Le province in trasformazione: “miserere” o “resilienza”?

Jörg Luther1

 

1. Introduzione.

Oggetto dello studio d’équipe2 introdotto da queste pagine sono le recenti riforme amministrative e politiche che sia de lege lata, cioè con la cd. riforma Delrio,sia de constitutione ferenda, cioè con il consenso apparentemente bipartisan sulla loro “decostituzionalizzazione”,investono le province3 .

La tesi desumibile dal titolo è che è in atto un processo politico di trasformazione delle province nel quale si scontrano minacce radicali di soppressione con forze di conservazione di valori ed interessi molteplici. Non spetta alla scienza giuridica fare profezie o consulenze politiche, ma si devono focalizzare alcuni aspetti generali e particolari di questo processo di trasformazione dagli esiti incerti, anche perché dipende dalle dinamiche sia delle riforme costituzionali, sia di quelle istituzionali.

In sede di introduzione occorre contestualizzare il contesto storico e geografico dell’istituzione provincia (2.), evidenziando le tendenze di sviluppo delle strutture, funzioni e relazioni dell’istituzione con le altre istituzioni della multilevel governance (3.). Sotto il profilo del diritto costituzionale vigente, non bisogna cedere alla tentazione di lasciare l’ombra di dubbi di costituzionalità guardando al carattere apparentemente transitorio della legge Delrio (4.), dubbi solo in parte superati dalla sent. n. 50/2015 (5.). Sotto il profilo di quello futuro occorre valutare l’impatto della prospettata decostituzionalizzazione e della riforma del regionalismo sui progetti di soppressione o di ulteriore trasformazione radicale (6.). Sotto il profilo del diritto amministrativo si tratta di interpretare il nuovo termine delle “funzioni di area vasta” e di esaminare le procedure di individuazione di tali funzioni (7.). Inoltre occorre riflettere sul ruolo degli statuti nella ridefinizione della struttura organizzativa (8.). Infine devono essere accennate le novità della legge di stabilità per il 2015 e del d.l. n. 78/2015 (9.). Si tratta di un insieme di osservazioni che non possono azzardare previsioni, ma cercano di individuare le incertezze di sviluppo del quadro normativo (10).

 

2. L’ironia della storia piemontese delle province.

Quando il futuro diventa incerto cresce la domanda di storiografia. Le province sono notoriamente considerate un patrimonio di storia istituzionale piemontese che risale peraltro ben oltre alla cd. legge Rattazzi del 23 ottobre 1859 n. 3702. Il Regio Editto 7 ottobre 1814 n. 70, ridefinendo le circoscrizioni delle province dipendenti dal Senato del Piemonte e la loro divisione in mandamenti (art. 1), accoglieva i dettami dell’atto di Vienna4 e restaurava le settecentesche intendenze di provincia. iI trattava di istituzioni a misura di trasporti a cavallo già modernizzate dall’editto di Carlo Emanuele del 3 settembre 1749 e risalenti fino ai tempi della monarchia assoluta sabauda del cinquecento che a sua volta aveva recepito l’istituto – sul modello dell’antico regime francese5 – dal diritto romano e dall’organizzazione dello Stato Pontificio6 .Quel che allo storico si presenta come una reinvenzione sabauda dell’amministrazione per circoscrizioni di territori conquistati “pro-vincere” e che al comparatista appare addirittura come una recezione del modello olandese delle “province-unite”, sin dal 1556 governate da Emanuele Filiberto, dalla storiografia costituzionale italiana è stato caricato invece principalmente di significati e valori liberali ottocenteschi.

Le 40 “province” sabaude del 1818 furono aggregate nel 1838 in 6 “divisioni”7. Lo spirito Albertino di restaurazione rivoluzionaria li fece dotare nel 1842 di “congressi provinciali” ed erigere in “corpi morali” con l’editto del 1847. Poiché l’Italia non poteva risorgere né da “divisioni”, né da nuove regioni, la riforma Rattazzi nel 1859 decise, sul modello del Regno d’Italia (e forse anche di quello prussiano8), di rinominarle province, definendoli “vasti (!) centri amministrativi, intorno ai quali si rannodi l’amministrazione delle varie province dello Stato” e articolandoli in circondari e mandamenti9.

L’ironia della storia vorrebbe che a due secoli dal salvataggio dei consigli provinciali nobiliari imposta dall’atto di Vienna e a un secolo e mezzo dalla riforma di Rattazzi, incomberà proprio a un Piemonte diventato Regione a dover decidere se salvare le province “proprie” come enti ibridi che potrebbero regionalizzati, ordinamenti parziali cioè dell’ordinamento regionale.

Ripercorrendo la storia ulteriore delle province, si potrebbe aggiungere che anche il riconoscimento di un’autonomia politica oltre che amministrativa alle province corrisponde oramai a una consuetudine centenaria perché risale almeno fino alla giolittiana legge del 19 giugno 1913, n. 640 introduttiva del suffragio semipopolare amministrativo. Tale consuetudine predemocratica fu invece significativamente interrotta e revocata dalla legge 27 dicembre 1928, n. 2962 (“Riforma dell’Amministrazione provinciale”) che introduceva le figure del Preside e dei “Rettori” per un numero di 4 a 8 a nomina ministeriale, sancendo peraltro la gratuità di tali cariche (art. 2 co. 3: derogabile per il Preside, art. 2 co. 6 inderogabile per i Rettori).

