l’autonomia statutaria poteva configurarsi come uno spazio per la differenziazione fra le Regioni, nel quadro dell’unità della Repubblica di cui all’art. 5 Cost. L’unità della Repubblica, infatti, non richiede necessariamente l’uniformità delle soluzioni organizzative e procedimentali adottate dagli enti territoriali, soprattutto da parte di quelli cui è riconosciuta competenza legislativa, vale a dire lo strumento normativo massimo per regolare – e quindi per differenziare. Un’autonomia statutaria dotata dei tratti qualitativi delineati nell’art. 123 Cost. (con la possibilità di derogare legittimamente ad una scelta compiuta in via preferenziale dal legislatore costituzionale del 1999, vale a dire l’elezione diretta del Presidente della Giunta) aveva infatti una duplice funzione: consentire a ciascuna Regione di far emergere una propria identità specifica, sia quanto ai valori di riferimento, sia quanto alle soluzioni organizzative e procedimentali più adatte alla propria realtà; aprire uno spazio per la sperimentazione, consentendo alle Regioni di ricercare soluzioni istituzionali originali, le quali potessero poi eventualmente essere estese ad altre regioni, o allo stesso livello statale.

Che nel complesso le classi politiche regionali non siano state all’altezza di questa sfida appare oggi un fatto26. Occorre però riconoscere che la loro inadeguatezza è stata esaltata da una serie di fattori, cui occorre brevemente accennare.

4. Gli elementi normativi di segno centralista

Il quadro ora delineato sarebbe infatti incompleto, ed in qualche misura unilaterale, se non fossero evocate alcune indicazioni costituzionali che muovevano in una direzione opposta a quella della configurazione dell’autonomia statutaria come autonomia costituzionale, e quindi come spazio per la differenziazione e la sperimentazione.

Uno di questi elementi riguarda il cuore stesso della competenza dello statuto, la “forma di governo” della Regione, anche se intesa in senso stretto (seguendo per un istante la dottrina maggioritaria), vale a dire come sistema di regole sui rapporti fra gli organi politici regionali. Al riguardo, infatti, la riforma costituzionale del 1999 era ispirata da una filosofia costituzionale nella quale all’autonomia regionale, con i suoi corollari di apertura alla differenziazione e alla sperimentazione di soluzioni diverse, era assegnato un ruolo nel complesso marginale (anche se, forse, non così marginale come quello che sarebbe poi risultato nell’esperienza). La legge costituzionale n. 1/1999 aveva infatti inteso imporre con efficacia immediata (vale a dire sin dalle elezioni regionali previste per la primavera del 2000) a tutte le Regioni ordinarie un sistema di governo ben preciso, caratterizzato dall’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e dalla durata dell’esecutivo da questo formato per tutta la legislatura (che sarebbe poi stato esteso a buona parte delle autonomie speciali con la legge cost. n. 2/2001). Non vi è dubbio che una scelta di tale tipo – al di là dei vantaggi e degli svantaggi di una siffatta soluzione organizzativa – non si ispirava certo alla logica di consentire la sperimentazione di soluzioni diverse. La ratio della riforma, da questo punto di vista, era quella di imporre una sorta di café para todos, per riprendere una formula utilizzata a proposito della regionalizzazione spagnola. In questa scelta vi era un aspetto almeno in parte paradossale: la forma di governo della Regione – vale a dire il suo modo di organizzarsi, non quello dello Stato, né i rapporti fra quella e questo – era determinata direttamente dal centro nelle sue linee essenziali, pur all’interno di un ordinamento ispirato – in particolare con le riforme del 1999 e del 2001 – a logiche marcatamente autonomistiche. A ciò deve aggiungersi che gli art. 121, 122 e 126 Cost. (come riformati nel 1999), nello svolgere questo compito, si sono spinti in alcuni casi a scelte di minuto dettaglio, caratterizzate da un elevata dose di rigidità: si pensi, per tutti, allo scioglimento automatico del Consiglio regionale in tutti i casi di cessazione dalla carica del Presidente della Giunta regionale (il c.d. simul stabunt, simul cadent), compresi quelli prodotti da ragioni strettamente attinenti alla persona del Presidente.

Si deve peraltro rilevare che, al di là di talune norme un po’ paradossali, il sistema aveva la sua valvola di flessibilità proprio nella potestà statutaria: quest’ultima era la sede deputata a flessibilizzare il modello, ricercando un assetto equilibrato dei rapporti fra il Consiglio regionale, la Giunta e il Presidente di quest’ultima. Con la possibilità di introdurre meccanismi ulteriori che avrebbero potuto arricchire i sistemi regionali di governo: dai Consigli delle autonomie locali alle Consulte statutarie, dai referendum regionali ad altre ed ulteriori forme di partecipazione della comunità alle scelte degli organi di governo, fino ad organi “non necessari” di vario tipo, aventi al tempo stesso la funzione di legittimare l’ente Regione e di articolare il dialogo fra essa ed i cittadini residenti sul suo territorio. Un’impresa certo non facile, in una fase storica dominata dalla crisi di legittimità della politica e dal trionfo della negazione di essa (l’antipolitica). Una strada, tuttavia, che non era impossibile percorrere e che occorre dare atto ai Consigli regionali di avere tentato di percorrere.

