Le iniziative del Difensore Civico e il fattivo ascolto delle competenti Amministrazioni e degli organi politici regionali

 

 Francesco Abruscia1

 

Sommario: 1. Una nuova disciplina per l’Ufficio del Difensore Civico. – 2. L’attività del Difensore Civico quale Garante del diritto alla salute nel periodo della pandemia. – 3. La Difesa Civica e la garanzia del diritto all’abitazione. – 4. Conclusioni.

 

1. Una nuova disciplina per l’Ufficio del Difensore Civico.

La Relazione annuale realizzata dall’Avv. Augusto Fierro testimonia il mutamento della natura giuridica del Difensore Civico, oggetto di una marcata evoluzione nel corso degli ultimi decenni, che lo ha portato ad acquisire un esteso mandato per la tutela di qualsivoglia diritto, interesse ed aspettativa dei cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche2.

Nell’anno 2020 l’attività svolta motu proprio dal suo Ufficio è stata essenziale per tutelare la dignità delle persone ricoverate nei luoghi di cura e per contrastare le discriminazioni nell’accesso all’abitazione. Senza togliere rilievo ad altri settori di intervento – quali l’area della partecipazione al procedimento amministrativo, il territorio e l’ambiente, la fiscalità, il trasporto pubblico –, è stata proprio l’area dei servizi alla persona e quella delle pari opportunità ad evidenziare come, per rafforzare l’effettività della difesa civica, sia necessario un aggiornamento delle norme contenute nella legge regionale n. 50 del 1981. Tra gli obiettivi di maggiore importanza da raggiungere vi sono: l’ispessimento dei poteri istruttori del Difensore Civico; l’obbligo per le Amministrazioni di adottare sempre un atto espresso e motivato qualora intendano discostarsi da un suo parere; l’introduzione di un intervento straordinario di difesa civica per contrastare la condotta di un Organo politico regionale dannosa per la collettività.

È infatti fin troppo evidente come tutta una serie di questioni in materia di diritti fondamentali vengano oggigiorno tradotte in atti amministrativi, togliendo al legislatore il compito di stabilire regole che risolvano problemi ma, allo stesso tempo, garantiscano le libertà costituzionali. Questo tipo di decisioni si realizzano all’esterno delle dinamiche proprie della forma di governo parlamentare, perché il dialogo avviene fuori dal circuito della rappresentanza. È, dunque, necessaria la conoscibilità della motivazione tecnica delle decisioni adottate, unico strumento per rendere chiare ed intellegibili all’insieme dei consociati le ragioni poste alla base delle attività delle Amministrazioni e degli Organi politici. La gestione dell’emergenza, sanitaria ed economica, da Covid-19 ha messo in luce come dal punto di vista etico-giuridico non sempre questi atti abbiano avuto la forza ed il valore di garantire quel principio di giustizia della uguale dignità di ogni essere umano e di assenza di discriminazione sancito dalla Costituzione nell’art. 3. Per potersi definire improntata ai principi di legalità, imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost., l’attività amministrativa deve essere integrata con le iniziative e i suggerimenti del Difensore Civico, che deve essere supportato in primo luogo in quelle attività volte innanzitutto ad acquisire una più estesa informazione, dal punto di vista tecnico, di determinate situazioni.

 

2. L’attività del Difensore Civico quale Garante del diritto alla salute nel periodo della pandemia.

In qualità di Garante del diritto alla salute, funzione attribuita al Difensore Civico dalla legge regionale n. 19 del 2018, già nella Relazione riferita all’anno 2019 l’Avv. Fierro aveva invitato a ripensare il sistema della presa in carico degli anziani non autosufficienti, riflettendo sulla domiciliarità come luogo della cura e della protezione, e sul considerare l’istituzionalizzazione come soluzione estrema. La priorità, però, era stata ancora una volta non il potenziamento della tutela al domicilio, bensì programmi che hanno puntato ulteriormente ad incrementare il numero di posti in RSA, con quelle connesse inefficienze e storture (prime tra tutte le condizioni igienico sanitarie inaccettabili e l’attitudine autoritaria nel gestire la vita delle persone fragili) sulle quali, a partire dal marzo 2020, si è innestata l’incapacità di fronteggiare il Coronavirus. Quest’ultimo, che ha “beneficiato” proprio di questi luoghi per dispiegare la sua maggior letalità, potrebbe oggi svolgere la funzione di acceleratore del “soltanto pensato” processo di cambiamento delle strutture in questione.