Nell’assemblea costituente, la prima idea della Commissione dei 75 era di ripartire la Repubblica solo in Regioni e Comuni e di aggiungere la seguente disposizione: “Le Province sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale”. Tale impostazione filo-regionalista fu superata dalla scelta di recepire la formula minghettiana del riparto della Repubblica in Regioni, Province, Comuni e di affidare allo Stato la difesa delle funzioni amministrative degli enti locali, scelta integrata da una disposizione insieme transitoria e finale significativamente mai abrogata e tuttora monito per i riformatori della Costituzione: “La Repubblica, entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni.”

L’art. 128 della costituzione del 1947 esigeva l’approvazione di leggi generali della Repubblica per fissare i principi dell’autonomia delle provincie e per determinarne le funzioni, ma l’attuazione si fece aspettare fino alla legge n. 142/1990. Alla riforma del titolo V del 2001, le province arrivarono con lo spirito del federalismo amministrativo delle riforme Bassanini, forti di statuti e presidenti ad elezione diretta e con un T.U.E.L. che, secondo autorevole dottrina vedeva il loro ruolo “ormai chiaramente legato …. alla pianificazione e alla programmazione di area vasta e alla gestione dei servizi di rete, così come alla tutela dell’ambiente, nell’accezione più ampia del termine (rifiuti, acqua, caccia, ecc.), e alla protezione civile” 10.

Il nuovo art. 114 della riforma costituzionale del 2001 intendeva mettere fuori discussione la legittimazione istituzionale della provincia, ma il completamento legislativo della riforma costituzionale tardava nuovamente. La legge La Loggia n. 131/2003, la controriforma costituzionale respinta dal referendum del 2006, la parziale non attuazione della legge n. 42 del 2009 sono solo il preludio dell’odierna crisi d’identità istituzionale e delle trasformazioni in atto.

 

3. Le trasformazioni dell’ente intermedio tra crescenti diversificazioni e asimmetrie nella multilevel governance.

Nei tempi delle crisi multipli, prima finanziaria e poi economica, ora anche sociale e politica, tutti gli enti pubblici territoriali e tutti i livelli di governo, dalle organizzazioni internazionali e dagli stati fino ai municipi sono sempre sotto stress e in trasformazione. Il termine di “transizione” che era stato assunto a denominazione della storia istituzionale sin dagli anni novanta non è più idoneo a spiegare quel che sta succedendo alle province italiane. Dopo il fallito tentativo di riordino territoriale del governo Monti con i decreti-legge Salvaitalia (201/2011) e Spending review (95/2012) e dopo l’entrata in vigore della legge n. 56/2014 (cd. “legge Delrio”), le province si trovano ancor più degli altri enti in una vera e propria trasformazione, cioè nel linguaggio del diritto societario, in un processo di successivo mutamento da un tipo di ente ad un altro.

Il termine “trasformazione” è appropriato perché spiega perché anche agli enti pubblici si applicano le regole generali che una trasformazione a) non comporta l’estinzione dell’ente e la creazione di un ente nuovo, b) è consentita anche in pendenza di procedure di dissesto, ma c) deve rispettare da un lato la riserva di legge per l’organizzazione della p.a. di cui all’art. 97 della costituzione, dall’altro lato le garanzie costituzionali dell’autonomia locale di cui agli articoli 5 e 114 della Costituzione.

A differenza della soppressione, la trasformazione non crea problemi di liquidazione e successione nelle attività e passività, ma non esclude neppure che “entia sunt diminuenda”. A differenza del semplice mutamento, una trasformazione investe tuttavia i profili identitari dell’istituzione, o, se si preferisce, la stessa “forma di provincia”. Non tutti i profili identitari sono o saranno investiti: il riordino territoriale. che avrà conseguenze anche per le denominazioni degli enti interessati, è rinviato sine die euna nuova denominazione della categoria, a quanto pare, non osa proporre nessuno.

Quali sono allora i momenti o aspetti principali della trasformazione delle province in atto? L’identità di un ente pubblica può essere studiata in un’ottica sistemica sotto tre aspetti generali: struttura, funzioni e relazioni tra di loro e con gli altri enti pubblici. Sotto il profilo della struttura, la legge n. 54/2014 sta comandando la trasformazione degli organi della provincia da organi elettivi di rappresentanza diretta della cittadinanza in organi elettivi di rappresentanza dei comuni. Sotto il profilo delle funzioni, la trasformazione ridefinisce le province come “enti con funzioni di area vasta”.

Prima di entrare nelle problematiche giuridiche di tali aspetti, conviene accennare al contesto delle relazioni delle province tra di loro e con gli altri enti. Per quanto riguarda le relazioni tra province, va notato come a fronte di una carenza di dati sull’interprovincialità, la categoria si è molto frammentata attraverso una crescente diversificazione tipologica (A). Per quanto riguarda invece le relazioni con gli altri enti, il livello intermedio tra comuni e regioni è messo in crisi da una crescente globalizzazione ed “europeizzazione” delle politiche in una multilevel governance che sembra ancora espandersi più che contrarsi, e nella quale crescono anche le asimmetrie tra i livelli (B).

 

(A) Il quadro della diversificazione delle province.