5. La giurisprudenza costituzionale

In questo contesto, tuttavia, potenti fattori di chiusura degli spazi di scelta costituzionalmente residuanti in capo alle Regioni si sono gradualmente, ma inesorabilmente, delineati. In questa sede ci si limiterà a ricordarne due, non senza sottolineare sin d’ora che alla radice di essi sta anzitutto un vizio culturale, che consiste in una debole cultura dell’autonomia. Questa debolezza si manifesta in due forme: nel già citato culto per l’uniformità, che ha i suoi “santuari” negli organi e negli apparati serventi dello Stato centrale, in ciascuna delle funzioni di esso: la legislazione, l’amministrazione e la giurisdizione (inclusa quella costituzionale); nella fragilità delle classi dirigenti locali, che si muovono spesso in un corto circuito fra difesa di un irresponsabile localismo (dove l’irresponsabilità sta spesso nella tendenza a esternalizzare i costi delle scelte politiche ed amministrative) e un basso livello complessivo degli attori coinvolti, nei quali spicca la tendenza all’utilizzo delle forme (e spesso delle prerogative, degradate a privilegi) costituzionali, senza che ad esse si accompagni la sostanza ed il respiro che loro corrispondono.

E’ bene ricordare alcuni aspetti del culto dell’uniformità con riferimento al suo principale santuario, la Corte costituzionale, la cui tendenza antiregionalistica si è ampiamente confermata dopo il 2002 (vale a dire da quando le riforme costituzionali del 1999 e del 2001 sono effettivamente state utilizzate come parametro di decisioni in materia di statuti e più in generale delle nuove forme dell’autonomia regionale). La giurisprudenza costituzionale ha infatti dato un contributo decisivo nella costruzione di una camicia di nesso (o, se si preferisce l’espressione di Antonio Ruggeri, un cappio alla gola27) attorno alla potestà statutaria. Nonostante la sua scarsa coerenza complessiva, si può provare a individuare alcune linee portanti.

5.1. La negazione della natura costituzionale dello statuto

La Corte si è espressa su questo punto nelle sent. n. 372, 378 e 379/2004, laddove ha escluso che la potestà statutaria possa essere equiparata ad una forma di autonomia costituzionale, sia pur sulla base di una lettura schematica (e nel complesso errata) dei dati di diritto comparato e di dottrina generale dello Stato alla luce dei quali una valutazione su questo punto dovrebbe essere formulata. Alla base della sua impostazione la Corte pone una lettura formalistica dell’art. 123, rinunciando proprio a quella interpretazione sistematica che consiste nel cogliere, oltre la lettera di una disposizione, la connessione fra le parti di essa per afferrarne il significato complessivo.

L’esclusione della natura costituzionale dello statuto ha due conseguenze: da un lato viene esclusa o fortemente ridotta l’idoneità dello statuto a porre vincoli alla legge ordinaria regionale (5.2); dall’altra l’ambito di competenza dello statuto viene inteso come circoscritto agli oggetti espressamente indicati nell’art. 123 Cost. (5.3).

5.2. Il rapporto fra statuto e legge regionale

Le sent. 372, 378 e 379/2004 hanno affermato con nettezza che gli statuti – non essendo costituzioni sub statali a competenza generale, ma fonti a competenze enumerate e specializzate – non possono contenere principi volti ad indirizzare l’esercizio delle competenze legislative nelle materie rientranti fra le attribuzioni regionali in base all’art. 117. Ove gli statuti contengano principi di questo tipo, peraltro, la conseguenza, secondo la Corte, non è l’incostituzionalità di essi, come sembrerebbe logico, ma la loro carenza di efficacia prescrittiva. Da questo punto di vista le sentenze ora citate riprendono uno spunto contenuto nella sent. n. 2/2004, la quale, con un obiter dictum in cui osservava che era forse opinabile l’efficacia giuridica delle disposizioni statutarie di principio, ha aperto la via alla lettura di queste ultime che nega ad esse ogni rilevanza giuridica, poi sviluppata – come si è detto – dalle sent. n. 372, 378 e 379/200428. Si tratta di una argomentazione assai discutibile: sarebbe stato infatti certo concepibile – anche se, a nostro avviso, non condivisibile – giungere alla conclusione della incompetenza degli statuti ordinari ad adottare disposizioni di principio, ma alla condizione di dichiararle costituzionalmente illegittime. La tesi accolta dalla Corte, secondo la quale tali disposizioni sono invece prive di efficacia giuridica, con la conseguenza che la questione della loro illegittimità costituzionale è inammissibile, appare invece un mero espediente retorico, che ha consentito alla Corte di evitare la poco plausibile conseguenza logica della impostazione da lei accolta (vale a dire l’incostituzionalità di ampie parti di tutti gli statuti appena approvati e, a fortiori, di quelli approvati nel 1971 ed ancora vigenti) e che avrebbe verosimilmente generato una rivolta delle classi politiche regionali.

Malgrado l’impostazione accolta dalla Corte, è necessario ribadire che le disposizioni contenute in un atto normativo partecipano della efficacia di tale atto e concorrono a produrre effetti giuridici, ovviamente alla condizione di essere strutturate con una idonea portata qualificatoria di fenomeni della vita. Ciò verosimilmente non accade in quelle disposizioni – un chiaro esempio delle quali può essere ravvisato nell’art. 1.2 dello statuto della Regione Puglia29 – che si limitano a descrivere fenomeni della natura o a ricordare genericamente vicende storiche: ma si dovrebbe forse giungere alla medesima conclusione qualora disposizioni di tal fatta fossero incluse in una Costituzione o in una legge statale.

