La proposta di differenziazione della Regione Piemonte attualmente in discussione: motivazioni, contenuti principali, rapporto con le richieste di altre Regioni

Giorgio Sobrino[1]

Come molte altre Regioni italiane, la Regione Piemonte nel 2018 ha avviato il percorso volto ad ottenere «forme e condizioni particolari di autonomia», ai sensi dell’art. 116 comma 3 Cost. (D.G.R. del 10.1.2018, finalizzata all’avvio del confronto con il Governo Gentiloni; nell’attuale Legislatura, delibera del Consiglio regionale del 6.11.2018, con allegato «Documento di indirizzo» contenente le motivazioni e le proposte specifiche di attribuzione di forme ulteriori di autonomia). La proposta del Piemonte si basa sulle specificità del contesto socioeconomico e territoriale/istituzionale piemontese, caratterizzati in particolare – rispettivamente – da un sistema produttivo solido, ma denunciato come in difficoltà «nello sviluppare processi di investimento innovativi diffusi nel territorio», e da una ripresa della crescita del reddito medio delle famiglie e del mercato del lavoro, inferiore però sia alla media nazionale che a quella delle altre Regioni del Nord; e da un elevato numero e dispersione dei Comuni – soprattutto nelle zone di montagna –, all’interno di un territorio assai vasto (il secondo regionale per estensione dopo la Sicilia). Dal punto di vista del contenuto, il «Documento di indirizzo» approvato dal Consiglio regionale si presenta assai articolato: la Regione chiede forme e condizioni ulteriori di autonomia in numerose materie, alcune delle quali di particolare rilievo (per esempio il governo del territorio, le infrastrutture, i beni paesaggistici e culturali, l’istruzione, la sanità, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, l’ambiente); e prospetta – a seconda dei casi – l’attribuzione di maggiori competenze legislative, o amministrative, o entrambe. La proposta, peraltro, non affronta esplicitamente il problema del trasferimento dallo Stato alla Regione delle risorse necessarie per svolgere le maggiori funzioni richieste, che è attualmente al centro del dibattito politico in relazione alle analoghe richieste di “differenziazione” presentate dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia- Romagna ed oggi in stadio più avanzato di trattazione.    

Il presente contributo esamina le motivazioni ed i contenuti principali della proposta di “differenziazione” del Piemonte, evidenziandone alcuni aspetti problematici, e, nel paragrafo finale, esprime una valutazione sul rapporto tra questa proposta e le richieste delle altre Regioni sopra indicate e sul “segno” che il Piemonte sembra voler imprimere al “suo” regionalismo, tra i diversi possibili modelli. 

Sommario: 1. Il progetto della Regione Piemonte nel quadro dell’attuale “corsa” verso il regionalismo differenziato. 2. La «situazione regionale di contesto» descritta nella proposta approvata dal Consiglio regionale ed i criteri di individuazione delle richieste di maggiore autonomia. 3. Le materie oggetto delle richieste di “differenziazione” ed i principali contenuti di tali richieste. 4. Osservazioni finali: il rapporto tra la proposta della Regione Piemonte e le richieste di “differenziazione” di altre Regioni; l’inquadramento di tale proposta tra i diversi modelli possibili di “differenziazione”.

 

1. Il progetto della Regione Piemonte nel quadro dell’attuale “corsa” verso il regionalismo differenziato.

Come molte altre Regioni[2], tra la fine della passata Legislatura e l’inizio dell’attuale il Piemonte ha presentato una proposta volta ad ottenere delle «forme e condizioni particolari di autonomia» – con riferimento a svariate materie –, ai sensi dell’art. 116 comma terzo Cost. (che, come è noto, ha introdotto nel 2001 il c.d. regionalismo differenziato).

Più precisamente, il 10 gennaio 2018 la Giunta regionale ha approvato un documento contenente i «primi indirizzi … per l’avvio del confronto con il Governo finalizzato – appunto – all’acquisizione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» (D.G.R. n. 1 – 6323[3]). Su questa base la Regione ha intrapreso dei colloqui con il Governo Gentiloni, senza però arrivare, prima della fine della Legislatura, a concludere un accordo «preliminare» – alla stipula dell’«intesa» prevista dalla norma costituzionale citata –, come invece hanno fatto le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia- Romagna[4]. La proposta di differenziazione piemontese è stata poi presentata al nuovo Esecutivo insediatosi dopo le elezioni del 4 marzo 2018, in forma questa volta di Delibera del Consiglio regionale, con allegato un corposo «Documento di indirizzo» (D.C.R. 6 novembre 2018, n. 319 – 38783[5]). Tale documento – dopo un’ampia premessa dedicata alla descrizione della «situazione regionale di contesto» che, ad avviso della Regione stessa, giustifica le richieste di maggiore autonomia –, enuncia i criteri in base a cui la Regione ha individuato le materie nelle quali avanzare tali richieste e, per ciascuna materia, le specifiche richieste avanzate[6].

La proposta della Regione Piemonte si presenta ampia ed articolata, dal punto di vista del contenuto[7] e delle sue conseguenti potenziali ricadute: pare quindi opportuno darne conto in questa sede, almeno nei suoi aspetti principali. Allo stato attuale, la proposta è in fase di discussione nel “tavolo tecnico” tra (tutte) le Regioni ed il Governo, istituito presso il Dipartimento per gli Affari regionali, nel quale si sta procedendo all’esame congiunto delle diverse richieste di “differenziazione”. Il percorso avviato – secondo le intenzioni dichiarate dall’Esecutivo – dovrebbe portare all’adozione di un «accordo preliminare» e, successivamente, di una vera e propria «intesa» tra lo Stato e la Regione (da sottoporre poi all’approvazione del Parlamento), analogamente a quanto sta già avvenendo per le prime tre Regioni sopra citate[8].

Nonostante il c.d. contratto di governo esprima grande favore per l’attuazione del regionalismo differenziato[9], ci sono però numerose “incognite” sulla conclusione di questo percorso: di natura politica, in primo luogo[10] – ci si chiede se la maggioranza si dimostrerà compatta nel perseguire un obiettivo che risponde alle aspirazioni di una sola delle forze che la compongono: la Lega –, ma anche di ordine strettamente giuridico – in proposito vengono sollevate dalla dottrina serie critiche nei confronti della procedura che il Governo sta seguendo, in mancanza di una legge di attuazione dell’art. 116 comma 3 Cost.[11] –. Sullo sfondo di queste questioni, poi (e da un punto di vista più generale), ci si interroga sulla direzione complessiva che potrebbe prendere il regionalismo italiano, qualora le numerose proposte di “differenziazione” attualmente in discussione vengano effettivamente accolte. A questo riguardo, si contrappongono le tesi di chi sostiene (o quantomeno paventa) che l’attuazione del regionalismo differenziato – come oggi proposto dalle Regioni, soprattutto del Nord – comporterà un allentamento del vincolo di solidarietà tra gli Enti territoriali della Repubblica, o addirittura la messa in discussione del principio di unità/indivisibilità; e dall’altro lato, di chi ritiene che il processo in atto rappresenti invece un’evoluzione positiva del regionalismo italiano, valorizzando le specificità dei territori e dunque il principio di autonomia all’interno del quadro costituzionale[12].

In questo contesto generale, il presente contributo intende descrivere, innanzitutto, il contenuto della proposta della Regione Piemonte – nelle sue motivazioni, materie e richieste specifiche –, evidenziandone altresì alcuni aspetti problematici. In secondo luogo (ed in sede conclusiva), ci si propone di esprimere qualche considerazione sul rapporto tra le richieste di “differenziazione” piemontesi e quelle di altre Regioni (sopra ricordate) e – correlativamente – sul “segno” che il Piemonte sembra voler imprimere al “suo” regionalismo, nell’attuale quadro costituzionale ed ordinamentale.

 

2. La «situazione regionale di contesto» descritta nella proposta approvata dal Consiglio regionale ed i criteri di individuazione delle richieste di maggiore autonomia.

Come si è visto sopra, il «Documento di indirizzo» approvato dal Consiglio regionale inizia con la descrizione – per il vero abbastanza estesa[13] – di quella che viene definita la «situazione regionale di contesto» del Piemonte. In particolare, sono oggetto di trattazione il «contesto economico e sociale» della Regione (§ 1 di questa parte del Documento); il «profilo demografico» (§ 2); il «profilo istituzionale» (§ 3).

Stando a quanto si legge a pagina 2 del Documento, tale descrizione dovrebbe far emergere le «motivazioni delle accresciute competenze legislative ed amministrative richieste» dalla Regione, nelle diverse materie. In realtà, se si confrontano i dati (ed i problemi) esposti in questa parte del Documento con le specifiche richieste (di maggiore autonomia) formulate nella seconda parte, il collegamento è spesso labile e non evidente. Salvo che per alcuni ambiti – per esempio, le proposte in tema di organizzazione del servizio sanitario (e delle relative politiche)[14] e di coordinamento della finanza pubblica (con riguardo in particolare alla disciplina del c.d. Patto regionale di stabilità)[15] –, la prima parte del «Documento di indirizzo» appare quindi una – pur interessante – “presentazione generale” della Regione Piemonte oggi, che funge da semplice premessa alle richieste di «forme e condizioni particolari di autonomia» esposte in seguito.      