Sotto il profilo delle relazioni, le 110 (o, con la Valle d’Aosta, 111) province italiane si stanno specializzando e diversificando più perfino dei comuni e delle regioni:

(1) Province trasformate in Regione a statuto speciale (Valle d’Aosta)

(2) Province autonome con poteri legislativi all’interno di una regione speciale (Trento e Bolzano)

(3) Province trasformate in Città metropolitane nelle regioni ordinarie (10)11

(4) Province trasformate in Città metropolitane siciliane (3)

(5) Province in attesa di legge istitutiva di Città metropolitana sarda (Cagliari)

(6) Province in attesa di iniziativa per l’istituzione di Città metropolitana disciplinata da legge regionale del Friuli-Venzia-Giulia (Trieste)

(7) Province regionali siciliane trasformate in liberi consorzi comunali (9), anche su territori delle città metropolitane12

(8) Province regionali sarde (8, di cui 4 istituite con legge regionale abrogata da referendum, 4 istituite da legge statale dei quali un referendum consultivo ha chiesto la soppressione)

(9) Province regionali del Friuli-Venezia-Giulia (4 in pendenza di proposta di legge costituzionale di soppressione)13

(10) Province montane e confinanti con altri Paesi (art. 1 co. 3 per. 2 l. n. 56/2014), con o senza particolari forme di autonomia riconosciute dalla legge regionale (Belluno, Sondrio, Verbano-Cusio Ossola)(11) Province nelle regioni ordinarie quali “enti territoriali di area vasta” (art. 1 co. 3 l. n. 56/2014).

L’ultimo modello residuale rappresenta ancora una maggioranza numerica di enti, ma potrà subire ulteriori diversificazioni. A seconda delle scelte del legislatore regionale potrebbero restare a funzioni invariate, diminuite o incrementate. Nella misura in cui sarà prescritto l’esercizio associato delle funzioni potrebbero trasformarsi in “province in unione” o addirittura in “de-facto-macroprovince”. Nulla vieterebbe allora il sorgere di una nuova categoria di “piccole province”.

Questo quadro è sufficientemente impressionante. La diversificazione potrebbe essere percepita medio termine come eccessiva, alimentando richieste di semplificazione e, in mancanza di prospettive certe, anche proposte di abolizione della categoria.

 

(B) Il quadro delle dinamiche della multilevel governance.

.(1) A livello internazionale sono ovviamente più le città metropolitane a competere che le province. Molte province si occupavano finora anche di progetti di cooperazione internazionale. Inoltre potrebbero essere un ambito ottimale per l’amministrazione dell’integrazione dei migranti, specialmente nelle aree rurali. In ogni caso sono interessate dalle debolezze della tutela internazionale dell’ambiente. La comparazione dimostra l’esistenza diffusa di Local Intermediate Authorities (LIA) in tutti gli stati europei e anche extraeuropei grandi, ma raramente agiscono oltre la dimensione europea14. L’associazione tedesca, il Landkreistag, cerca di agire indirettamente a livello internazionale per il tramite della politica estera europea, intervenendo sui negoziati per il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (= Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP) e per il Trattato Transatlantico sui Servizi (= Trade in Services Agreement“,TiSA)15. La Local Government Association del Regno Unito si è fatta promotrice di reti internazionali quali il Commonwealth Local Government Forum (CLGF), lo International Council of Local Environmental Initiatives (ICLEI) e United Cities and Local Governments (UCLG)16. L’assemblée des départements francese ha sostenuto invece la riforma territoriale francese che prevede un rafforzamento delle regioni al fine di sostenere l’internazionalizzazione delle imprese17.

(2) A livello UE sono in atto o in elaborazione politiche esterne ed interne (ad es. l’obiettivo “smart growth” di Europa 2020, il programma “Connecting Europe”, la direttiva sull’efficienza energetica, le politiche agrarie, la riforma del diritto degli appalti) che incidono sia sulle funzioni sia sulle finanze provinciali, ragione per cui l’UPI ha aderito alla CEPLI (European Confederation of Intermediate Local Authorities) che unisce associazioni di otto paesi, esclusi UK e Spagna e gli altri Stati UE più piccoli con soli enti regionali (NUTS) o locali (LAU). I rappresentati delle province italiane nel Comitato delle Regioni (CoR) possono partecipare, ma difficilmente il CoR potrà occuparsi direttamente della riforma italiana delle province.

L’Eurozona nell’UE “chiede” allo Stato riforme strutturali che impattano anche sulle province, cui “risponde” un’apposita voce “Province” del documento del ministro delle finanze del febbraio 2015 “Italy’s Structural Reforms since October 201418:

“+ Provinces are undergoing a process of massive downsizing which will end up transferring most of their functions to Regions and Municipalities.

+ According to the D.L. 90/2014 the process of easy mobility aims at reducing territorial limitations, possibility of deskilling of redundant staff as an alternative of firing.

+ Starting from Jan. 2015, the mobility process becomes effective: the redundant personnel is to be re-allocated among Regions, Municipalities and other public administrations.”

(3) A livello nazionale italiano si elaborano le riforme strutturali, incluso il procedimento di revisione della Costituzione che prevede la decostituzionalizzazione della Provincia. Non è ancora terminata la spending review. La riforma della geografia giudiziaria è oramai in piena attuazione, mentre quella delle prefetture e delle altre pubbliche amministrazioni statali periferiche pende ancora al Senato (A.S. 1577). Si progettano processi di riordino territoriale e funzionale degli uffici periferici dell’amministrazione statale (110 prefetture, 103 Ragionerie, 107 direzioni provinciali dell’Agenzia delle Entrate, 109 archivi notarili, 120 soprintendenze, 110 uffici scolastici, 109 direzioni regionali e territoriali del lavoro), ma anche, ad es., una riforma degli uffici postali. Anche la riforma delle autonomie funzionali interessa i territori provinciali.