La prassi e la giurisprudenza costituzionale successive hanno in parte smentito le apodittiche asserzioni della sulla carenza di efficacia normativa delle disposizioni statutarie di principio contenute nelle sent. n. 372, 378 e 379/2004, ma queste ultime sono comunque riuscite a delegittimarle e, con esse, a screditare gli statuti come atti normativi.

Fra le decisioni di segno diverso vanno comunque ricordate quelle che hanno riconosciuto allo statuto il ruolo di fonte apicale fra gli atti normativi regionali (la citata sent. n. 304/2002), e quelle, più recenti, in materia di quote rosa (sent. n. 4/2010 e sent. n. 81/2012), le quali, giustificando opzioni legislative regionali alla luce di principi statutari sulle quote (in materia che l’art. 117.7, attribuisce alla competenza della legge regionale e non dello statuto) muovono da un doppio assunto, che smentisce le sent. 372, 278 e 279/2004: che, cioè, da un lato le disposizioni statutarie di principio (in questo caso quelle in materie di quote) non siano prive di efficacia giuridica, ma idonee a produrre effetti giuridici vincolanti comportamenti futuri; e che, dall’altro, lo statuto sia una fonte idonea a vincolare il legislatore regionale a promuovere la parità di genere nella rappresentanza politica30.

Infine si può ricordare che anche le decisioni nelle quali la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di leggi elettorali regionali perché adottate prima del nuovo statuto, non si sono basate solo sulla lettera dell’art. 5 della legge cost. n. 1 del 1999, ma hanno espressamente sottolineato il “carattere fondamentale della fonte statutaria” (sent. n. 4/2010, richiamata espressamente sul punto dalla sent. n. 45/2011): la tesi estrema della carenza di efficacia normativa delle disposizioni statutarie di principio sembra essere stata silenziosamente abbandonata.

5.3. La restrizione dello spazio regolativo a disposizione dello statuto

Alla svalutazione dello statuto dal punto di vista verticale ha corrisposto una restrizione dello spazio regolativo che esso può occupare. Anche da questo punto di vista, gli spunti contenuti nelle prime sentenze successive all’entrata in vigore delle riforme del titolo V – soprattutto della sent. 313/2003, in cui la Corte si spinse ad affermare che per gli statuti l’autonomia è la regola ed i limiti sono l’eccezione – sono stati rapidamente abbandonati.

Ciò è avvenuto in primo luogo interpretando in maniera rigida il confine fra statuto e legge elettorale nella disciplina di profili attinenti sia alla forma di governo che al sistema elettorale regionale. Si pensi all’esclusione di interventi statutari in materia elettorale, in nome di una separazione rigida fra statuto e legge elettorale, anche in materie strettamente connesse alla forma di governo, come l’elezione del Presidente della Giunta (sent. 2/2004) e l’incompatibilità fra le cariche di consigliere ed assessore regionale (sent. 378/2004)31.

Ma allo stesso risultato si è giunti con una interpretazione estensiva dei vincoli imposti allo statuto dalle norme costituzionali che prevedono principi relativi al “modello standard” di forma di governo regionale. Si pensi all’incompatibilità fra elezione diretta del Presidente della Giunta e previsione nello statuto di un obbligo per il presidente eletto di richiedere un voto di fiducia al Consiglio regionale subito dopo il suo insediamento e fra la medesima elezione diretta e un voto di sfiducia con effetti vincolanti nei confronti dei singoli assessori (ancora la sent. n. 12/2006); all’interpretazione restrittiva delle possibilità di conformazione del rapporto fra Consiglio e Giunta regionale (che la sent. n. 12/2006 ha erroneamente sottratto alla logica della fiducia, per introdurre il barocco concetto di “consonanza politica”32); e prima ancora all’adozione di una nozione sostanzialistica di “elezione diretta” del Presidente della Giunta regionale, affermata nel “caso Calabria”, ad opera della mai sufficientemente esecrata sent. n. 2/2004. Ne è risultato un sistema di vincoli allo statuto, cui sembra rimessa la sola scelta fra modelli di forma di governo largamente predeterminati a livello costituzionale.

5.4. L’esaltazione dei limiti alla potestà statutaria

Anche il sistema dei limiti alla potestà statutaria è stato interpretato in maniera disordinata, in un’ottica che finisce per avere un’unica ratio intellegibile: quella di massimizzare la potestà della Corte di decidere caso per caso, as it wishes.

Il concetto di “armonia con la Costituzione” è stato la chiave di volta di questa strategia argomentativa. Mentre in alcune sentenze gli si è dato un contenuto di comodo, consistente nello “spirito della costituzione” (ad es. le sent. n. 304/2002 e 2/2004), in altre si è intesa l’armonia come obbligo di conformare le scelte degli statuti a principi previsti dalla Costituzione per l’organizzazione degli apparati dello Stato. In questa direzione la Corte si è mossa nella sent. 2/2004 e, soprattutto, nella sent. 68/2010, in cui ha desunto i principi per la regolazione della prorogatio dei Consigli regionali dalle norme sulla prorogatio delle Camere, dando peraltro una interpretazione errata di queste ultime.