Esaminando comunque questi dati «di contesto» nei loro aspetti salienti, emerge in primo luogo – quanto al «contesto economico e sociale» regionale – la presenza di un sistema produttivo solido, ma denunciato come in difficoltà «nello sviluppare processi di investimento innovativi diffusi nel territorio», oggi indispensabili per affrontare la competizione globale[16]. Dopo il periodo più duro della crisi economica, dal 2014/2015 sia il mercato del lavoro che il reddito medio dei residenti nella Regione sono in crescita, ma il primo in misura inferiore alla media nazionale ed anche a quella delle altre Regioni del Nord[17] (pesa, in particolare, la flessione del settore edilizio, mentre ha un impatto altamente positivo quello dei servizi); il reddito a discapito dell’uguaglianza, essendo aumentata (sia pure in modo non elevato) la quota di popolazione che vive in famiglie definite «a basso reddito»[18].

Per quanto riguarda l’aspetto demografico, il «Documento di indirizzo» evidenzia due fenomeni preoccupanti (anche) dal punto di vista della programmazione delle politiche regionali. Da un lato, la diminuzione costante della popolazione piemontese (anche in questo caso con un trend negativo rispetto alle stesse Regioni del Nord[19]): dal 2010 al 2017 il saldo passivo è pari a 81.500 abitanti su un totale di 4.457.335, e solo nel 2017 la flessione è stata di 16.661 abitanti (- 3,8 per mille), con un numero di nascite inferiore rispetto ai decessi (c.d. saldo naturale) di 22.711 unità. Dall’altro lato, si registra la tendenza all’invecchiamento della popolazione residente: sebbene la c.d. speranza di vita alla nascita risulti minore della media nazionale (seppure di poco: 82,5 anni contro 82,7 nel 2017) e – ancora – di quella di altre Regioni settentrionali (in Lombardia è pari a 83,2 anni, in Veneto a 83,4; in Trentino- Alto Adige addirittura a 83,8), il Piemonte è attualmente la terza Regione “più vecchia” d’Italia dopo la Liguria ed il Friuli- Venezia Giulia, con un’età media di 46,8 anni (la media nazionale è 45,5 anni). La percentuale di abitanti “over 65” è del 25,3%[20] (mentre in Italia complessivamente è del 22,6%) e, stando alle previsioni statistiche, è destinata a salire ben al 34,5% nel 2045[21].

Con riferimento, infine, al «profilo istituzionale», il Documento del Consiglio regionale si sofferma principalmente sull’elevato numero e “dispersione” dei Comuni (1.197 in tutto, di cui – si noti – quasi il 90% con una popolazione inferiore a 5.000 abitanti e oltre la metà – 594 Comuni – inferiore addirittura a 1.000 abitanti[22]), all’interno tra l’altro di un territorio assai vasto (il Piemonte è la seconda Regione più estesa d’Italia dopo la Sicilia). Questi dati – già di per sé significativi – assumono un rilievo del tutto particolare se si prendono in considerazione le zone di montagna. A fronte infatti di una superficie montana che occupa il 51,6% del territorio regionale complessivo (con un’intera Provincia tra l’altro – il Verbano- Cusio- Ossola – che ai sensi della legislazione statale vigente è una delle tre Province italiane riconosciute come «montane»[23]), ben 519 Comuni piemontesi – quasi la metà – si trovano in zone di montagna, e addirittura 117 al di sopra dei 2.500 metri di altitudine. Oltre 660.000 persone – pari al 15,3% della popolazione totale piemontese – vivono nei Comuni montani, e quasi tutti questi Comuni (per l’esattezza il 93%) sono al di sotto dei 5.000 abitanti[24]. In definitiva: «più dei tre quarti della superficie piemontese insiste sui territori di piccoli comuni e prevalentemente su aree montane»[25].

Dopo l’esposizione della situazione regionale di cui sopra, il «Documento di indirizzo» in esame dà conto dei «criteri» generali in base a cui la Regione ha scelto le materie nelle quali richiedere le «forme e condizioni particolari di autonomia» ex art. 116 comma 3 Cost. Essi sono: 1) la «funzionalità» delle materie «rispetto alle scelte strategiche per lo sviluppo economico e territoriale che la Regione intende perseguire»; 2) la «riunificazione» delle competenze relative ad alcune materie oggi attribuite soltanto in parte alla potestà legislativa regionale; 3) la semplificazione nel rapporto tra Pubblica Amministrazione e cittadini e imprese; 4) l’«individuazione di specificità [nella] programmazione ed erogazione di servizi», con riferimento in particolare al «contesto demografico»[26].

Come è stato osservato in dottrina[27], tali «criteri», nel loro insieme, inducono a ritenere che la proposta della Regione Piemonte – a differenza di quelle presentate da altre Regioni[28] – non sia animata dall’intento di rivendicare una maggiore autonomia «come valore in sé, ma [piuttosto] come occasione di messa a punto e perfezionamento del proprio “strumentario” di governo» attuale.

 

3. Le materie oggetto delle richieste di “differenziazione” ed i principali contenuti di tali richieste.

Venendo ora alle singole materie oggetto delle richieste di “differenziazione” piemontesi, ed appunto alle rispettive specifiche richieste – che costituiscono il “cuore” del «Documento di indirizzo» oggetto di analisi –, occorre evidenziare innanzitutto che la Regione (a) chiede «forme e condizioni particolari di autonomia» in ben nove materie oggi di legislazione concorrente (governo del territorio, valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, protezione civile, infrastrutture, tutela del lavoro, istruzione, tutela della salute, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, rapporti internazionali e con l’Unione Europea) e in due di legislazione esclusiva statale (tutela dell’ambiente e dei beni «paesaggistici» e culturali)[29]; e (b) che tali richieste mirano all’attribuzione in capo alla Regione stessa ora di una maggiore autonomia legislativa, ora di autonomia amministrativa, ed in diversi casi di entrambe[30].

Esaminando i principali contenuti delle richieste in parola (anche al fine di segnalare, come si è accennato sopra, alcuni aspetti che paiono problematici nella formulazione della proposta regionale), si può muovere dalla materia della tutela dell’ambiente, oggi di potestà esclusiva statale e trattata in due punti diversi del Documento del Consiglio regionale (lettera a) – «beni paesaggistici»[31], e lettera f) – ambiente in senso proprio[32]). In questa materia la Regione Piemonte propone in primo luogo – ed in via generale – di «applicare standard di tutela ambientale diversi da quelli fissati in ambito nazionale», qualora ciò risponda ad esigenze di «specificità di tutela locali» (per esempio in ragione di differenze geografiche tra i territori)[33]. Il Documento regionale non precisa, peraltro, se tale differenziazione di tutela possa essere solo “in melius” – tutela più elevata (com’è ragionevole attendersi, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale in materia) – o anche “in peius” – tutela inferiore – rispetto alla normativa statale; non è quindi agevole valutare la reale innovatività della proposta rispetto all’attuale assetto.

In secondo luogo (e più nello specifico), la Regione chiede l’attribuzione della potestà legislativa in ordine alla «semplificazione dei procedimenti in materia ambientale» e, in particolare, alla disciplina delle «modalità con cui piani e progetti devono essere sottoposti a VAS/VIA in base alla [loro] contestualizzazione territoriale» (sempre in nome delle esigenze di differenziazione/specificità della tutela). A queste richieste si accompagna la rivendicazione – che per il vero suscita molte perplessità, in relazione alla necessità di una gestione unitaria sul territorio nazionale – dell’esercizio delle funzioni amministrative relative ai procedimenti di Valutazione d’Impatto Ambientale, qualora essi abbiano ad oggetto «progetti di competenza statale … finalizzati alla realizzazione di opere ubicate esclusivamente nel territorio della Regione» (il Documento porta gli esempi delle centrali termiche, degli impianti eolici, di infrastrutture anche rilevanti come autostrade, aeroporti e ferrovie…)[34]. Ancora, la Regione chiede la potestà a disciplinare il «recupero di specifiche categorie di rifiuti significative per il territorio piemontese», e – con una previsione forse più discutibile – ad escludere l’attribuzione della qualifica di «rifiuto» a determinati prodotti, al fine dichiarato di incentivare la c.d. economia circolare.

La seconda materia di potestà legislativa esclusiva statale coinvolta dalla proposta regionale in esame è, come detto sopra, la tutela dei beni culturali. Si tratta di una materia (come già la tutela del paesaggio, trattata nello stesso punto del «Documento di indirizzo» allegato alla delibera del Consiglio regionale in oggetto[35]) in relazione alla quale la Regione Piemonte aveva già presentato in passato delle richieste di maggiore autonomia, nel suo primo progetto di “differenziazione” dopo la riforma del Titolo V[36]. Nell’attuale proposta esse vengono presentate congiuntamente alle richieste in tema di valorizzazione dei beni culturali stessi (materia invece, come è noto, di legislazione concorrente), nella prospettiva – in linea di principio condivisibile – della riconduzione ad un unico soggetto istituzionale di competenze relative al medesimo oggetto – i beni culturali appunto –, inopportunamente frammentate dalla riforma costituzionale del 2001.