Le innumerevoli richieste di intervento da parte di singoli cittadini ed associazioni aventi ad oggetto la tematica delle restrizioni e dei divieti alle visite di familiari ai propri congiunti ricoverati in strutture sanitarie e socio sanitarie non sono esclusivamente collocabili nella prima fase di lockdown, ma anche nei mesi successivi a questa. Soltanto all’inizio dell’emergenza pandemica l’isolamento dal mondo esterno dei ricoverati in tali strutture era stato compreso da familiari e congiunti, per le evidenti ragioni di tutela della salute. Poi, nei successivi periodi di progressiva riapertura delle attività sul territorio, le richieste di intervento pervenute all’Ufficio hanno testimoniato l’estrema complessità della questione. Un primo interrogativo di non facile risposta è: come operare un bilanciamento tra l’esigenza di protezione della salute delle persone ricoverate nelle strutture e le loro necessità relazionali e socio affettive? La tematica è stata oggetto di una Relazione del luglio 2020 trasmessa al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Salute e all’Assessore alla Sanità della Regione Piemonte, nella quale il Difensore Civico ha messo in luce come anche l’isolamento affettivo possa evolvere in fattore aggressivo della salute psicofisica dei pazienti ricoverati e, per questa ragione, debba essere doverosamente scongiurato alla pari del rischio di contagio. Alla fine di novembre dello scorso anno il Ministero della Salute ha emanato un Protocollo contenente indicazioni generali relative all’accesso dei visitatori alle strutture residenziali socio assistenziali, compatibilmente con il rispetto della loro autonomia, sollecitando soluzioni come le «sale degli abbracci», in controtendenza rispetto alla clausura più intransigente praticata ancora oggi in molte strutture. Un secondo interrogativo che ci si può legittimamente porre è se sia davvero il timore di un pregiudizio al buon funzionamento della struttura sanitaria a giustificare l’impossibilità dell’incontro con il paziente, oppure, se questo sia solo un pretesto per nascondere una qualche negligenza organizzativa. Le soluzioni adottate in altre Regioni dimostrano come non possa costituire un’attenuante il fatto che le uniche disposizioni emanate nell’immediatezza dell’emergenza – poi reiterate integralmente nei vari dpcm intervenuti successivamente – siano state quelle secondo le quali le visite andavano limitate ai soli casi indicati dalla Direzione sanitaria della struttura (art. 2, comma 1, lettera q), del dpcm n. 59 datato 8 marzo 2020). Sicuramente una possibile lettura della ratio della norma è quella che evidenzia il desiderio del Governo di allontanare fin da subito da sé possibili critiche o addebiti per una carente o intempestiva protezione dei ricoverati. Ad ogni modo, il fatto che solo sulle Direzioni sanitarie incombesse l’onere di adottare le misure necessarie a prevenire possibili trasmissioni di infezione ha generato una situazione di incertezza sulle misure effettivamente adottate nella struttura a tutela dei ricoverati. Il Difensore Civico si è trovato, dunque, a dover interpellare i Direttori amministrativi ed i Direttori sanitari delle strutture. Il più delle volte a tali richieste di informazioni non ha fatto seguito alcun riscontro. La mancanza di una risposta da parte dell’Amministrazione della struttura non ha consentito all’Ufficio di valutare compiutamente la fondatezza dei reclami pervenuti e, in particolare, dei dati fattuali specificamente segnalati, in un contesto di crescente asserita gravità della situazione evidenziata dai cittadini.

Discutibile sarebbe stata anche una delibera dell’Organo di governo della Regione, che aveva previsto la possibilità per le Aziende Sanitarie Locali di reperire nell’ambito di RSA posti letto da dedicare a pazienti Covid positivi. In una Lettera indirizzata dall’Avv. Fierro al Presidente della Giunta regionale, all’Assessore regionale alla Sanità e al Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 venivano sottoposti alla loro attenzione rilievi e suggerimenti riguardanti la situazione di particolare pericolo ed allarme verificatasi nelle RSA del Piemonte, specificando che la delibera in questione aveva suscitato perplessità, in quanto la non appropriata contiguità tra anziani non contagiati e pazienti Covid positivi poteva rendere più probabile il rischio di contagio3. Pur raccomandandosene il riesame e la riformulazione, l’assenza di un riscontro da parte dei destinatari della nota ha finito per vanificare anche le indicazioni contenute nel documento dei Presidenti degli Ordini dei Medici del Piemonte, che pone l’isolamento immediato dei sintomatici e dei positivi al centro dell’azione di mappatura e di monitoraggio delle residenze per anziani e delle RSA.