(4) A livello regionale, lo slancio delle città metropolitane e la crisi delle province rischia di accrescere delle asimmetrie esistenti o di produrne delle nuove. In Piemonte è stata avviata una riforma strutturale dell’amministrazione sanitaria che non si è potuto coordinare con la riforma delle province. In data 30 dicembre 2014 è stato poi presentato al consiglio regionale piemontese il disegno di legge regionale n. 86 “Principi per il riordino delle funzioni amministrative in attuazione della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni)” che si limita a confermare le attribuzioni vigenti e a prescrivere l’esercizio in forma associata obbligatoria di funzioni amministrative nelle materie di servizio idrico integrato, servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani, attività estrattive, energia, formazione e orientamento professionale e trasporto pubblico su gomma in “ambiti territoriali ottimali” che corrispondono a quattro nuove macroprovince (art. 3).

La legge della Regione Piemonte n. 8 del 20 aprile 2015 ha poi portato al “Riconoscimento della specificità della Provincia del Verbano-Cusio-Ossola” che non fa altro che ripetere le promesse della legge Delrio, rinviando l’adempimento alla legge di riordino.

Nel frattempo, i sindaci eletti a presidente della provincia sono entrati a fare parte del Consiglio delle autonomie locali (CAL) e della conferenza regionale delle autonomie, peraltro senza poter rivendicare un doppio voto. In ogni caso la riforma delle province rischia di delegittimare anche le regioni, già interessate da una serie di controversie di giustizia elettorale e dalle note vicende giudiziarie di “rimborsopoli”, peraltro non sincronizzate. In attesa di una riforma costituzionale con una tendenza di (ri-)accentramento si comincia in effetti a discutere anche sulle necessità di un accorpamento delle regioni esistenti (oltre che sulla ridefinizione e semplificazione delle specialità)..

(5) A livello locale aumenta nel frattempo la competizione tra comuni in aree metropolitane e comuni in aree provinciali per insediamenti produttivi e per l’allocazione di risorse statali, europee e regionali. L’intercomunalità è ancora in pieno sviluppo e non si dispone di database adeguati sulle unioni di comuni. La Conferenza Stato-Città ha raggiunto un’intesa sulla revisione dei criteri e la definizione degli obiettivi di Patto di stabilità interno assegnati ai Comuni per il 2015 (19. 2. 2015), tacendo invece sulle province.

Le tendenze di sviluppo delineate in questo quadro indicano una forte perdita di potere delle province a differenza delle città metropolitane. Se si avvicinano maggiormente ai comuni, si potrebbe parlare di un effetto di “glocalizzazione”, ma si leggono insieme i quadri sub A) e B), non sembra che si realizzi un processo di razionalizzazione e riequilibrio19, piuttosto una polarizzazione che metterà anche in difficoltà le regioni. Tra i comuni delle province, la riforma fin qui realizzata rischia di accrescere le asimmetrie e di produrre problemi di rappresentanza dei territori più deboli non risolvibili con la riforma del Senato, provocando dubbi di incostituzionalità.

 

4. I dubbi di costituzionalità relative alla riforma Delrio.

La legge n. 54/2014 apre la disciplina delle province notoriamente con una proposizione sibillina: “51. In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione, le province sono disciplinate dalla presente legge.” Il preavviso di riforma costituzionale, con rinvio implicito a un disegno di legge costituzionale, è un novum della legislazione ordinaria, reso peraltro ulteriormente bizzarro dalla proposizione successiva che si legge come una clausola di salvaguardia della costituzione vigente: “52. Restano comunque (!) ferme le funzioni delle regioni nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, e le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione.” Tutto questo potrebbe essere letto come un tentativo di neutralizzare come meramente formali e non ripetibili le censure accolte dalla sentenza della Corte costituzionale n. 220/2013, salvando in questo modo anche il commissariamento delle stesse province20.

Non essendo profeta, il giurista non può prevedere la durata dell’attesa. La legge resterebbero ovviamente in vigore anche se i disegni di riforma costituzionale decadessero con la fine naturale o anticipata dell’attuale legislatura. L’obbligo meramente politico del parlamento autore della legge n. 56/2014 di mantenere la propria promessa di riforma costituzionale ovviamente non vincolerebbe un parlamento nuovo. Sebbene l’opzione politica della soppressione delle province resterà sul tavolo della politica, l’esperienza insegna che anche delle scelte dichiaratamente provvisorie possono diventare permanenti.

Occorre tuttavia esaminare sia i prospettati o ulteriormente prospettabili aspetti di incostituzionalità della legge n. 56/2914 e degli altri strumenti legislativi di trasformazione, sia l’impatto dell’eventuale approvazione della riforma costituzionale approvata in prima lettura sulle basi giuridiche delle province in trasformazione.

Per quanto riguarda l’impatto della legge sulla Costituzione, va innanzitutto ricordato che l’odierno sistema della giustizia costituzionale italiana non prevede un accesso diretto delle province comuni alla Corte costituzionale che dichiara regolarmente inammissibili gli interventi dell’Unione delle Province d’Italia e di singole province se non sono parti in giudizi comuni nei quali si sollevano questioni di incostituzionalità in via incidentale. A questo limite strutturale ha in qualche misura rimediato la giurisprudenza costituzionale che sin dalla sent. n. 196/2004 considera, a condizioni non del tutto certe, le regioni legittimate a difendere indirettamente le autonomie provinciali e consente quindi alle province di sollecitare impugnazioni in sede di Consiglio delle autonomie locali.