In questo ambito sono due le richieste principali avanzate dalla Regione Piemonte[37]. In primo luogo, l’attribuzione (in via esclusiva, si deve ritenere) della potestà legislativa in materia proprio di valorizzazione «dei beni culturali appartenenti allo Stato, presenti sul territorio regionale», come per esempio i musei, le biblioteche, gli archivi, le aree archeologiche ed i complessi monumentali. Al riguardo il Documento regionale afferma che nella «valorizzazione» deve intendersi compresa la «gestione» di questi beni culturali; e motiva tale richiesta con il legame esistente tra la «valorizzazione»/«gestione» dei beni stessi e l’esercizio di altre competenze già della Regione – o soggette al suo coordinamento –, come la programmazione del trasporto pubblico, la gestione della rete stradale e del «sistema dell’accoglienza» (il Documento indica come modelli virtuosi di gestione dei beni culturali nel territorio il Museo Egizio di Torino ed il Consorzio delle residenze reali sabaude, dislocate nell’intera Regione). Si tratta di una motivazione senz’altro plausibile, ma che non vale a giustificare – in un’ottica “di sistema” (questa volta, nazionale) – il trasferimento in capo alla Regione del potere di definire i principi fondamentali di una parte consistente della legislazione sui beni culturali, con riferimento oltretutto a beni di proprietà dello Stato.

In secondo luogo (e sotto un altro profilo rispetto all’oggetto della prima richiesta), la Regione Piemonte propone il trasferimento a sé dell’«esercizio delle funzioni amministrative in materia di tutela dei beni culturali sia – si noti – di proprietà pubblica che di proprietà privata, presenti sul territorio regionale»: ove questa proposta venisse accolta, come ammette lo stesso Documento regionale, verrebbero private delle loro competenze (e dovrebbero sostanzialmente venire chiuse, in quanto diventate enti – o meglio, uffici – “inutili”) le attuali Soprintendenze operanti nella Regione[38]. Anche tale richiesta, indubbiamente assai incisiva, è motivata con l’esigenza di una gestione unitaria dei beni culturali nell’ambito regionale[39]; tuttavia essa non pare condivisibile (e desta anzi preoccupazione) per le stesse ragioni già viste a proposito dell’esercizio delle funzioni amministrative in materia ambientale, consistenti essenzialmente nell’abdicazione da parte dello Stato allo svolgimento della sua funzione “unificante” (che comporta anche la vigilanza sull’operato degli Enti territoriali), tanto più in un contesto decisivo per la salvaguardia dell’identità nazionale come quello della cultura.

Passando alle materie di legislazione concorrente (la proposta piemontese ne tocca in tutto nove, come detto sopra), e soffermandoci sui profili che paiono più rilevanti, vanno esaminate per prime le richieste in tema di sanità, a cui il Documento regionale dedica due diversi punti (lettera d) – «politiche sanitarie», e lettera g) – «fondi sanitari integrativi»). Tali proposte – dichiara lo stesso Documento – sono preordinate, in generale, al raggiungimento di due obiettivi: «consolidare il principio di leale collaborazione tra i livelli istituzionali» e “responsabilizzare” in modo più marcato la Regione nell’offerta di servizi sanitari «coerenti con i provvedimenti nazionali» (si fa riferimento ai nuovi L.E.A. e alla normativa del 2017 che ha ampliato l’obbligo vaccinale) [40].

Nello specifico, le richieste della Regione Piemonte sono principalmente cinque[41].

1) In primo luogo (e si tratta indubbiamente del contenuto più significativo del progetto regionale in materia), quella di eliminare in parte i cc.dd. vincoli di destinazione delle risorse ad essa attribuite del Fondo sanitario nazionale. Al riguardo la Regione chiede di poter definire autonomamente la quota di fondi da destinare alla spesa per il personale, i dispositivi medici, i farmaci, il «privato accreditato» ed i «beni e servizi»; fermi restando – precisa il «Documento di indirizzo» in esame – il rispetto delle percentuali di «macroallocazione delle risorse» stabilite dalla legislazione nazionale (cioè il 51% per l’assistenza territoriale-distrettuale, il 44% per la rete ospedaliera e il 5% per la prevenzione, ex art. 27 comma 3 d.lgs. n. 68/2011) e l’equilibrio economico-finanziario complessivo della gestione[42]. Con questi limiti, la proposta sembra ragionevole, in un’ottica di autonomia e di responsabilizzazione, allo stesso tempo, dell’Ente regionale. Solo qualche dubbio in merito alla sua eventuale attuazione – come è stato rilevato – potrebbe derivare dal fatto che essa proviene da una Regione che in passato si è resa inadempiente proprio verso tali prescrizioni, tanto da essere sottoposta a lungo a Piano di rientro in sanità[43].

2) In secondo luogo, la Regione chiede una «maggiore autonomia nell’espletamento delle funzioni attinenti al sistema tariffario, di remunerazione e di compartecipazione alla spesa» sanitaria[44]. Si tratta – in questo caso – di una richiesta di per sé assai generica, che dovrebbe perciò essere precisata in sede di trattative con il Governo. Al riguardo è stato osservato, in dottrina, che il probabile intento della Regione è quello di estendere i suoi «margini di intervento sulla definizione … del sistema tariffario e di remunerazione», in modo da assumere un ruolo più “pesante” «nella gestione dei rapporti con i privati accreditati, con [conseguenti] rilevanti ricadute sull’assetto complessivo del Servizio sanitario regionale»[45].

3) In terzo luogo – e con riguardo questa volta alle professioni sanitarie –, il Documento piemontese chiede il trasferimento alla Regione stessa della competenza a definire l’«offerta formativa universitaria» in materia, ed il potere di assumere (nelle Aziende sanitarie ed ospedaliere) i medici specializzandi che frequentano l’ultimo anno del corso di specializzazione[46]. La richiesta, pur motivata dal riscontro dell’inadeguatezza della programmazione dei corsi universitari rispetto al numero di medici e di altri professionisti necessario per far fronte ai compiti del sistema sanitario regionale, non è coerente con il principio di leale collaborazione (che è invece alla base della legislazione statale vigente in materia: il d.lgs. n. 368/1999 prevede che il fabbisogno dei medici specialisti sia determinato dopo aver sentito la Regione) né – quanto all’eventuale assunzione degli specializzandi – con il valore legale del diploma di specializzazione. Per la stessa ragione, è criticabile l’ulteriore proposta avanzata dalla Regione, di avere una maggiore autonomia nel «[gestire il] regime transitorio delle professioni sanitarie» (come ad esempio quelle di fisioterapista, di osteopata e di chiropratico) a seguito della riforma operata dalla legge n. 3/2018, che ha introdotto per molte di esse l’albo professionale[47].

4) In quarto luogo, il «Documento di indirizzo» chiede allo Stato la «valorizzazione e la dismissione del patrimonio edilizio obsoleto e non più utilizzabile per nuovi investimenti sanitari». Secondo la Regione tali obiettivi potrebbero essere realizzati – si noti – solo «a condizione che sia attivato un vero e proprio piano nazionale di valorizzazione dei beni immobili individuando processi certi (nei risultati finali) e rapidi (nelle modalità)»[48]: il che rende la richiesta regionale – almeno al momento – non attuabile, non potendo evidentemente la Regione “costringere” lo Stato ad attivare tale piano. Come pure è stato rilevato[49], la richiesta di valorizzazione del patrimonio edilizio sanitario acquista maggior senso se letta “in combinato disposto” con le proposte avanzate dallo stesso «Documento di indirizzo» in tema di governo del territorio (lettera a) del Documento): queste ultime riguardano, tra l’altro, l’estensione delle competenze regionali in materia di «rigenerazione urbana», di «trasformazioni edilizie» e di «sostituzione del tessuto edilizio degradato»[50].

5) In quinto luogo (ed infine), la Regione chiede[51] una più ampia «autonomia legislativa, amministrativa ed organizzativa in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi» (che, in base alla legge statale, dovrebbero essere finalizzati a fornire ai cittadini delle «prestazioni aggiuntive rispetto a quelle assicurate dal Servizio sanitario nazionale»[52]). Quest’ultima proposta è stata modificata significativamente dal «Documento di indirizzo» in esame rispetto al testo presentato dalla Giunta al Consiglio regionale a luglio 2018: essa si sostanzia nell’ottenimento di funzioni amministrative volte a regolamentare detti fondi e, dall’altro lato, della «competenza a definire un livello minimo di defiscalizzazione per favorire ed incentivare l’adesione volontaria» dei cittadini agli stessi, che però appaiono ancora problematiche dal punto di vista dell’individuazione del tipo di prestazioni che dovrebbero essere finanziate in concreto mediante tali strumenti.

Passando alle materie dell’istruzione e della tutela del lavoro (lettera c) del Documento contenente la proposta di differenziazione regionale in esame), si devono ricordare principalmente[53], in primo luogo, le richieste volte ad ottenere dei poteri più ampi nell’«organizzazione del Servizio Istruzione», con particolare riferimento all’istruzione tecnica e professionale[54]; le «funzioni di competenza statale in materia di edilizia scolastica e diritto allo studio»; una maggiore autonomia nella «disciplina dell’assegnazione dei contributi alle istituzioni scolastiche paritarie» (in questi ultimi due casi si tratta, invero, di materie rilevanti e delicate, nelle quali le richieste della Regione avrebbero dovuto essere precisate meglio)[55]; infine, le risorse «necessarie a garantire il diritto dei giovani di scegliere se assolvere il diritto-dovere all’istruzione e formazione nel “sistema di istruzione” o nel “sistema di istruzione e formazione professionale”», sul presupposto per cui l’attuale sistema di trasferimento dei fondi dal Ministero alla Regione non consentirebbe a quest’ultima di esercitare in modo adeguato le sue competenze in materia[56].