Nella recente sent. n. 198/2012, poi, la Corte, pur evocando l’armonia con la Costituzione per giustificare un decreto-legge (e la relativa legge di conversione) che ha imposto limiti al numero massimo dei componenti dei consigli regionali (materia che era sino a quel momento pacificamente ritenuta di competenza esclusiva dello statuto), ha finito per resuscitare (forse inconsapevolmente) il vincolo dello statuto ad essere in armonia con le leggi della Repubblica, previsto nel testo originario dell’art. 123. Non solo: di tale (abrogato) vincolo ha dato una lettura ben più estensiva di quella a suo tempo prospettata dalla dottrina: se questa aveva tentato di circoscrivere la portata del vincolo, identificandolo con l’obbligo di rispettare le scelte contenute nelle leggi statali indicate nel titolo V, la sent. 198/2012 ha disinvoltamente ritenuto legittimi vincoli di contenuto su un oggetto palesemente rientrante nella competenza dello statuto, posti da una legge che non trova alcuna base nel titolo V, ma che la Corte ha tentato di collegare agli art. 3, 48 e 51 della Costituzione.

Più in generale la Corte, seguendo in questo la dottrina maggioritaria, ha ritenuto che lo statuto non fosse abilitato dalla Costituzione a prevedere nuovi organi regionali di governo, volti a configurare un sistema di poteri e di garanzie specifico per ciascuna Regione. Al riguardo si può citare la lettura svalutativa del ruolo che le Consulte statutarie regionali possono assumere, confinandole in una posizione di organi consultivi, o, al più di autorità amministrative, che possono adottare solo atti soggetti al ricorso ai TAR (sent. n. 372/2004, n. 12/2006 e n. 200/2008).

In generale, l’approccio della Corte alla potestà statutaria appare goal oriented. Alla Corte non interessa, in fondo, dare una lettura ordinata della fonte statuto, ma, piuttosto, le sta a cuore poter decidere caso per caso sul merito delle questioni che possono rientrare nell’ambito di competenza dello statuto. In quest’ottica lo statuto diventa di volta in volta ciò che serve che esso sia in base agli obiettivi di politica costituzionale che la Corte si propone, siano essi la salvaguardia del modello di forma di governo standard (sent. 12/2006) e dell’elezione diretta del Presidente della Regione che lo caratterizza (sent. 2/2004), le disposizioni programmatiche statutarie sulle coppie di fatto o sugli stranieri (sent. 372, 378 e 379/2004), le disposizioni in materia di quote (sent. 4/2010 e 81/2012) o l’equilibrio della finanza pubblica perseguito ponendo limiti al numero massimo dei consiglieri regionali (sent. 198/2012). Va da sé che una impostazione di questo tipo si sottrae a qualsiasi ricostruzione ordinata e anche ad una critica che voglia andare oltre la constatazione del disordine. Sulla potestà statutaria, la Corte ha dimostrato di decidere con la stessa (ir)razionalità di cui è normalmente capace il legislatore e con una logica del tutto svincolata da parametri e da aspirazioni di coerenza fra le successive decisioni da essa adottate.

6. Alcuni fattori politici e culturali che hanno impedito il consolidamento della tesi dell’autonomia statutaria come autonomia costituzionale

Oltre all’ostilità della giurisprudenza costituzionale, la potestà statutaria delle Regioni ordinarie si è dovuta misurare con altri fattori non favorevoli all’autonomia. Si tratta in primo luogo di atteggiamenti politici, condivisi, al di là delle dichiarazioni, dalla maggioranza e dall’opposizione parlamentare nazionale dell’inizio dal 2001 in poi.

La maggioranza di centro-destra, infatti, impegnata per tutta la XIV legislatura in un controverso tentativo di “riforma della riforma” del titolo V, destinato a fallire con il referendum costituzionale del 29 giugno 2006, sembrava poco propensa a valorizzare gli spazi autonomistici aperti dalle riforme del 1999-2001. E ciò non solo perché percepiva tali riforme come “non sue” (da questo punto di vista, forse, la natura non consensuale della riforma del 2001 ha retroagito su quella del 1999, che peraltro era stata adottata di comune accordo fra centro-destra e centro-sinistra, con la sola opposizione della Lega Nord), ma anche per la piuttosto ovvia ragione che – quasi come per la coalizione centrista al governo nella I legislatura repubblicana – non era certo interesse della maggioranza parlamentare valorizzare degli spazi di autonomia che si sarebbero inevitabilmente tradotti, se presi sul serio, in limiti alle sue scelte politiche.

Quanto all’opposizione di centro-sinistra, invece, essa è stata dominata da un diffuso timore per le conseguenze delle riforme che essa stessa aveva voluto quando era in maggioranza nella XIII legislatura: e questo timore ha investito anche la potestà statutaria, vista come sede di possibili rotture degli equilibri fra centro e periferia e come ambito di emersione di vulnera al c.d. federalismo solidale.