Nel merito, i ricorsi proposti in via principale dalle Regioni Campania, Lombardia, Puglia e Veneto – governate dal centrodestra – e sollevate in via incidentale dal TAR Friuli-Venezia-Giulia sulla precedente e analoga legge regionale n. 2/2014 della Regione FVG presentano una pluralità di censure che includono la violazione delle competenze legislative regionali (art. 117 co. 3, 4, 118 co. 2 cost.), della procedura costituzionale di riforma territoriale (art. 133), delle garanzie relative ai poteri sostituitivi (art. 120), delle garanzie di autonomia finanziaria (art. 119 Cost.) fino al principio fondamentale dell’autonomia locale (art. 5, 114), includendo solo implicitamente i principi della democrazia (art. 1) e le garanzie della Carta europea dell’autonomia locale (art. 117 co. 1)21, parametri che sono stati invece oggetto di una petizione di numerosi costituzionalisti presentata durante il procedimento legislativo22.

Il TAR della Puglia ha peraltro dichiarato addirittura “manifestamente infondata” analoga questione riferita alla legge n. 56/2014 in un ricorso col quale un cittadino aveva impugnato l’elezione del Consiglio della Provincia di Taranto e il conseguente atto di proclamazione degli eletti23. La motivazione del provvedimento non entra nella verifica del requisito della rilevanza, ma apre con la constatazione sconcertante che “l’oggetto del presente giudizio verte sulla manifesta o meno incostituzionalità della l. 56/2014” e che a fronte della posizione “dei professori” il “Collegio, tuttavia, ritiene di aderire a quella impostazione che non ravvisa la manifesta infondatezza della legge”. Per quanto poi espone argomenti non irragionevoli per l’infondatezza della questione in alcuni dei molteplici parametri indicati dal ricorrente, per il resto non esaminati analiticamente, la decisione non motiva nemmeno perché sia “manifestamente” infondata la questione. Piuttosto cita la sentenza n. 220/2013 che nega espressamente di poter essere letta come un obiter dictum sul merito delle questioni relative alle riforme della provincia, questioni nuove ed aperte, non coperte dalla giurisprudenza costituzionale o tali da eccepire una carenza di valutazione della manifesta infondatezza. In un contesto nel quale non solo il Governo della Puglia ha ritenuto di dover impugnare la stessa legge, ma anche un altro TAR ha sollevato questione analoga, la scelta del giudice amministrativo di negare l’accesso alla Corte costituzionale con formule del tutto estranee al diritto processuale costituzionale vigente potrebbe essere poco prudente e non giovare alla certezza della democrazia.

In realtà, la legge n. 56/2014 non è né manifestamente incostituzionale, né manifestamente conforme alla Costituzione o alla possibile norma interposta della Carta europea dell’autonomia. Non sarebbe nemmeno sufficiente eccepire che esiste in un unico paese UE una Local Intermediate Authority con organi non direttamente eletti, cioè le “diputaciones” delle province spagnole. Al riguardo, l’art. 141 della Costituzione spagnola del 1978 dispone che la provincia è un ente locale “determinada por la agrupaciòn de municipios” e garantisce esplicitamente le “diputaciones” quale istituzione tradizionale, che risale fino alla costituzione del 1836, consentendo di sostituirle con “otras Corporaciones de caracter representativo”. Nella Costituzione spagnola, infatti, è una specifica clausola a legittimare l’eccezione dal principio fondamentale della legittimazione democratica diretta degli organi di governo territoriale. Nella Costituzione italiana invece, la riduzione della democrazia provinciale, a prima vista, appare tutt’al più giustificabile come un provvedimento temporaneo, teso a una rigenerazione della democrazia attraverso la successiva “riforma costituzionale”24. Ora, ove l’attesa della stessa si prolungasse e le competenze delle province non fossero riassegnate ad enti con organi ad alto livello di legittimazione democratica potrebbe essere violato il combinato disposto dei principi fondamentali di autonomia e di democrazia (art. 1 e 5 Cost.).

 

5. Il “lasciapassare” della sent. n. 50/2015: non spetta alla regioni, ma innanzitutto ai cittadini difendere la democrazia.

La sent. n. 50/2015 della Corte costituzionale si è spinta oltre25. Respingendo i ricorsi sotto tutti i profili, richiama essenzialmente la precedente sent. n. 365 del 2007 per negare che si possa “identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia diretta e con il sistema rappresentativo che si esprime anche nella (diretta) partecipazione popolare nei diversi enti territoriali”. Si tratta certo non di forme di esercizio della sovranità definite dalla Costituzione, né di forme di legittimazione democratica identica tra gli enti di cui all’art. 114 Cost.. Tuttavia non può non preoccupare una sentenza che nega alla democrazia il carattere di principio fondamentale assegnatole dal titolo della parte preliminare della Costituzione. In effetti, non si interroga sul peso dei sacrifici imposti a questo principio con il passaggio dall’elezione diretta a quella indiretta, forse per non essere letta sullo sfondo delle controversie sulla riforma costituzionale del senato. Se poi si richiama addirittura la sentenza n. 96 del 1968 per affermare “la piena compatibilità di un meccanismo elettivo di secondo grado con il principio democratico e con quello autonomistico”, confrontando le elezioni degli organi provinciali con quelle “prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato”, si rischia di fare confusione tra enti e organi e tra una disciplina eccezionale della Costituzione con una disciplina generale della Legge. Ma si rischia, soprattutto, di concludere che la Costituzione Repubblicana, dopo l’esperienza dei podestà, non abbia inteso garantire nemmeno l’elezione di primo grado dei “propri” organi rappresentativi dei comuni. La sentenza riscopre non solo nel concetto di legislazione elettorale un aspetto “polisemico”, cioè non più “automaticamente” né “organicamente” riferibile alla disciplina dell’esercizio dei diritti di cui agli articoli 48 e 51 della Costituzione, ma anche il diritto aver organi “propri” di un ente infra-statuale costitutivo della Repubblica consentirebbe eletti dagli organi di altri enti. Si dovrebbe quindi, a rigore, concludere che nulla vieterebbe di prevedere anche forme di elezione indiretta per le regioni e che nonostante l’esperienza del podestà, i costituenti non abbiano voluto garantire nemmeno l’elezione diretta a livello comunale.