Per quanto riguarda poi, specificamente, l’ambito del lavoro, le proposte della Regione Piemonte – muovendo dalle criticità evidenziate nella prima parte del «Documento di indirizzo» in oggetto[57] – mirano a sviluppare, da un lato, la rete dei servizi territoriali per il lavoro (di cui si sottolinea la recente riorganizzazione adottata con la l.r. n. 7/2018[58]), mediante la richiesta soprattutto di «un quadro di risorse stabile» per sostenere i costi degli uffici e delle relative prestazioni; dall’altro lato, le cc.dd. politiche attive del lavoro, attraverso la rivendicazione di più ampi poteri regolatori, tali da permettere all’ente regionale di «individua[re] le priorità e modula[re] gli interventi rispetto ai beneficiari degli strumenti di sostegno al reddito», nonché di vigilanza sull’erogazione di detti sussidi[59]. Queste ultime misure devono oggi essere valutate in stretta relazione a (e senza disgiungerle dalla) introduzione, a livello statale, del c.d. reddito di cittadinanza (avvenuta con il d.l. n. 4/2019, convertito nella l. n. 26/2019), che proprio nell’intreccio tra le competenze dello Stato e quelle delle Regioni trova uno degli aspetti più problematici dal punto di vista applicativo[60].

Un’altra materia di legislazione concorrente rispetto a cui le richieste di “differenziazione” piemontesi appaiono di particolare interesse (e, almeno sul piano potenziale, ricaduta) è quella del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (lettera e) del «Documento di indirizzo» allegato alla delibera del Consiglio regionale in discussione nel “tavolo tecnico”, che la declina peraltro – significativamente – come «coordinamento della finanza pubblica e governance istituzionale»). In questo contesto la Regione Piemonte dichiara esplicitamente di voler “attaccare” le difficoltà derivanti dalla «polverizzazione» dei Comuni presenti nel suo territorio (di cui si è dato conto più sopra), consolidando un modello da essa già sperimentato, volto alla «flessibilizzazione dei vincoli di finanza pubblica degli enti locali, al fine di promuovere e agevolare gli investimenti»[61].

Sono sei le proposte essenziali avanzate dalla Regione in tal senso[62].

1) La creazione di un «modello regionalizzato» di gestione dei vincoli finanziari (tale – si legge nel «Documento di indirizzo» – da permettere di superare le «rigidità della legge 243/2012 e del relativo D.P.C.M. attuativo (n. 21/2017)»), basato sulla definizione da parte della Regione stessa di «criteri applicativi, modalità e tempi» di rispetto dei vincoli da parte degli enti locali, adeguati alle esigenze dei diversi territori. Tale meccanismo – precisa la proposta, in analogia a quanto si è già visto a proposito della gestione della spesa sanitaria – non intende mettere in discussione in alcun modo l’«obiettivo complessivo» (o, in termini tecnici, «aggregato») di finanza pubblica «richiesto al territorio» regionale piemontese: l’equilibrio di bilancio – il cui rispetto è presidiato dall’art. 81 Cost. – sarebbe dunque garantito essenzialmente a livello regionale, mentre gli enti locali (o meglio, alcunidi essi) godrebbero di maggiori margini di flessibilità.

Considerate le sue premesse “di contesto”, la proposta sembra condivisibile: essa viene incontro alle esigenze soprattutto dei piccoli Comuni. E’ peraltro da valutare l’effettiva capacità della Regione di interloquire in modo adeguato con il sistema degli enti locali in una materia così delicata, e di “gestire” i possibili conflitti tra loro (se qualcuno fosse autorizzato a discostarsi – anche in misura rilevante – dall’equilibrio di bilancio, altri dovrebbero tendenzialmente sottoporsi a vincoli più stringenti, in modo da assicurare l’equilibrio complessivo): al riguardo il Documento regionale dichiara di voler «valorizza[re] il ruolo del Consiglio delle autonomie locali», in modo forse troppo generico.

2) In stretta relazione alla prima richiesta (appena illustrata), il rafforzamento di due «meccanismi di coordinamento già parzialmente sperimentati nell’ordinamento regionale»: un sistema unico di accesso degli enti locali al mercato dei capitali, al fine di «realizzare economie di scala e sviluppare una gestione efficace delle passività», e la gestione coordinata delle «capacità di assunzione» del personale da parte dei diversi enti (in modo da “ottimizzare le risorse”, anche in applicazione – ricorda il Documento in esame – della vigente disciplina statale sulle forme associative degli enti locali).

3) Ancora in connessione con (e ad ulteriore specificazione/completamento de) la richiesta sub 1), la definizione da parte della Regione di «criteri applicativi, modalità e tempi» dell’eventuale ricorso all’indebitamento – ed agli «interventi di investimento» – degli enti locali (oltre che della Regione stessa); e ciò – precisa di nuovo il progetto in esame – «nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica consolidati a livello regionale». Sebbene la possibilità di indebitamento – e di correlato ricorso agli investimenti – rappresenti un’implicazione naturale della proposta di «flessibilizzazione» dei vincoli finanziari pubblici in ambito regionale, non vi è dubbio che questa specifica richiesta presenti dei profili di particolare delicatezza (soprattutto dal punto di vista dei controlli su queste decisioni)[63]: è perciò auspicabile che essa venga esaminata con speciale attenzione nel corso degli incontri tra la Regione ed il Governo, preliminari alla stipula di un’eventuale intesa.

4) Altro aspetto delicato, in questo contesto, la «piena autonomia sulla disciplina dei tributi regionali, a partire dalla tassa automobilistica a parità di gettito fiscale»[64]. Il Documento regionale non chiarisce il collegamento tra questa richiesta ed il “disegno generale” della Regione in materia di gestione della finanza pubblica (sopra ricordato), e ciò rappresenta un elemento di debolezza.

5) Per quanto riguarda, invece, il versante della spesa pubblica – in sostanziale coerenza con le proposte sub 1), 2) e 3), nonché con le richieste inerenti alla spesa sanitaria, sopra riportate –, la previsione da parte della legge statale di coordinamento della finanza pubblica di meri «obiettivi e principi generali, relativi a macroaggregati di spesa», in modo da favorire l’esercizio dell’autonomia regionale nella suddivisione delle uscite di livello inferiore. La proposta non sembra formulata in modo ineccepibile (può la Regione, nell’ambito del procedimento ex art. 116 comma 3 Cost., chiedere allo Stato di adottare leggi con un determinato contenuto?); essa può però essere ricostruita, “a contrario”, come la richiesta di una più ampia autonomia nella definizione dei criteri in base ai quali la Regione e gli enti locali sono tenuti a ripartire la propria spesa, come appunto già proposto dal Documento per la materia sanitaria.

6) Infine – e con riguardo, specificamente, alla «governance istituzionale» –, la possibilità di «implementare forme organizzative e di funzionamento atte a rispondere alle esigenze operative delle proprie attività improntate a criteri di efficacia ed efficienza», sempre «nel quadro del rispetto degli equilibri finanziari e dei principi del coordinamento della finanza pubblica».

Nel complesso pare di poter affermare che le misure indicate, sebbene discutibili per alcuni aspetti, siano coerenti con l’obiettivo di dare al sistema piemontese degli enti locali un “modello di governo” diverso dall’attuale, più adeguato alle sue caratteristiche, oggettivamente peculiari (evidenziate nella premessa del Documento regionale: a partire dalla dispersione e frammentazione).

Da ultimo, è opportuno fare un cenno alle richieste esposte nel Documento approvato dal Consiglio regionale in materia di infrastrutture (lettera b) del Documento, che affronta peraltro anche la «protezione civile»). Si tratta infatti – come è noto – di una materia al centro del dibattito politico piemontese, ed anche nazionale, soprattutto in relazione alla “questione” della realizzazione della Linea ferroviaria ad alta velocità Torino- Lione[65]. In questo ambito la Regione Piemonte chiede principalmente, da un lato, che lo Stato individui con precisione le «infrastrutture ferroviarie, degli aeroporti e della rete autostradale e stradale da considerare di interesse nazionale», al fine (non meglio specificato nella proposta) di chiarire il “riparto delle funzioni” con la Regione stessa. Dall’altro lato – e più incisivamente –, essa richiede la competenza ad «approvare [a] le infrastrutture strategiche di interesse regionale sul territorio piemontese, nonché – si noti – [b] quelle di competenza statale di intesa con il Governo entro un termine predeterminato …, con particolare riguardo alle infrastrutture di collegamento extraregionale e a ponti, trafori e viadotti». Se questa richiesta venisse accolta, per realizzare un’opera come il T.A.V. – ma anche opere non altrettanto rilevanti – sarebbe evidentemente necessario un accordo tra la Regione e lo Stato, il che (pur senza svalutare gli strumenti di raccordo tra i due livelli istituzionali) desta più di una perplessità, soprattutto in relazione ad infrastrutture di rilievo sovranazionale come quella di specie.

 

4. Osservazioni finali: il rapporto tra la proposta della Regione Piemonte e le richieste di “differenziazione” di altre Regioni; l’inquadramento di tale proposta tra i diversi modelli possibili di “differenziazione”.

Volendo esprimere qualche considerazione conclusiva – e d’insieme – sul progetto di “differenziazione” piemontese sopra esaminato, pare di poter affermare che la proposta della Regione si presti ad un giudizio complessivamente “tranquillo”.