Più in generale è percepibile anche in questo ambito la profonda crisi che nella stagione attuale attraversano i partiti politici, se intesi non solo come gruppi in competizione per il potere, ma anche come luoghi di elaborazione critica di proposte di governo della società. Proprio i partiti, infatti, erano stati fra i protagonisti della stagione statutaria del 1971, riuscendo a proporsi come sedi di elaborazione di orientamenti culturali e politici che si erano poi tradotti negli spunti organizzativi e nelle disposizioni di principio inseriti negli statuti di “prima generazione”. La crisi della capacità propositiva delle forze politiche si è riflessa nel modo in cui – quasi senza bussola – i Consigli regionali hanno gestito l’elaborazione dei rispettivi statuti, oscillando fra populismi simbolici e ricorso ad aride consulenze tecniche per la redazione dei testi statutari. La lettura dei quali evidenza, pur con non poche differenze fra le varie Regioni, la mancanza di un’«anima» costituzionale33, di una visione del mondo e della funzione delle autonomie territoriali – e della Regione in particolare – in esso, che non sia ridotta a vuote declamazioni o a polemiche stucchevoli come quelle sulle “radici cristiane” delle Regioni e sul fondamento di esse nella Resistenza, che hanno avuto un certo peso nell’elaborazione degli statuti degli anni 2004-2005. In conseguenza di ciò, da quanto gli statuti dispongono è difficile individuare quel “volto” della Regione, di cui essa in passato era stata ritenuta sprovvista34.

Un elemento di ulteriore crisi va infine rintracciato nell’approccio angusto e conservatore con cui la maggioranza della dottrina costituzionalistica ha guardato alla stagione statutaria e alla forma di governo regionale. Anche se questo tema è stato oggetto di vari studi monografici35, di numerosi lavori collettanei36 (spesso esito di dotti convegni) e di innumerevoli articoli su vari profili specifici (al punto che non pare azzardato ipotizzare che l’autonomia statutaria ed i suoi contenuti siano stati il tema costituzionalistico più studiato in Italia nello scorso decennio)37, le categorie interpretative utilizzate – specie negli scritti della generazione meno giovane di studiosi – sono state per lo più dominate dalla continuità con la precedente esperienza statutaria e dal timore di incrinature negli assetti consolidati del sistema regionale italiano.

7. I residui spazi per l’autonomia statutaria

Le possibilità di scelta a disposizione degli statuti regionali sono state dunque sensibilmente (e, per lo più, inutilmente) ristrette.

Ad essi è certo spettata la scelta, loro rimessa espressamente dall’art. 122.5 Cost., fra la conferma della forma di governo con elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e con governo di legislatura e il ritorno ad un regime parlamentare, più o meno equilibrato. Non può peraltro non osservarsi che tale scelta era in fatto preclusa nel clima politico dell’ultimo decennio, favorevole “senza se e senza ma” all’elezione diretta del vertice dell’esecutivo regionale.

Privati (almeno alla luce delle sent. 372, 378 e 379/2004 della Corte costituzionale) della possibilità di indirizzare le scelte del legislatore ordinario della Regione, gli statuti ordinari non hanno certo rinunciato a costruire un sistema di principi statutari, la cui credibilità, come già si osservava, è tuttavia stata minata dalla giurisprudenza della Corte.

Gli spunti di novità ravvisabili negli statuti vanno però ricercati in altre materie, solo apparentemente di secondo piano. Pur non essendo possibile soffermarsi in questa sede su soluzioni non prive di interesse, se ne possono evocare alcune: la disciplina del sistema delle fonti regionali del diritto, in particolare della potestà regolamentare; l’organizzazione interna dei Consigli regionali (sia con la previsione di uno statuto dell’opposizione, sia con l’apertura del procedimento legislativo alla partecipazione delle associazioni, prevista dall’art. 19 dello Statuto dell’Emilia-Romagna e dall’art. 8 dello Statuto della Lombardia); i rapporti esterni delle Regioni, inclusi quelli con l’Unione europea (per i quali, peraltro, presentano maggiore interesse le leggi regionali ordinarie adottate dopo gli statuti); la disciplina dei numerosi organi consultivi e di partecipazione; i Consigli delle autonomie locali; le Consulte statutarie, per quanto confinate in un ruolo meramente consultivo, soprattutto a causa di un approccio culturale motivato unicamente da una mentalità centralista, in questo caso imperniata su una aprioristica fiducia nel ruolo degli organi giurisdizionali statali; qualche spunto in materia di referendum, almeno negli statuti di Toscana, Lazio e Campania. Non mancano neppure spunti di qualche interesse in materia di diritti, di cui un esempio può essere l’art. 2.2, seconda frase, dello statuto veneto, che recita: “la regione garantisce a ciascun individuo il diritto al minimo vitale giornaliero d’acqua quale diritto alla vita”.

In questi ambiti, la sperimentazione di soluzioni normative innovative può rivelarsi utile, ma solo se i nuovi istituti si rivelano significativi attraverso la loro implementazione nella prassi, circa la quale gli elementi per ora disponibili per una valutazione sono insufficienti. Ove da questo tipo di istituti emergano contributi al miglioramento della governance delle regioni (o di alcune di esse), ne potrebbe derivare un utile supplemento di legittimazione per gli enti regionali. Questi ultimi, infatti, non sembrano sfuggire alla crisi di credibilità che affligge la democrazia rappresentativa italiana e i soggetti organizzati operanti in essa. E la situazione di ristrettezza economica generata dalla crisi dell’euro ha prodotto un assetto di potere (di cui è espressione il governo Monti) che non pare particolarmente amichevole verso le autonomie territoriali (così come verso quelle sociali). Solo istituzioni funzionali e legittimate da un vasto consenso sociale – capaci di andare oltre la cultura del maggioritario muscolare che ha caratterizzato gli ultimi venti anni, senza rimanere vittima di assetti consociativi – possono permettere alle Regioni di uscire dalla crisi ritrovando un ruolo, un volto, una identità.