Una simile lettura con conseguenze chiaramente assurde ed estranee alla realtà politica significherebbe tuttavia dare un’iperinterpretazione a una sentenza in realtà non tanto interpretativa quanto “tattica”. Innanzitutto, nella parte della motivazione che riguarda le province, si sottolinea giustamente che in materia elettorale la competenza esclusiva dello stato non lascia spazio alle regioni di ergersi nel giudizio in via principale a difensori della democrazia provinciale e metropolitana. Sarebbe meglio fare difendere la democrazia dai cittadini, ad es. con un referendum o sollevando questioni in via incidentale che argomentano bene la restrizione dei loro diritti politici e affrontano la questione se questi diritti implicano anche un diritto a una democrazia “multilevel” o, addirittura, “all level”. Tale questione non è stata decisa dalla sentenza n. 50/2015 che aggiunge peraltro un monito generico (“purché siano previsti meccanismi alternativi che comunque permettano di assicurare una reale partecipazione dei soggetti portatori degli interessi coinvolti”) e un cenno al comma 22 del denunciato art. 1 il quale “espressamente, comunque, dispone che «lo Statuto della città metropolitana può prevedere l’elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano». Nulla vieta di leggere questo oracolo come invito a tenere tutta l’esperimento sotto stretta osservazione.

In secondo luogo, bisogna essere sufficientemente realista da valutare gli effetti di una sentenza di accoglimento parziale sul punto nel momento in cui è itinere una riforma costituzionale che pretende di trasformare anche la seconda camera in un senato non eletto dai cittadini. Spetterebbe innanzitutto al referendum costituzionale decidere una tale contrazione della democrazia. Nel contesto costituzionale di una Repubblica così riformata, anche la questione della democrazia

Provinciale e metropolitana acquisterebbe un significato profondamente diverso. Una sentenza di accoglimento avrebbe potuto ingerire in tale procedimento di cui all’art.138 Cost. Si potrebbe obiettare che anche la sentenza di rigetto ingerisce, ma l’evidente debolezza dell’interpretazione si presenta sotto questo profilo come un male minore, anzi come invito a non ritenere “coperta” una futura questione di compatibilità della riforma con lo stesso principio della sovranità popolare, specialmente sotto il profilo della futura partecipazione di un senato non federale, né sufficientemente democratico, allo stesso potere di revisione costituzionale.

È appena il caso di aggiungere infine che anche l’interpretazione dell’art. 3 co. 2 della Carta delle autonomie locali potrebbe non essere l’ultima parola. Certo per questo non esiste un giudice a Strasburgo, ma potrebbe dare luogo a valutazioni degli altri organi del Consiglio d’Europa competenti in materia.

 

6. Le prospettive della “decostituzionalizzazione” delle province.

La riforma costituzionale non sopprime tutte le province, ma “decostituzionalizza” le province prive di potestà legislativa, limitandosi solo più a menzionare le città metropolitane (e non anche aree vaste). In questo modo intende rimuovere innanzitutto gli ostacoli e le incertezze giuridiche collegate al loro depotenziamento per via di riforme legislative che riducono la legittimazione democratica degli organi, le funzioni dell’ente e la sua autonomia in relazione agli altri enti che continuano a costituire la Repubblica. Sotto questo profilo, non solo si intendono sanare o prevenire eventuali vizi di incostituzionalità della legge n. 56/2014 e delle altre leggi collegate alla riforma, il legislatore vuole avere anche le mani libere per ulteriori interventi sulle province.

La decostituzionalizzazione, in ogni caso, non può essere interpretata come una norma che impone la soppressione o una ulteriore trasformazione radicale delle province esistenti. Semmai potrebbe essere concepita come una norma che permetterebbe la soppressione o un’ulteriore trasformazione anche radicale. Abrogare i riferimenti testuali alle province diverse da quelle di Bolzano e Trento, tuttavia, non equivale a stabilire una clausola derogatoria di salvaguardia generalizzata per qualsiasi scelta futura del legislatore.

L’abrogazione delle garanzie costituzionali delle province non significa che la politica istituzionale possa dimenticare il resto della costituzione, dalle garanzie di autonomia dei comuni e delle regioni fino ai doveri dello Stato di proteggere i diritti fondamentali, di realizzare i propri compiti e di conservare una struttura conforme ai principi fondamentali della democrazia e dello Stato di diritto.

Quali sono queste garanzie costituzionali generali da osservare dopo l’abrogazione di quelle particolari delle Province ?

(1) Innanzitutto, resterà l’art. 97 della costituzione che richiede anche ad una legge di soppressione o trasformazione ulteriore delle province, delle loro strutture, funzioni o relazioni, “che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” (co. 2). Pertanto non è possibile sopprimere senza riordinare le competenze e le risorse materiali e personali delle province.