 

3. La Difesa Civica e la garanzia del diritto all’abitazione.

Nel corso dell’ultimo triennio il Difensore Civico si è occupato in diverse occasioni della questione relativa ai criteri di selezione per l’accesso agli alloggi di edilizia sociale individuati dall’Amministrazione regionale e dagli Enti locali, al fine di garantire il diritto all’abitazione e di rimuovere ogni profilo della normativa che operi discriminazioni rispetto al bisogno abitativo di individui e di nuclei familiari svantaggiati. Com’è noto, i legislatori regionali per cercare di soddisfare il bisogno abitativo, compatibilmente con le risorse economiche a disposizione, hanno introdotto, tra i requisiti per accedere ad un alloggio sociale, criteri afferenti al «radicamento territoriale» oppure alla «stabilità della residenza» dei richiedenti in un determinato Comune e/o Regione. Dal momento che la richiesta di un’abitazione costituisce una pretesa volta a soddisfare un bisogno sociale ineludibile – in quanto l’abitazione rappresenta un bene di primaria importanza per il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma secondo, Cost.) –, conseguentemente i criteri individuati dal legislatore regionale per selezionare i beneficiari devono presentare un collegamento con la funzione del servizio, che dovrà essere valutato secondo il principio di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.). Partendo dall’analisi della più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia (ovvero i tre casi emblematici di Valle d’Aosta, Lombardia ed Abruzzo), nell’ultima Relazione annuale il Difensore Civico si interroga nuovamente sulla legittimità costituzionale della legge n. 3 del 2010, modificata nel 2018, che disciplina la materia dell’edilizia sociale della nostra Regione4. La conclusione a cui perviene è quella di una quasi integrale sovrapponibilità dell’art. 3, comma 1, lettera c), della legge sull’edilizia sociale in Piemonte con l’art. 22, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia n. 16/2018, dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 44/2020 della Consulta, limitatamente alle parole «per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda». Se i criteri adottati dal legislatore per la selezione dei beneficiari dei servizi sociali devono sempre presentare un collegamento con la funzione del servizio, e se la Corte opera il giudizio sulla sussistenza e sull’adeguatezza di tale collegamento mediante l’identificazione della ratio della norma di riferimento, per passare poi alla verifica della coerenza con tale ratio del filtro selettivo introdotto, allora anche il requisito della permanenza nel territorio piemontese da almeno cinque anni non supererebbe la verifica di coerenza, perché si risolverebbe in una soglia rigida che porterebbe a negare l’accesso all’edilizia residenziale pubblica a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente. Esso potrebbe soltanto rientrare tra gli elementi da valutare in sede di formazione della graduatoria, ma non costituire una condizione di generalizzata esclusione dall’accesso al servizio.

In merito al secondo requisito per accedere ad alloggi di edilizia sociale, ovvero l’obbligo di presentare la documentazione che attesta che tutti i componenti del nucleo familiare non possiedono un alloggio ubicato in qualsiasi comune del territorio nazionale o all’estero adeguato alle esigenze del nucleo familiare, sono intervenuti nel marzo e nel novembre 2019 due atti amministrativi per tentare di chiarire la portata di tale aggravio procedimentale. La Circolare del Presidente della Giunta regionale ha stabilito la possibilità per l’interessato di produrre un’apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, attestante l’assenza delle proprietà immobiliari in questione – ignorando che il Testo unico in materia di documentazione amministrativa (dpr. n. 445/2000) non consente ai cittadini di Paesi extra UE di produrre autocertificazioni o dichiarazioni sostitutive relative a situazioni non accertabili dalle Autorità pubbliche italiane –. La Circolare dell’Assessore competente in materia edilizia residenziale pubblica ha aggiunto che tale dichiarazione sostitutiva non è sufficiente per i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea, i quali devono produrre apposita certificazione o attestazione rilasciata dalla competente autorità dello Stato di nazionalità. Ancora una volta il Difensore Civico riesce a rinvenire una sovrapposizione di disposizioni, perché gli effetti che conseguono dall’ultima Circolare sono identici a quelli generati dall’art. 7, lettera d), del Regolamento della Regione Lombardia n. 4 del 4 agosto 2017: negare l’accesso al diritto qualora i cittadini extra comunitari provengano da Paesi in cui manchi un sistema di censimento formale degli immobili privati in appositi Registri immobiliari analoghi al nostro Catasto. L’Avv. Fierro precisa come le due Circolari siano viziate tanto sul piano procedurale quanto sul piano sostanziale. In primo luogo, dopo aver evidenziato che tali provvedimenti siano delle circolari esclusivamente nella forma, ma nei contenuti si rivelino essere due regolamenti, segnala che l’art. 27 dello Statuto della Regione non consente né ai singoli Assessori né al Presidente della Giunta di emanare regolamenti, facoltà che spetta esclusivamente alla Giunta Regionale. In secondo luogo, eccepisce il vizio della violazione di legge dovuto al contrasto sia con l’art. 5, comma 2, della legge regionale n. 5/2016, che assegna alla Regione il compito di prevenire e contrastare le discriminazioni dirette ed indirette nell’accesso alla casa, sia con l’art. 106 della legge n. 19/2018, dal momento che i richiedenti italiani vengono esentati dal produrre la certificazione dimostrante l’impossidenza “all’estero” di una proprietà immobiliare adeguata alle esigenze del nucleo familiare. Per questi motivi, il Difensore Civico ha invitato il Consiglio regionale a riformulare le lettere b) e c) dell’art. 3 della legge regionale in materia di edilizia sociale e l’Assessore competente in materia di edilizia residenziale pubblica a riesaminare il testo della Circolare. Con una nota del maggio 2020 l’Assessorato alla Casa ha promesso di farsi promotore di un’iniziativa legislativa riformatrice della materia, auspicando che la stessa possa essere condivisa dal Consiglio Regionale.