1. Professore ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Foggia. Il testo riproduce la relazione svolta al Convegno L’affermazione dell’autonomia: federalismo, unità, regioni, svoltosi a Torino il 13 maggio 2011, ma è stato aggiornato al 30 agosto 2012.

 

2. Art. 193 Cost. della Svizzera del 2000 (Totalrevision).

 

3. Art. 44.3 Cost. dell’Austria del 1920 (Gesamtänderung).

 

4. Al riguardo cf. I. Carlotto, Il procedimento di formazione degli Statuti delle Regioni ordinarie, Cedam, Padova, 2007, p. 14 ss.

 

5. In questa regione il percorso finalizzato alla redazione dello statuto ha raggiunto livelli quasi comici di contorsionismo istituzionale: se ne v. una ricostruzione critica in D. Coduti, L’interminabile, travagliato e assai preoccupante processo statutario molisano, in Rivista AIC, 4.7.2012.

 

6. Il 14 dicembre 2011 la I commissione permanente del Consiglio regionale della Basilicata ha approvato all’unanimità un “Documento programmatico per lo Statuto”, che dovrebbe costituire la base dei lavori attraverso cui il nuovo statuto dovrebbe essere approvato entro il 2012.

 

7. Cf. il mio Nuovi statuti e forma di governo delle Regioni, Il Mulino/AREL, Bologna-Roma, 2002.

 

8. Si v. A. D’Atena, I nuovi Statuti regionali ed i loro contenuti programmatici, in Le Regioni, 2007, n. 3-4, p. 399.

 

9. Questa posizione dello statuto risulta dalla sent. 304/2002, ove si sottolinea “l’attribuzione allo statuto di un valore giuridico che lo colloca al vertice delle fonti regionali” (p.to 1 del cons. in diritto).

 

10. Per un panorama di questi procedimenti rinvio al mio Nuovi statuti, cit., p. 38 ss.

 

11. Si deve peraltro riconoscere che non mancano neppure casi di Stati federali nei quali gli Stati membri non godono di vera e propria autonomia costituzionale: è questo il caso di alcune ex colonie britanniche (si pensi ad es. alle Province canadesi e agli Stati membri dell’Unione indiana) e del Belgio.

 

12. Il parallelo con l’art. 138 è sottolineato nella sent. 304/2002 della Corte cost. G. D’Alessandro, I nuovi statuti delle Regioni ordinarie, Cedam, Padova, 2008, p. 49, sottolinea peraltro anche l’analogia col procedimento di formazione degli statuti provinciali e comunali.

 

13. A. Ruggeri, La forma di governo della Regione Calabria: il modello statutario, le alterazioni, i possibili rimedi, in Le Regioni, 1991, n. 6, p. 1577-1607. Il diritto comparato offre qualche interessante spunto per argomentare una lettura estensiva del concetto di “forma di governo” (si v. di nuovo il mio Nuovi statuti,cit., p. 130 ss.).

 

14. Di una portata generale dello statuto avevano ragionato già alcuni fra i primi interpreti dell’art. 123 Cost., testo originario. Balladore Pallieri aveva infatti osservato che «lo statuto può certo regolare altre materie oltre quelle espressamente deferite alla sua competenza dall’art. 123. Anzi questo articolo non ha lo scopo di attribuirgli competenza e di lasciarlo libero di provvedere rispetto a date materie: ha invece lo scopo opposto di comandare che rispetto a queste lo statuto obbligatoriamente disponga. L’articolo presuppone la generale autonomia della regione riguardo al proprio statuto e vi apporta un determinato limite. L’autonomia della regione, insomma, per quanto riguarda lo statuto, non risulta dall’anzidetta disposizione contenuta nella seconda parte del primo comma dell’art. 123, ma risulta dalla prima parte dell’art. 123, e sussiste in modo generale, per ogni materia, salvo i limiti risultanti dalla costituzione, quale appunto quello contenuto nell’altra disposizione dell’art. 123» (G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, VIII ed., Giuffrè, Milano, 1965, p. 359).

 

15. Non pare dunque condivisibile la critica rivolta da A. D’Atena, I nuovi statuti regionali e i loro contenuti programmatici, cit., p. 400, nt. 1, alla ricostruzione che viene ripresa nel testo, e proprio in nome dell’interpretazione sistematica cui questo autore si richiama.

Coglie appropriatamente la sostanza della questione G. Tarli Barbieri, La sent. 188/2011 della Corte costituzionale: un altro tassello nella ricostruzione dei rapporti tra Statuto ordinario e legge elettorale regionale, in Le Regioni, 2012 (p. 9 del testo anticipato su www.forumcostituzionale.it).