Il riordino deve avvenire oramai in modo tale da assicurare “l’equilibrio dei bilanci” (co. 1) dei comuni, delle città metropolitane e delle Regioni alle quali verrebbero trasferite funzioni e strutture. La loro autonomia finanziaria (art. 119 co. 1) e le loro risorse autonome (co. 2) non devono essere compresse, la perequazione a favore dei territori con minore capacità fiscale per abitante non alterata (co. 3), il loro patrimonio non depauperato (co. 4) in modo irragionevole. I principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (art. 118 co. 1) resteranno garanzie dei comuni, delle città metropolitane e delle regioni, obbligando i legislatori ad esaminare la razionalità di ogni singolo trasferimento di funzioni e strutture.

(2) Per quanto riguarda la soppressione o il trasferimento delle funzioni e delle strutture, occorre inoltre verificare che tali scelte non abbiano effetti che compromettano la tutela di diritti fondamentali o la realizzazione dei compiti della Repubblica. La disattivazione di funzioni (“abbandono”) o la creazione di vuoti normativi ed amministrativi anche solo temporanei potrebbe avere effetti incompatibili con il principio della tutela del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico o lo sviluppo della cultura (art. 9), fare cessare attività di vigilanza ambientale a garanzia del diritto ad un ambiente salubre (art. 32), comportare la chiusura di scuole (art. 34 Cost.), arrestare i servizi di collocamento, orientamento e formazione professionale (art. 4, 35 Cost.), ostacolare gli albi delle associazioni di volontariato (art. 38 Cost.) e delle cooperative sociali (art. 45), arrestare le autorizzazioni di attività produttive quali cave e torbiere, acque minerali, trasporto rifiuti, vivai ecc., necessarie per le iniziative economiche (art. 41) e le proprietà aziendali (art. 42) relative, sfavorire il razionale sfruttamento del territorio nell’agricoltura e le zone montane (art. 44 Cost.) ecc. La mancata manutenzione delle strade provinciali potrebbe ostacolare la libera circolazione di persone e cose tra le Regioni e limitare l’esercizio del diritto al lavoro in una parte del territorio nazionale (art. 120). La messa in mobilità del personale deve seguire criteri ragionevoli, rispettando ove possibile le possibilità e la scelta dei lavoratori (art. 4 Cost.) e le funzioni familiari (art. 37).

(3) Infine resterà sempre da rispettare il principio fondamentale di cui all’art. 5 della Costituzione che e le norme delle sue tre clausole, nel contesto anche degli altri principi fondamentali26.

(a) Se la Repubblica “riconosce e promuove le autonomie locali”, il plurale non significa semplicemente che si riconosce la pluralità dei Comuni. Può significare anche che la Repubblica non può disconoscere la pluralità dei livelli di enti territoriali autonomi. Questo non implicherebbe una garanzia dello status quo e della permanenza delle Province, ben potendo le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni rappresentare una pluralità di autonomie ancora sufficiente. Tuttavia, eliminare l’intero livello delle Province senza accrescere le autonomie locali residue non sarebbe opera di “promozione” delle autonomie nel loro complesso e potrebbe quindi tradursi in una manifestamente irragionevole compressione della garanzia delle autonomie locali di cui all’art. 5 della Costituzione. La costituzione quindi non vieta l’abolizione delle province, ma tale abolizione non deve risolversi in un depotenziamento del sistema delle autonomie. Sarebbe legittima, cioè, solo se ne derivassero benefici reali per gli altri enti locali, in particolare attraverso la riconduzione delle province all’intercomunalità (sul modello tedesco e spagnolo) o attraverso una loro trasformazione in enti di decentramento regionale che possano alleggerire gli enti locali residui nel rispetto della sussidiarietà sottesa.

(b) Nella misura in cui i principi della legislazione della Repubblica devono poi adeguarsi “alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” dello Stato, la Costituzione sembra pretendere anche un equilibrio e coordinamento tra tali esigenze. Perfino al legislatore della riforma costituzionale potrebbero essere vietati sacrifici manifestamente irragionevoli delle autonomie a favore del decentramento e viceversa. Il legislatore costituzionale che volesse ad es. trasformare le province in enti strumentali di mero decentramento statale o regionale senza misure di riequilibrio a favore dell’autonomia degli altri enti locali potrebbe violare l’art. 5 della Costituzione. Potrebbe essere inoltre non “adeguata” alle esigenze di autonomia e decentramento ad es. una scelta del legislatore statale e regionale ordinario che disegnasse ambiti di competenza territoriale di enti autonomi e di uffici decentrati senza alcun coordinamento. La riforma del decentramento deve essere sempre coordinata con quella delle autonomie.

(c) In conclusione, la “decostituzionalizzazione” delle province non legittima qualsiasi abolizione o trasformazione radicale ulteriore delle stesse. In caso di trasformazione legislativa delle province in enti strumentali delle regioni o in enti equiparabili a unioni di comuni (e delle loro unioni), le province configurate dalla legge n. 56/2014 potrebbero, almeno indirettamente e in misura minore, essere ancora garantite dall’art. 5 Cost. se si riconoscono come aspetto dell’autonomia dei Comuni anche tutte le loro forme di autogoverno collettivo o come elemento dell’autonomia delle Regioni, il loro decentramento in province. L’interpretazione dell’art. 5 cost. potrebbe pervenire a effetti di garanzia più deboli, simili a quelli della clausola generale dell’art. 28, co. 2 della Legge fondamentale tedesca, la quale garantisce come “enti integrativi di comuni” (Gemeindeverbände) anche i Landkreise. La decostituzionalizzazione quindi potrebbe essere meno incisiva del temuto. Restano tuttavia di chiarire altre questioni, a partire da delle fonti e dal rilievo delle province negli organi rappresentativi della Repubblica.