Dal punto di vista del rapporto con le richieste di “differenziazione” avanzate da altre Regioni, invero (ed in particolare con quelle della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia- Romagna, che rappresentano dei termini di confronto privilegiati per la vicinanza geografica, la somiglianza dei dati economici e sociali di contesto e – inoltre – per il fatto di trovarsi ad un più avanzato stadio di discussione nel «tavolo tecnico» con il Governo[66]), il Documento del Piemonte non risulta particolarmente incisivo, ma ha una portata più modesta (o se si vuole, moderata…) e circoscritta. Come si è visto sopra, le richieste di maggiore autonomia della Regione toccano, formalmente, numerose – e talvolta rilevanti: si pensi alla sanità o all’ambiente o all’istruzione – materie; ma sotto il profilo del contenuto sostanziale, lo fanno (salvo che in alcuni casi[67]) in modo assai meno penetrante – e potenzialmente dirompente – delle altre Regioni soprattutto del Nord.

Si consideri, al riguardo, che – dal punto di vista “quantitativo” – la Lombardia ed il Veneto hanno chiesto l’attribuzione di «forme e condizioni particolari di autonomia» in tutte le (ventitré) materie astrattamente consentite dall’art. 116 comma 3 Cost.; l’Emilia in quindici materie, ma per via di alcuni accorpamenti il risultato finale è simile. La proposta del Piemonte riguarda invece undici materie. Dal punto di vista “qualitativo”, la Lombardia, il Veneto e l’Emilia- Romagna rivendicano l’autonomia in senso propriamente politico[68], chiedendo allo Stato – in particolare, e sia pure in modo non del tutto omogeneo tra di loro – la regionalizzazione del personale della Pubblica Amministrazione (a partire dai docenti della scuola), il trasferimento sul territorio degli uffici statali, la competenza a dettare le «norme generali» in tema di istruzione, la titolarità delle decisioni qualificanti in materia di politica sanitaria (dalla definizione del sistema tariffario e di rimborso delle prestazioni alla distribuzione dei farmaci, alla c.d. equivalenza terapeutica tra i medicinali, agli incentivi economici al personale medico e paramedico), l’acquisizione alla Regione del demanio idrico, competenze strategiche nel settore dell’energia e – last but not least – un’autonomia “piena” in materia di tributi ed il trattenimento degli stessi sul territorio regionale[69] (su quest’ultimo aspetto si tornerà poco oltre). Richieste di questo genere e portata – indubbiamente “di sistema” – non si rinvengono nel progetto piemontese.

Sotto il profilo strettamente tecnico, le proposte del «Documento di indirizzo» della Regione Piemonte paiono spesso discutibili nella loro formulazione, e non adeguatamente motivate (si pensi alle richieste in tema di compartecipazione alla spesa sanitaria, di «valorizzazione» del patrimonio edilizio sanitario obsoleto, alcune in tema di coordinamento della finanza pubblica, sopra riportate). In diversi ambiti – come si è visto – la Regione manifesta poi delle esigenze che, in realtà, potrebbero essere soddisfatte facendo buon uso degli strumenti, e dei poteri, di cui essa già dispone nell’attuale contesto ordinamentale (è il caso, per esempio, di diverse richieste in materia di sanità e istruzione[70]). Purtuttavia, è indubbio che la maggior parte delle proposte del Documento piemontese siano idonee ad arricchire ed implementare l’armamentario degli strumenti utilizzabili dalla Regione per perseguire delle politiche “tagliate” sul suo contesto territoriale, economico e sociale di riferimento – in linea con lo spirito dell’“autonomia differenziata” di cui all’art. 116 comma 3 Cost. –, senza dall’altro lato incidere sull’unità nazionale (a differenza delle richieste delle altre Regioni prima indicate). Inoltre vi sono nel progetto esaminato alcuni aspetti di particolare interesse – e prospettiva –, come ad esempio le proposte relative alla gestione dei vincoli di finanza pubblica a carico degli enti locali, che, in un contesto come quello piemontese, risultano senza dubbio necessarie (per quanto, evidentemente, da verificare nel loro risultato concreto).

Passando poi (ed infine) a valutare la proposta della Regione Piemonte dal punto di vista del tipo di regionalismo che essa esprime – o, detto con altri termini, del “segno” che essa intende imprimere al regionalismo piemontese –, occorre premettere che nell’attuale dibattito sulla differenziazione regionale si fronteggiano (cioè, sono stati enucleati dalla dottrina osservando le diverse iniziative in corso[71]) due distinti modelli, nient’affatto equivalenti sotto il profilo della compatibilità con il disegno costituzionale[72].

1) Secondo un primo modello, l’autonomia “differenziata” (o la “differenziazione” tout court) si configura come un semplice – seppure rilevante – «strumento organizzativo», volto a realizzare in modo più efficace le esigenze materiali proprie di un determinato territorio, senza nel contempo incidere sulla distribuzione delle risorse economiche tra i territori da parte dello Stato (risorse che servono a finanziare le prestazioni pubbliche, e dunque a garantire i diritti dei cittadini). In base a questo modello, la Regione assume dallo Stato una o più competenze, insieme alle risorse necessarie per esercitarla/e: «posto che la singola “ulteriore competenza x” … ha un costo per lo Stato di y, alla regione verrà trasferita, unitamente alla competenza x, la somma y: se riuscirà ad effettuare risparmi e/o a migliorarne l’esercizio, buon per lei e i suoi cittadini»[73]. Cambia quindi, insieme al titolare della funzione, l’«ente pagatore» della stessa; lo Stato però non subisce alcun “depauperamento” (tanto pagava prima per esercitare la funzione direttamente, tanto paga ora alla Regione affinché essa la eserciti), sicché può continuare a distribuire tra le Regioni le somme raccolte tramite la fiscalità utilizzando i precedenti criteri, senza danneggiarne alcuna: la “differenziazione” – delle Regioni che hanno chiesto ed ottenuto dallo Stato delle competenze ulteriori – non intacca dunque la solidarietà nazionale e, quindi, è compatibilecon la Costituzione[74].

2) In base invece ad un secondo modello, l’autonomia “differenziata” delle Regioni si configura, di fatto, come la soluzione istituzionale servente ad un utilizzo differenziato delle risorse economiche tra i diversi territori, «in funzione e in conseguenza della differenziazione socio-economica di partenza, e al fine di mantenerla o addirittura aumentarla»[75]. Il ragionamento alla radice di questo modello può così riassumersi: poiché (e nella misura in cui) alcune Regioni producono più ricchezza di altre, e perciò generano più tributi nel loro territorio, esse devono poter trattenere[76] una quota maggiore di tali tributi rispetto al quadro attuale – quota che pertanto sarà sottratta alla disponibilità dello Stato – e, nello stesso tempo, esercitare delle funzioni ulteriori. Inoltre (ed in stretta correlazione), il fabbisogno delle Regioni – cioè le risorse necessarie per il finanziamento delle loro funzioni – deve essere calcolato non solo sulla base dei cc.dd. costi- standard delle prestazioni e del numero degli abitanti, come avviene oggi; ma anche del gettito fiscale generato sul loro territorio, con conseguente vantaggio per le Regioni più ricche (alle quali verranno trasferite delle risorse maggiori) e danno per le Regioni meno ricche e per i loro residenti (che riceveranno delle prestazioni inferiori sotto ogni aspetto)[77]. La “differenziazione” prevista in astratto dall’art. 116 Cost. viene intesa, in questo modello, come una “differenziazione” «competitiva»[78]; essa viene utilizzata – a differenza che nel primo modello – per perseguire una concezione “forte” di autonomia, di tipo politico: una concezione per la quale l’autonomia regionale si erge a valore in sé, a prescindere dal rapporto con le esigenze concrete del territorio, e fa leva – assai significativamente – sulla fiscalità quale fonte di finanziamento autonoma della Regione, non soggetta a vincoli esterni di destinazione. In questi termini, come è stato rilevato, il modello in esame non può ritenersi compatibile con la Costituzione: esso lede l’unità e la solidarietà nazionale – sancite dall’art. 5 – ed il principio di uguaglianza dei cittadini[79].  

Nel processo di attuazione del regionalismo differenziato attualmente in corso (di cui si è dato conto nel primo paragrafo) il primo modello sopra indicato – quello della “differenziazione” «organizzativa» – sembra essere espresso, per esempio, dalla proposta presentata dalla Regione Lombardia in seguito al referendum consultivo da essa svolto nell’ottobre del 2017. Il quesito approvato dal Consiglio regionale e sottoposto agli elettori della Regione chiedeva infatti se la Regione stessa, «nel quadro dell’unità nazionale», potesse intraprendere «le iniziative istituzionali necessarie per chiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse»: la prospettiva è quella del cambiamento dell’«ente pagatore» delle funzioni, in un quadro di apparente corrispondenza tra le risorse trasferite alla Regione e quelle impiegate prima dallo Stato per svolgere le medesime funzioni. Viceversa, sono state ascritte al secondo modello – quello della “differenziazione” «competitiva» e dell’autonomia in senso “forte” – la proposta referendaria approvata dal Consiglio regionale del Veneto nel 2014 (l.r. n. 15/2014), dichiarata in parte qua illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 118/2015, che prevedeva che almeno l’80% dei tributi riscossi nel territorio regionale restasse nella disponibilità della Regione e venisse «utilizzat[o] nel territorio regionale in termini di beni e servizi» (senza alcun ulteriore vincolo di destinazione); e alcune richieste avanzate dalla Regione Lombardia e dall’Emilia- Romagna nell’attuale «tavolo tecnico» con il Governo (di cui non è possibile avere, allo stato, altro che notizie informali), volte ad ottenere un’ampia autonomia tributaria e – ancora più significativamente – che l’ammontare delle risorse trasferite dallo Stato per l’esercizio delle funzioni regionali sia calcolato, come si è esposto sopra, anche sulla base del gettito fiscale del territorio delle Regioni stesse (con conseguente rilevante modifica del quantum di tali trasferimenti)[80].