Alcune obiezioni simili a quelle accennate nel testo mi pare possano essere rivolte alle critiche formulate alle tesi ora riproposte in questo testo da F. Ghera, Lo statuto regionale ordinario: contenuti, funzione e posizione nel sistema delle fonti del diritto, in J.M. Castellà Andreu, M. Olivetti (a cura di), Nuevos Estatutos y reforma del Estado, Atelier, Barcellona, 2009, p. 85 ss., il quale, avvalendosi di una serie di argomenti non certo privi di pregio, ma – ciascuno preso in sé – tutti agevolmente rovesciabili, finisce per “decostruire” la portata della riforma costituzionale del 1999 e per aderire alla lettura dello statuto regionale come atto in qualche modo interstiziale, chiamato ad operare una serie di scelte puntuali sull’organizzazione regionale (uno statuto “spezzatino”, insomma, se è consentita una metafora culinaria). In tal modo, facendo leva su alcune contraddizioni della riforma del 1999 (e di quella del 2001) e svalutando buona parte degli elementi di novità in base a chiavi di lettura costruite sulla base del testo costituzionale anteriore alla riforma, viene smarrita la ratio dello statuto come atto normativo, specie alla luce del titolo V della parte II come riformato nel 2001 e del diritto comparato, che costituisce un ausilio prezioso per evitare interpretazioni “autistiche” del testo costituzionale, unicamente basate sull’analisi delle singole disposizioni e delle connessioni fra esse, senza considerare adeguatamente l’insieme. Che poi la ratio ora ricordata (l’avvicinamento dell’ordinamento italiano ai federalismi europei) sia andata perduta nel corso del decennio intercorso dalle riforme costituzionali del 1999-2001 ad oggi, dipende anche dalla costruzione di una serie di camicie di nesso che svuotano di senso le tecniche utilizzate per valorizzare l’autonomia regionale nel quadro dell’unità della Repubblica.

 

16. Si tratta forse (assieme all’art. 31.1. Cost.) della più disattesa fra le disposizioni contenute nella Carta costituzionale: essa è usualmente assoggettata ad una sorta di interpretazione abrogativa.

 

17. A. D’Atena, Forma e contenuto degli statuti regionali ordinari, in Scritti in onore di V. Crisafulli, Cedam, Padova, 1985, p. 217 ss., ora in Id., Costituzione e Regioni, Giuffrè, Milano, 1990, p. 100.

 

18. Si v. F. Koja, Das Verfassungsrecht der österreichischen Bundesländer, Springer, Wien, 1967 (nonché la II ed., 1988).

 

19. Com’è noto, nell’ordinamento costituzionale spagnolo lo statuto è la sede in cui viene effettivamente precisato il riparto di competenze fra lo Stato e la singola Comunità autonoma, delineato solo in via generale dalla Costituzione. Proprio per questa ragione, però, lo statuto si perfeziona solo con l’approvazione sia del parlamento regionale sia di quello statale. Si v. al riguardo C. Aguado Renedo, El estatuto de autonomía y su posición en el ordenamiento jurídico, Centro de Estudios constitucionales, Madrid, 2000; J.M.ª Castellà Andreu, La función constitucional del Estatuto de Autonomía de Cataluña, Institut d’Estudis Autonomics, Barcelona, 2004.

 

20. Per la motivazione di questa distinzione v. nuovamente il mio Nuovi Statuti e forma di governo delle Regioni, cit., p. 153 ss.

 

21. Si v. ad es. l’art. VI-2 della Costituzione degli Stati Uniti e l’art. 133 della Costituzione messicana.

 

22. Un esempio di un uso poco avveduto si può vedere nella sent. n. 68/2010, la quale ha desunto i principi sulla prorogatio degli organi regionali dalla disciplina della prorogatio delle Camere (dando oltretutto una lettura errata di quest’ultima).

 

23. Per questa formula si v. C. Pinelli, Del culto per l’uniformità in Italia. Il caso della finanza regionale, in Studi in onore di M. Mazziotti di Celso, II, Cedam, Padova, 1995, ora in Id., Mercati, amministrazioni e autonomie territoriali, Giappichelli, Torino, 1999, 113-131.

 

24. Da questo punto di vista, una interpretazione storica dell’art. 123 dovrebbe presupporre che il legislatore di revisione, nell’intento di ampliare l’ambito di competenza statutaria, non abbia inteso restringerlo rispetto al modo in cui esso era stata interpretato nella realtà costituzionale. Si v. inoltre le critiche rivolte alla posizione della Corte costituzionale da F. Ghera, Lo statuto, cit., p. 93-94.

 

25. Per questa definizione v. R. Bifulco (a cura di), Gli statuti di seconda generazione, Giappichelli, Torino, 2006.

 

26. …di cui costituiscono l’ultima conferma le notizie di stampa del settembre 2012, relative in particolare al Consiglio della Regione Lazio ed alle spese ingiustificate (oltre a ipotesi di reati di peculato) ivi sostenute.

 

27. A. Ruggeri, Il cappio alla gola degli statuti regionali, in Forum di quaderni costituzionali (nota alla sent. 12/2006), ora in Id., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, X – Studi dell’anno 2006, Giappichelli, Torino, 2007, p. 67-88.

 

28. Simmetricamente, si pensi alla giurisprudenza che ha dato una interpretazione rigida del riparto di competenze fra statuto e legge regionale di cui all’art. 122, 1° co., Cost., frammentando di conseguenza la relativa disciplina, si segnala il filone giurisprudenziale che ha tentato di proteggere la competenza statutaria da una occupazione della materia dell’organizzazione regionale ad opera di leggi regionali “ordinarie”: sent. 196/2003, 188/2007, 201/2008. Peraltro questo filone – pur anch’esso animato da scarso spirito autonomistico – pare fornito di qualche giustificazione in più rispetto alla restante giurisprudenza sugli statuti, citata nel testo.

 

29. Il cui testo – spesso citato come esempio di inconsistenza – è il seguente: “La Puglia, per la storia plurisecolare di culture, religiosità, cristianità e laboriosità delle popolazioni che la abitano e per il carattere aperto e solare del suo territorio proteso sul mare, è ponte dell’Europa verso le genti del Levante e del Mediterraneo negli scambi culturali, economici e nelle azioni di pace”.