 

4. Conclusioni.

Dalla lettura della Relazione annuale del Difensore Civico emerge dunque, in conclusione, come il 2020 sia stato un anno difficile sul piano del rapporto tra efficienza e legalità dell’azione amministrativa e sul piano del rapporto fra trasparenza ed efficienza.

Rapportando i risultati dell’azione organizzativa con la quantità di risorse impiegate per ottenere quei dati risultati, è evidente che se le Amministrazioni avessero incentivato il dialogo con il Difensore Civico avrebbero conseguito maggiore efficienza, perché sarebbe stato “l’arma in più” all’interno di quei fattori produttivi di cui esse già dispongono, e dalla cui combinazione ottimale dipende l’aumento della capacità di raggiungere i propri obiettivi. Così come ne sarebbero derivati maggiori benefici in termini di rapporto tra ciò che le Amministrazioni e gli Organi politici hanno realizzato e quanto si sarebbe dovuto realizzare sulla base del programma emergenziale. Pertanto, una maggiore efficienza e una maggiore efficacia sfumate. Il principio del buon andamento non è sempre stato compatibile con l’ottica della legalità. Il conflitto si è proposto con crescente intensità a partire dall’estate 2020, quando ordinanze regionali e comunali si sono mosse nella direzione opposta a quelle emanate nella prima fase della pandemia, che si erano poste principalmente l’obiettivo di accentuare ulteriormente gli effetti restrittivi dei dpcm. Ciò ha rappresentato una riscrittura di quella legalità che va sempre riconosciuta come un’esigenza che né può essere assente nel quadro generale di alcun ordinamento statale né tantomeno può essere oggetto di una sanatoria ex post, com’è avvenuto attraverso il decreto legge n. 19 del 2020. Se ponessimo l’accento sull’importanza del fatto che l’azione amministrativa debba essere orientata alla logica del risultato, la considerazione specifica dei dati reali e dei problemi concreti su cui insiste l’azione non può prescindere dagli spunti critici e dagli interventi del Difensore Civico, senza i quali, conseguentemente, il mancato raggiungimento del risultato determinerebbe l’illegittimità dell’azione medesima. Se, diversamente, partissimo dal presupposto secondo il quale l’amministrazione non possa essere identificata con un’organizzazione che debba essere responsabilizzata soltanto sui risultati, ponendo l’enfasi sugli interessi generali da curare e sull’utilizzo di risorse pubbliche – che, per l’appunto, potrebbero non consentirlo –, nemmeno in questo caso potremmo concludere che l’eccessivo condizionamento normativo dell’attività dell’amministrazione non debba essere rimeditato profondamente, al fine di contemperarlo con le esigenze del buon andamento. L’attività del Difensore Civico andrebbe a contemperare, non ad imporre, principi incompatibili con la natura dell’amministrazione.

Le esigenze di efficienza e di prontezza dell’azione amministrativa sono risultate troppe volte in contrasto con i doveri che l’amministrazione deve osservare onde rendere intellegibile la propria azione e visibile la propria struttura. È vero che la pubblicità e la trasparenza possono confliggere con altri principi, ma dalla Relazione annuale del Difensore Civico è ormai chiaro che l’amministrazione nel compiere quelle attività per comunicare ai cittadini notizie, dati e atti non è più sola.

In qualche misura l’attività dell’Ufficio del Difensore Civico costituisce la traduzione di principi costituzionali, diventando vero e proprio parametro giuridico dell’attività e dell’organizzazione amministrativa.

 

1 Dottore magistrale in Giurisprudenza presso l’Università di Torino”.

 

2 E. Grosso, Prendere sul serio le indicazioni del difensore civico regionale. Un invito per istituzioni e studiosi in occasione del dibattito sul regionalismo differenziato, in Il Piemonte delle Autonomie, n. 1/2019.

 

3 F. Pallante, Il Servizio sanitario regionale piemontese di fronte alla pandemia da Covid-19, in Il Piemonte delle Autonomie, n. 2/2020, spec. pp. 5-6.

 

4 F. Paruzzo, Accesso all’edilizia sociale: residenza protratta e certificazione dell’assenza di proprietà immobiliari. Quando differenziare è discriminatorio,in Il Piemonte delle Autonomie, n. 2/2020.