In quale dei due modelli si colloca allora la proposta di “differenziazione” del Piemonte, qui esaminata?

Al riguardo va osservato che il Documento del Consiglio regionale non affronta in termini generali il problema del finanziamento delle nuove competenze della Regione – quali risulterebbero dall’accoglimento delle richieste sopra riportate –, né quello (come si è visto cruciale) delle modalità di calcolo dei “fabbisogni standard” o della destinazione del c.d. residuo fiscale del territorio piemontese. Esso si limita, in materia, a chiedere la «piena autonomia [della Regione: n.d.A.] sulla disciplina dei tributi regionali, a partire dalla tassa automobilistica a parità di gettito fiscale»[81]. In mancanza di un’espressa indicazione in tal senso nel «Documento di indirizzo», si può quindi ritenere che la Regione non intenda – allo stato attuale – ottenere delle risorse maggiori di quelle impiegate finora dallo Stato per esercitare le funzioni menzionate dal Documento, né trattenere sul suo territorio una quota di tributi superiore rispetto a quella odierna, come chiedono invece le Regioni che si richiamano al modello della “differenziazione” «competitiva». La proposta piemontese – salvo eventuali cambiamenti futuri, che potrebbero derivare dal cambio di maggioranza politica determinato dalle elezioni dello scorso 26 maggio[82] – sembra muoversi piuttosto nel quadro, più “tranquillizzante” dal punto di vista costituzionale, dell’autonomia/“differenziazione” intesa come strumento organizzativo, che non mette a rischio l’unità e la solidarietà nazionale.

Questa conclusione è confermata, indirettamente, da due elementi contenuti nello stesso Documento regionale. In primo luogo, dai «criteri» generali posti dalla Regione – come si è visto nel secondo paragrafo – alla base della scelta delle materie nelle quali richiedere le «forme e condizioni particolari di autonomia»: tali criteri[83], come è stato osservato, manifestano la volontà della Regione Piemonte di arricchire e perfezionare il «proprio “strumentario” di governo» attuale, piuttosto che di rivendicare una maggiore autonomia «come valore in sé»[84]. In secondo luogo, dalle richieste in tema di coordinamento di finanza pubblica e di «governance istituzionale»: esse (come pure si è visto in precedenza[85]), pur proponendo l’allentamento dei vincoli finanziari a carico degli enti locali e la possibilità per la Regione di consentire ad essi di ricorrere all’indebitamento, non intaccano in alcun modo la partecipazione della Regione stessa – in concorso con le altre Regioni ed enti territoriali – agli obiettivi nazionali di finanza pubblica; e perciò la solidarietà tra gli enti territoriali della Repubblica, valorizzata anche dalla giurisprudenza costituzionale.

In definitiva, la direzione che il regionalismo piemontese sembra prendere – alla luce della proposta qui commentata – è quella di una “differenziazione” “temperata” e “virtuosa”, volta a dotare l’ente regionale di competenze/strumenti (più) adeguati al perseguimento delle sue finalità istituzionali, nello specifico contesto territoriale, economico e sociale di riferimento.

 


[1] Ricercatore di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino.

 

[2] Precisamente (nel momento in cui si scrive), l’Emilia- Romagna, la Lombardia, il Veneto (proposte della passata Legislatura), la Campania, la Liguria, il Lazio, le Marche, la Toscana e l’Umbria (proposte di questa Legislatura): per un quadro d’insieme si veda il Dossier del Servizio Studi del Senato n. 104, febbraio 2019, su Il processo di attuazione del regionalismo differenziato, reperibile al link http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01103442.pdf.

 

[3] Reperibile al link http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2018/05/attach/dgr_06323_1050_10012018.pdf. Per il contenuto della Delibera si veda il Focus della Direzione Processo Legislativo e Comunicazione istituzionale del Consiglio regionale del Piemonte n. 63, 30 marzo 2018, su Il percorso autonomistico delle regioni delineato dall’articolo 116 terzo comma della Costituzione e la sua attuazione (reperibile al link http://www.cr.piemonte.it/dwd/infoleg/focus/2018/n.63_articolo_116_costituzione.pdf ), pp. 67 ss.. 

Può essere utile ricordare che pochi mesi prima (l’11 settembre 2017) era stata presentata da due consiglieri regionali della Lega Nord una proposta di legge regionale avente ad oggetto l’Indizione di referendum consultivo concernente l’iniziativa per l’attribuzione alla Regione Piemonte di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomie ai sensi dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione (proposta n. 274), che non ha avuto seguito.

 

[4] «Accordi preliminari» (o «pre- intese») del 28 febbraio 2018, per le quali v. ancora il Dossier del Servizio Studi del Senato n. 104, febbraio 2019, pp. 19 ss. (i testi di tali «Accordi» sono allegati al Dossier sempre del Servizio Studi del Senato n. 16, maggio 2018, su Il regionalismo differenziato e gli accordi preliminari con le regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01067303.pdf).

 

[5] Pubblicata nel B.U.R. n. 46, 15 novembre 2018 (Supplemento Ordinario n. 1), e reperibile al link http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2018/46/attach/aa_aa_deliberazione%20del%20consiglio%20regionale_2018-11-09_65731.pdf.

 

[6] V., rispettivamente, pagine 2 ss., 15 e 15 ss. dell’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit. (su cui ci si soffermerà oltre).

 

[7] Sia per il numero e la tipologia delle materie coinvolte, sia in ragione del fatto che essa prospetta l’attribuzione alla Regione stessa di una più ampia autonomia non solo legislativa, ma anche amministrativa, regolamentare ecc. (v. infra, § 3).

 

[8] V. al riguardo il già citato Dossier del Servizio Studi del Senato n. 104, febbraio 2019, pp. 7-8 e 35-36, nonché la sezione Autonomia differenziata del sito web istituzionale del Dipartimento per gli Affari regionali e le Autonomie (http://www.affariregionali.gov.it/attivita/aree-tematiche/autonomia-differenziata/autonomia-differenziata-articolo-116-iii-comma-della-costituzione/), nella quale peraltro risultano pubblicate – ad oggi – soltanto le «parti generali» delle «bozze di intesa» con le Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia- Romagna, datate 25 febbraio 2019 (per una critica alla scarsa trasparenza del processo in corso, con riferimento in particolare al contenuto delle condizioni di maggiore autonomia concordate tra le Regioni ed il Governo, v. Pallante F. (2019), Nel merito del regionalismo differenziato: quali «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» per Veneto. Lombardia ed Emilia- Romagna?, in federalismi.it, n. 6, p. 3).

 

[9] A pagina 36, paragrafo 20, del «contratto» (reperibile al link http://download.repubblica.it/pdf/2018/politica/contratto_governo.pdf) essa viene definita «prioritaria nell’agenda di Governo» (come è noto, il contenuto del «contratto» è stato “incorporato” nelle mozioni di fiducia al Governo Conte approvate a giugno 2018 dai due rami del Parlamento).

 

[10] Grosso E., Poggi A. (2018), Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, in questa Rivista, n. 2, pp. 1 e 5.

 

[11] V. in particolare Bin R. (2019), L’insostenibile leggerezza dell’autonomia “differenziata”: allegramente verso l’eversione, in laCostituzione.info, 16 marzo 2019, nonché l’Appello di trenta costituzionalisti su regionalismo differenziato, ruolo del Parlamento e unità del Paese, consultabile in federalismi.it, n. 5/2019.

 

[12] Per la prima posizione (basata soprattutto, come si vedrà nel paragrafo finale, sulle richieste di alcune Regioni riguardanti l’allocazione delle risorse finanziarie a seguito della “differenziazione”) si vedano, per esempio, Dogliani M. (2018), Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano, in questa Rivista, n. 3; Viesti G. (2019), Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Roma-Bari, Laterza; Armao G. (2019), La degradazione dei diritti sociali, l’aggravamento del divario Nord- Sud e le prospettive del regionalismo differenziato, in Diritti regionali, n. 2; per la seconda posizione, in particolare Bin R. (2019), La “secessione dei ricchi” è una fake news, in laCostituzione.info, 16 febbraio 2019.

 

[13] Essa occupa praticamente metà del Documento in questione (quattordici pagine su trenta).

 

[14] Che – come rileva Pallante F. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute, in questa Rivista, n. 1, pp. 1 s. – derivano principalmente dal riscontro del progressivo invecchiamento della popolazione piemontese.

 

[15] Tali proposte discendono invece, essenzialmente, dall’analisi del contesto territoriale ed istituzionale della Regione, caratterizzato (come si vedrà di seguito) da un’elevata “dispersione” e dalla «polverizzazione» dei Comuni.

 

[16] Questa difficoltà, secondo il Documento regionale, sarebbe confermata dal fatto che le esportazioni piemontesi – pur avendo un volume complessivamente buono – sono «di molto inferior alla domanda potenziale che si presenta nella regione» (+ 26,6% nel periodo 2005-2016, contro una domanda potenziale stimata del 39,9%): allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 2.

 

[17] Per citare alcuni dati, il tasso di disoccupazione in Piemonte nel 2016 (ultimo anno considerato dal Documento qui in esame) era del 9,3%, contro una media delle Regioni del Nord del 7,6%; rispetto al “picco” della crisi esso è sceso di due punti percentuali, ma otto anni prima – nel 2008 – era del 5,1%; la disoccupazione giovanile è poi ben al 24,3% (allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 4-5).

 

[18] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 5-6.