 

30. In una prospettiva diversa da quella ora ricordata si muovono invece quelle sentenze della Corte costituzionale che traggono conseguenze forti dalla separazione fra legge e statuto, ritenendo che alcune scelte in materia organizzativa siano riservate allo statuto, e pertanto precluse alla legge regionale (sent. n. 196/2003, in materia di prorogatio del Consiglio regionale; sent. 201/2008 per la disciplina del Sottosegretario alla Presidenza, che la Regione Molise aveva istituito con legge) e in particolare quelle relative alla determinazione del numero dei consiglieri regionali. Un ritorno in questa direzione si può intravedere in alcune recenti decisioni.

 

31. Su questo punto v. anche le critiche di G. Tarli Barbieri, Ancora una sentenza della Corte costituzionale su una legge elettorale intervenuta prima dello statuto: la Corte “interpreta” i propri precedenti o li rettifica?, in Giur. Cost., 2011, 635-636. Il punto più estremo cui si è spinta la giurisprudenza costituzionale nella frammentazione della potestà statutaria sta forse nel seguente passaggio della sent. 378/2004, che sta alla base della dichiarazione di incostituzionalità dello statuto umbro: “E’ vero che le scelte in tema di incompatibilità fra incarico di componente della Giunta regionale e di consigliere regionale possono essere originate da opzioni statutarie in tema di forma di governo della Regione, ma – come questa Corte ha già affermato in relazione ad altra delibera statutaria regionale nella sentenza n. 2 del 2004 – occorre rilevare che il riconoscimento nell’articolo 123 della Costituzione del potere statutario in tema di forma di governo regionale è accompagnato dalla previsione dell’articolo 122 della Costituzione, e che quindi la disciplina dei particolari oggetti cui si riferisce l’articolo 122 sfugge alle determinazioni lasciate all’autonomia statutaria”. In questi passaggi, la Corte ignora il senso della potestà statutaria e si perde in un vuoto formalismo.

 

32. Al quale dovrebbe applicarsi il rasoio di Occam: entia non sunt moltiplicanda sine necessitate.

 

33. All’opposto, in qualche modo, degli statuti delle Comunità autonome spagnole, di cui si è detto che hanno «alma de Constitución y cuerpo de reglamento».

 

34. G. Amato, Intervento, in Dibattito sul trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni di diritto comune, in Giurisprudenza costituzionale, 1971, 485.

 

35. Senza pretesa di completezza, si v. Q. Camerlengo, Le fonti regionali del diritto in trasformazione. Considerazioni in margine alla l. cost. 22 novembre 1999, n. 1, Giuffrè, Milano, 2000; M. Olivetti, Nuovi statuti, cit.; I. Carlotto, Il procedimento di formazione, cit.; A. Cardone, La “terza via” al giudizio di legittimità costituzionale. Contributo allo studio del controllo di costituzionalità degli statuti regionali, Giuffrè, Milano, 2007; G. D’Alessandro, I nuovi statuti, cit.; A. Buratti, Rappresentanza e responsabilità politica nella forma di governo regionale, Jovene editore, Napoli, 2010; S. Catalano, La “presunzione di consonanza”. Esecutivo e Consiglio nelle Regioni a statuto ordinario, Giuffrè Editore, Milano, 2010; N. Maccabiani, Codeterminare senza controllare. La via futura delle Assemblee regionali, Giuffrè, Milano, 2010; N. Viceconte, La forma di governo nelle regioni ad autonomia ordinaria. Il parlamentarismo iper-razionalizzato e l’autonomia statutaria, Jovene editore, Napoli, 2010; M. Rubechi, La forma di governo regionale fra regole e decisioni, Aracne, Roma, 2010.

 

36. Fra gli altri v. A. Ferrara (a cura di), Verso la fase costituente delle Regioni? Problemi di interpretazione della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, Giuffrè, Milano, 2001; M. Carli (a cura di), Il ruolo delle assemblee elettive. Vol. I-III, Giappichelli, Torino, 2001; A. Ruggeri, G. Silvestri (a cura di), Le fonti di diritto regionale alla ricerca di una nuova identità. Seminario di Messina, 6 aprile 2001, Giuffrè, Milano, 2001; P. Caretti (a cura di), Osservatorio sulle fonti 2007. La qualità della regolazione, G. Giappichelli Editore, Torino, 2009; M. Carli, G. Carpani, A. Siniscalchi (a cura di), I nuovi statuti delle regioni ordinarie. Problemi e prospettive, Il Mulino, Bologna, 2006; D’Atena A. (a cura di), I nuovi Statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, Giuffré, Milano, 2008.

 

37. Si ricordino anche i commenti agli articoli della Costituzione sull’autonomia statutaria e sull’organizzazione regionale pubblicati nei Commentari alla costituzione editi in questo periodo o negli aggiornamenti di commentari anteriori e ai volumi di commento ai singoli articoli degli statuti: P. Caretti, M. Carli, E. Rossi (a cura di), Statuto della Regione Toscana. Commentario, Giappichelli, Torino, 2005; F. Pizzetti, A.M. Poggi (a cura di), Commento allo statuto della Regione Piemonte, Giappichelli, Torino, 2007; S. Troilo, M. Gorlani (a cura di), Il nuovo statuto d’autonomia della Regione Lombardia: Prime riflessioni, Atti del seminario del 26 settembre 2008, Giuffrè Editore, Milano, 2009.