Sulla situazione attuale dell’economia piemontese v. anche, da ultimo, il dettagliato Rapporto della Banca d’Italia, sede di Torino, su L’economia del Piemonte, pubblicato nella serie Economie regionali, giugno 2019 (scaricabile al link https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/economie-regionali/2019/2019-0001/1901-piemonte.pdf).

 

[19] Il Documento ricorda, a pagina 6, che «regioni come la Lombardia, il Trentino Alto Adige e l’Emilia Romagna mostrano un aumento di popolazione (rispettivamente +1,7, +4,5 e +0,9 per mille), mentre il Veneto è stabile (diminuisce solo dell’0,5 per mille). Inoltre queste regioni vedono un miglioramento dei valori rispetto al 2016».

 

[20] Contro una quota del solo 12,6% (meno della metà!) di popolazione con età tra 0 e 14 anni (in Italia complessivamente è del 13,4%): allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 9-10.

 

[21] Per quanto precede, v. ancora l’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 7-11.

 

[22] Il Piemonte è la Regione italiana con il numero più elevato di piccoli Comuni, ricorda il Documento in esame, a pagina 12.

 

[23] Comma 3 dell’articolo unico della legge n. 56/2014 (c.d. legge Delrio), che ha riconosciuto la specificità – e la conseguente possibilità di ottenere delle condizioni particolari di autonomia rispetto alle Regioni di cui fanno parte – delle Province «con territorio interamente montano e confinanti con Paesi stranieri». Le altre due Province che rispondono a questi requisiti sono quelle di Sondrio e di Belluno.

 

[24] Per questi dati v. l’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 12-14.

 

[25] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 13.

 

[26] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 15.

 

[27] Pallante F. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute, cit., p. 2.

 

[28] Come in particolare la Regione Veneto, le cui richieste di attribuzione di ulteriori competenze – peraltro – sembrano essere mosse dall’intento (dichiarato espressamente nel quesito referendario approvato dal Consiglio regionale nel 2014, “amputato” poi dalla sentenza 118/2015 della Corte Costituzionale) di incrementare la quota di tributi trattenuta dalla Regione stessa: si vedano in proposito le notazioni critiche di Dogliani M. (2018), Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano, cit., pp. 2 ss..

 

[29] V., per le materie complessivamente oggetto delle richieste di “differenziazione” regionale, l’elenco a pagina 1 dell’allegato A alla delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit. (nell’elencazione nel testo si è seguito l’ordine di tale Documento).

 

[30] Più precisamente: maggiore autonomia legislativa viene richiesta nelle materie del governo del territorio, della valorizzazione dei beni culturali, del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; maggiore autonomia amministrativa nelle materie della tutela dei beni culturali e della protezione civile; entrambe le forme di autonomia nelle materie delle infrastrutture, della tutela del lavoro, dell’istruzione, della tutela della salute, della tutela dell’ambiente e del paesaggio (v. sempre l’allegato A alla delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 15 ss.; sempre seguendo l’ordine del Documento). 

Peraltro, in occasione del recente Convegno su Regionalismo differenziato e specialità regionale: problemi e prospettive (IV Convegno annuale della Rivista Diritti regionali), tenutosi presso l’Università di Torino lo scorso 21 giugno (i cui atti verranno pubblicati nell’autunno), è stato rilevato da Anna Maria Poggi che la devoluzione alle Regioni ordinarie di ulteriori funzioni amministrative è possibile già oggi – utilizzando gli strumenti normativi esistenti, in relazione all’art. 118 Cost. –, senza la necessità di attivare il procedimento “speciale” di cui all’art. 116 comma 3 Cost..

 

[31] In connessione a (le proposte in materia di) governo del territorio e beni culturali (per i quali v. infra nel testo).

 

[32] Sul rapporto tra ambiente e paesaggio – e tra le rispettive «tutele», in relazione al dettato costituzionale ed alla giurisprudenza della Corte – v., di recente, Conte L. (2018), Il paesaggio e la Costituzione, Napoli, Editoriale Scientifica, pp. 4 s..

Sulle proposte di “differenziazione” del Piemonte in materia di ambiente v. invece, specificamente, Ferrara R. (2019), La differenziazione possibile nella materia ambiente, in questa Rivista, n. 1.

 

[33] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 26.

 

[34] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 27.

 

[35] V. retro, nota 31.

 

[36] Delibera del Consiglio regionale del 29 luglio 2008, n. 209-34545, recante «Attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione per il riconoscimento di un’autonomia differenziata della Regione Piemonte», su cui si può vedere, in dottrina, Poggi A. (2008), La problematica attuazione del regionalismo differenziato, in federalismi.it, n. 1, pp. 3 ss..

 

[37] V. allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 17. Oltre a queste due richieste principali, vi è una – non certo ineccepibile nella sua formulazione – proposta volta ad ottenere la «gestione regionale della legge relativa ai fondi per i beni Unesco (legge 77/2006)», che la Regione motiva con l’esigenza di coordinare l’utilizzo di tali fondi con altri investimenti ed interventi di natura infrastrutturale; nonché la rivendicazione della «gestione della legge 482/1999 sulle minoranze linguistiche [che in Piemonte sono numerose e rilevanti dal punto di vista culturale: n.d.A.] e dei fondi ad essa connessi» (ibidem).

 

[38] Cioè – dopo la riorganizzazione del Ministero dei Beni culturali adottata nel 2016, che già le ha assai ridotte di numero – la Soprintendenza Archivistica e Bibliografica e la Soprintendenza Archeologica, delle Belle Arti e del Paesaggio (organi periferici del M.I.B.A.C., appunto).

 

[39] In particolare, il «Documento di indirizzo» regionale sostiene la necessità di «evitare differenziazioni ingiustificate tra [l’esercizio delle funzioni inerenti alla] tutela e [quelle inerenti alla] valorizzazione» dei beni culturali, queste ultime già oggi di titolarità regionale (allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 17).  

 

[40] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 23.

 

[41] Per un’analisi puntuale delle richieste regionali in materia si veda Pallante F. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute, cit. Per un esame anche delle richieste delle altre Regioni che hanno messo in moto il processo di “differenziazione” ex art. 116 c. 3 v. invece Balduzzi R., Servetti D. (2019), Regionalismo differenziato e materia sanitaria, in Rivista A.I.C., n. 2.

 

[42] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 23 (terzultimo paragrafo).

 

[43] Pallante F. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute, cit., pp. 2-3.

 

[44] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 23 (penultimo paragrafo).

 

[45] Pallante F. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute, cit., p. 4.

 

[46] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 23-24.

 

[47] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 24 (ultimo capoverso della lettera d).

 

[48] Per quanto precede, v. sempre l’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 24 (terzultimo capoverso della lettera d).

 

[49] Pallante F. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute, cit., p. 4.

 

[50] V., al riguardo, allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 16.

 

[51] Alla lettera g) del «Documento di indirizzo» in esame: allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 28.

 

[52] Così l’art. 10 comma 1 del d.lgs. n. 517/1993. Sui fondi sanitari integrativi e sulle questioni sollevate dalle richieste della Regione Piemonte in materia, si rinvia ancora a Pallante F. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute, cit., pp. 4 ss., ove ulteriori riferimenti.

 

[53] Nell’ambito di una parte del Documento regionale che risulta, invero, assai articolata (v. allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 19-23). Per un esame più dettagliato delle richieste avanzate dalla Regione in queste materie si veda Cerruti T. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di lavoro e istruzione, in questa Rivista, n. 1.

 

[54] In questi ambiti la Regione chiede, in particolare, di poter definire degli «accordi con l’Ufficio scolastico regionale per una programmazione dell’offerta fondata sul pieno e concordato utilizzo degli strumenti di flessibilità e autonomia», previsti dall’attuale legislazione scolastica (v. l’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 21-22).

 

[55] Come osserva Cerruti T. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di lavoro e istruzione, cit., p. 5, sull’edilizia scolastica la l.r. n. 28/2007 (legge regionale di riferimento in materia di istruzione) prevede attualmente che la Regione possa intervenire (solo) nel quadro di quanto disposto dalla normativa statale; sul diritto allo studio, che la Regione possa «disporre diverse forme di interventi nei limiti delle risorse disponibili ma senza particolari vincoli normativi»; mentre per quanto riguarda l’assegnazione dei contributi alle scuole paritarie, la l.r. attribuisce tale funzione all’ente regionale, ma non dispone nulla in merito alla sua «disciplina».

 

[56] Per quanto precede, v. l’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 21-23.

 

[57] V. retro, par. 2, nonché Cerruti T. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di lavoro e istruzione, cit., p. 1.

 

[58] Questa legge regionale – riformando la l.r. n. 34/2008, «Norme per la promozione dell’occupazione, della qualità, della sicurezza e regolarità del lavoro» – ha riorganizzato l’Agenzia Piemonte Lavoro (ente strumentale della Regione), attribuendole i compiti di gestione dei Centri per l’impiego territoriali, allo scopo «garantire il permanente esercizio, differenziato nei diversi territori, delle funzioni amministrative già esercitate dai servizi provinciali per l’impiego» (l’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 19).

 

[59] Per le richieste che precedono v. l’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 19-21.

 

[60] Si pensi, per esempio, alla questione del reclutamento dei cc.dd. navigator (a cui la legge sul reddito di cittadinanza ha attribuito il compito di orientare i fruitori della misura nella ricerca di opportunità di lavoro), oggetto di polemica politica nel recente passato.

 

[61] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 24, dove si ricorda – in particolare – l’esperienza applicativa del regolamento sulla «Disciplina del Patto di stabilità interno degli enti locali piemontesi per l’anno 2010» (regolamento 8 febbraio 2010, n. 3/R, reperibile al link http://arianna.consiglioregionale.piemonte.it/regint/jsp/IndiceCronologicoCoord.jsp?DEC=2010).

Per un’analisi generale dei profili di gestione della finanza pubblica (e dei relativi vincoli) connessi al processo di attuazione del regionalismo differenziato si veda Piperno S. (2019), Prospettive del regionalismo asimmetrico in Italia: profili economici e di finanza pubblica, in questa Rivista, n. 1.

 

[62] V. sempre l’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., pp. 25 s. (da cui sono tratte le citazioni che seguono nel testo). La materia della finanza pubblica territoriale – nel quadro dell’obbligo di equilibrio di bilancio introdotto dalla l. cost. n. 1/2012, ed in un contesto concreto di perdurante difficoltà economica del nostro Paese – è in questo periodo particolarmente discussa (anche proprio in relazione alle proposte di attuazione dell’art. 116 comma 3 Cost. presentate da numerose Regioni) e di recente ha formato oggetto di numerosi ed incisivi pronunciamenti della Corte Costituzionale: sentenze n. 94/2018, 101/2018, 6/2019, 18/2019, 33/2019 (v., in materia, anche Servizio Studi della Camera, Gli investimenti degli enti locali: intese regionali e patti di solidarietà nazionale, 7 marzo 2018, reperibile al link http://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1105436.pdf?_1551154008631).

 

[63] Sulla possibilità di ricorso all’indebitamento da parte degli enti locali, e sul correlativo obbligo di riequilibrio finanziario in conformità ai principi costituzionali (e…della giurisprudenza costituzionale), si consideri il recente “caveat” della Corte, operato con la sentenza n. 18/2019.

 

[64] Sulla tassa automobilistica (c.d. bollo auto) in particolare si vedano, da ultimo, le precisazioni fornite dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 122/2019: in essa è stato affermato che la tassa automobilistica ha un regime diverso e peculiare rispetto a quello degli altri tributi «derivati» (la Corte la ha definita un «tertium genus» tra i «tributi propri autonomi» e quelli «derivati» delle Regioni), e pertanto le Regioni possono introdurre delle esenzioni non previste dal legislatore statale, al fine di «rispondere a specifiche esigenze di differenziazione» e di promuovere un’autonoma politica fiscale in materia.

 

[65] Per una minuta analisi dei profili giuridici della “questione” – con riferimento, in particolare, agli atti di diritto internazionale ed interno sulla cui base è stato dato avvio alla realizzazione di tale opera, ed agli spazi di praticabilità (e, nel caso, a quale livello istituzionale) di un eventuale referendum popolare riguardante la sua prosecuzione/interruzione– si veda Luther J. (2018), Qual(che)e referendum sulla nuova linea ferroviaria Torino- Lione?, in Il Piemonte delle Autonomie, n. 3.

 

[66] V. sopra, par. 1.

 

[67] Evidenziati nel paragrafo precedente.

 

[68] V. anche infra, su questo aspetto.

 

[69] Per quanto precede v., in particolare, Pallante F. (2019), Nel merito del regionalismo differenziato, cit., pp. 16 ss., nonché i documenti degli «Accordi preliminari» tra queste Regioni ed il Governo, e delle successive bozze di intesa, pubblicati ai links https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01067303.pdf e http://www.affariregionali.gov.it/attivita/aree-tematiche/autonomia-differenziata/autonomia-differenziata-articolo-116-iii-comma-della-costituzione/.

 

[70] V. al riguardo, rispettivamente, Pallante F. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute, cit., p. 5, e Cerruti T. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di lavoro e istruzione, cit., p. 6.

 

[71] Per le quali v. retro, par. 1.

 

[72] Per la prospettazione di questi due modelli si vedano, in particolare, Grosso E., Poggi A. (2018), Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, cit., pp. 3 ss., e Dogliani M. (2018), Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano, cit., pp. 2 ss..

 

[73] Dogliani M. (2018), op. ult. cit., p. 2. V. inoltre, sul possibile «finanziamento dell’asimmetria», Piperno S. (2019), Prospettive del regionalismo asimmetrico in Italia, cit., § 3.

 

[74] Anzi, in una certa prospettiva sarebbe una misura organizzativa necessaria per attuare pienamente la solidarietà nazionale e – suo tramite – l’uguaglianza tra i cittadini: «Si tratta di un processo perfettamente compatibile con il principio di uguaglianza. Può ritenersi anzi addirittura funzionale alla sua più completa realizzazione, nella prospettiva secondo cui: a) le differenze esistono (in natura); b) le differenze vanno progressivamente ridotte e infine rimosse; c) una più efficiente gestione delle risorse ed un migliore esercizio delle funzioni cui tali risorse sono destinate contribuirebbe – nel tempo – a “rimuovere gli ostacoli” che impediscono di fatto la piena realizzazione dell’uguaglianza» (Grosso E., Poggi A. (2018), Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, cit., p. 4).

 

[75] Grosso E., Poggi A. (2018), op. ult. cit., p. 3.

 

[76] Cioè – secondo i sostenitori di questo modello – «è giusto» che le Regioni trattengano.

 

[77] In definitiva, in questo secondo modello «il trasferimento di ulteriori competenze non è lo strumento per sostituire – a parità di costi – l’ente pagatore regione all’ente pagatore Stato (con le ovvie possibilità, per la regione, di effettuare incrementi di efficienza- efficacia- economicità), ma è lo strumento per incrementare la quota di tributi trattenuta dalla regione (senza vincolo di destinazione)» (Dogliani M. (2018), Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano, cit., pp. 2-3). Sull’inserimento del gettito fiscale del territorio tra i criteri per il calcolo del fabbisogno delle Regioni si vedano – oltre allo stesso Dogliani M. (2018), op. ult. cit., p. 4 – le notazioni critiche, in particolare, di Viesti G. (2019), Verso la secessione dei ricchi?, cit. (che ha suscitato un certo dibattito tra i costituzionalisti: v. la recensione di Pallante F. (2018), Autonomia differenziata: un pericolo per l’unità nazionale?, in questa Rivista, n. 3) e di Pallante F. (2019), Nel merito del regionalismo differenziato, cit., p. 15.

 

[78] Per questa qualificazione – contrapposta alla “differenziazione” «organizzativa» e «solidaristica» del primo modello – v. in particolare, Grosso E., Poggi A. (2018), Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, cit., p. 3.

 

[79] «L’autonomia differenziata non è una questione tecnico-amministrativa, ma un processo di grande – anzi, di “capitale” – significato politico perché potrebbe mettere in discussione il principio di uguaglianza tra gli italiani nella fruizione di alcuni grandi servizi pubblici nazionali: proprio di quei servizi che siamo soliti chiamare “le istituzioni dell’uguaglianza”, a partire dalla scuola. Le richieste di maggiore autonomia da parte di alcune regioni potrebbero colpire, cioè, le condizioni di vita dei cittadini italiani che vivono in altre regioni, fino a mettere in pericolo la stessa unità del paese»: Dogliani M. (2018), Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano, cit., p. 1.

 

[80] V. ancora, al riguardo, Pallante F. (2019), Nel merito del regionalismo differenziato, cit., pp. 14-16, e – in una prospettiva più generale – Dogliani M. (2018), Quer pasticciaccio brutto del regionalismo italiano, cit., pp. 2 ss..

 

[81] Allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 25.

 

[82] Non può infatti trascurarsi che il modello della “differenziazione” «competitiva», basato sul trattenimento “sul territorio” delle tasse pagate dai cittadini e sulla valorizzazione del gettito fiscale del territorio stesso quale criterio di calcolo dei “fabbisogni standard”, è seguito tradizionalmente (e sostenuto) soprattutto dalla Lega, che è diventata il primo partito politico piemontese e perciò anche l’“azionista di maggioranza” della nuova Giunta regionale.

Nel suo discorso di illustrazione del “programma di legislatura”, tenuto lo scorso 9 luglio davanti al nuovo Consiglio regionale, il Presidente Cirio ha criticato l’«eccessiva timidezza» della precedente maggioranza nell’affrontare il processo di “differenziazione”, e ha preannunciato di voler aumentare il numero delle materie in cui il Piemonte chiede maggiore autonomia e di voler concludere la trattativa con il Governo «non in coda ma accanto a Lombardia e Veneto», oltre ad una seduta di Giunta “tematica” sull’autonomia per il 19 luglio (v. https://www.regione.piemonte.it/web/pinforma/notizie/programma-legislatura-della-giunta-cirio).

 

[83] Li si riporta qui per comodità di lettura (dall’allegato A alla Delibera del Consiglio regionale del 6 novembre 2018, cit., p. 15): -1) «funzionalità» delle materie «rispetto alle scelte strategiche per lo sviluppo economico e territoriale che la Regione intende perseguire»; -2) «riunificazione di competenze di alcune materie che solo parzialmente sono state attribuite all’intervento legislativo regionale»; -3) «raggiungimento di obiettivi di semplificazione nel rapporto tra Pubblica Amministrazione e cittadino e tra Pubblica Amministrazione ed imprese»; -4) «individuazione di specificità nel contesto della programmazione ed erogazione di servizi in relazione soprattutto al contesto demografico».

 

[84] Pallante F. (2019), Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute, cit., p. 2.

 

[85] Retro, par. 3.