(4) Per quanto riguarda la “controriforma” delle competenze legislative, il progetto governativo aveva proposto di riservare allo Stato una competenza esclusiva per “l’ordinamento degli enti di area vasta”, passo sostituito in commissione dalla dicitura “disposizioni di principio sulle forme associative dei comuni27. L’eliminazione del passo proposto potrebbe essere interpretata come una regionalizzazione implicita della competenza. La nuova dicitura potrebbe essere tuttavia interpretata in modo più elastico, consentendo di assumere come “principio” la qualificazione delle province come “forma associativa dei comuni”, principio peraltro allo stato attuale non ancora desumibile dalla legge n. 56/2014. Va osservato in ogni caso che proprio per le province si assisterebbe allora alla reintroduzione di una forma di legislazione concorrente. La legge regionale potrebbe infatti specificare i dettagli dei principi dettati dalla legge, ma non potrebbe trasformare le province in enti pubblici della Regione simile ai Landkreise nel federalismo tedesco. La legge statale dovrebbe chiarire se le province potranno diventare anche enti di amministrazione regionale decentrata.

La legge Delrio resterebbe legittimata dall’attuale art. 117 co. 2 lett. p Cost., ma per effetto della contrazione della competenza legislativa statale sarebbe solo più modificabile tramite disposizioni di “principio”. La disciplina attuale delle province potrebbe pertanto diventare cedevole per tutte le disposizioni della stessa che non dispongono “principi”.

(5) Resta infine da accennare all’impatto della decostituzionalizzazione delle province sugli organi rappresentativi della democrazia nei livelli superiori. Mentre la Camera dei deputati e quella dei consigli regionali, secondo la legislazione elettorale vigente, resterebbero eletti in base a circoscrizioni provinciali, il Senato nuovo sarebbe composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali, eletti dai consigli regionali tra i sindaci (art. 57). Le “istituzioni territoriali” da rappresentare non necessariamente devono essere gli altri enti “costitutivi della Repubblica” diversi dallo Stato. Resterà peraltro immutato l’art. 65 della Costituzione che rimanda la disciplina delle incompatibilità del Senato ad una legge approvata dalla Camera dei deputati. Spetterà a tale legge decidere se la carica di sindaco senatore può essere compatibile con quella di presidente, consigliere e membro dell’assemblea dei sindaci della provincia o meno.

 

7. Il dovere di trasparenza delle “funzioni di area vasta”.

Della propria provincia il cittadino conosce forse il presidente, raramente qualche consigliere e solo eccezionalmente qualche funzione. Eppure la democrazia esige un livello sufficiente di informazioni degli elettori non solo sui programmi politici, ma anche sui limiti di competenza che si applicano a ogni mandato politico che il corpo elettorale esprime. Se l’elezione avviene solo più di secondo grado, non viene meno il diritto dei cittadini elettori dei sindaci e consigli comunali di conoscere le funzioni di coloro che parteciperanno all’amministrazione della provincia.

A tal riguardo, il termine di “funzioni di area vasta” in fondo ribattezza piuttosto l’ente e promette una certezza geografica solo a prima vista attraente. Nel linguaggio comune, “vasto” non è solo una “voluminosa formazione muscolare”, ma anche un aggettivo che “può riferirsi a dimensioni puramente astratte”. Negativamente pesa la derivazione dal latino “vastus” con i suoi significati di “devastato, vuoto, spopolato, deserto” (Devoto Oli). Raramente il linguaggio giuridico riesce a rallegrare i cittadini, ma proprio la riduzione della provincia a una categoria di mera “geografia giuridica” spersonalizzata è frutto di un linguaggio che ha battezzato anche le “regioni” e rischia di svuotare di senso e spirito l’istituzione, di fare trionfare il nichilismo giuridico. Ma anche se si interpreta il termine con un senso più costruttivo come luogo di una “rete di relazioni” che supera la dimensione locale e consente una programmazione strategica, saldando la geografia con l’ingegneria amministrativa, la ricerca di sinonimi associa “vasto” solo a “più ampio”, “più grande” o semplicemente “super-“. Si intuisce allora come la percezione della maggiore grandezza del territorio promette una “crescita”, ma non un aumento delle funzioni28.

Rispetto all’art. 19 TUEL (2000), la legge n. 56/2014 definisce finalmente le funzioni fondamentali come dal titolo di competenza di cui all’art. 117 co. 2 let. p) Costituzione29.

Non sono “fondamentali” le altre funzioni menzionati dal TUEL quali la difesa del suolo e prevenzione delle calamità, la tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche, la valorizzazione dei beni culturali, caccia e pesca nelle acque interne, servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica e altri compiti connessi all’istruzione secondaria di secondo grado ed artistica e alla formazione professionale nonché la promozione e le opere nei settori economico, produttivo, commerciale, sociale, culturale e sportivo.

Tuttavia non bisogna confondere il catalogo delle funzioni con quello delle competenze. Nella misura in cui la legislazione statale e regionale hanno attribuite competenze alle province, non possono intendersi abrogate dalla derubricazione operata dalla legge n. 56/2014 e dalla definizione del crono-programma per il riordino delle funzioni30.

Sono peraltro nuove funzioni “non fondamentali”, esercitabili d’intesa con i comuni, “le funzioni di predisposizione dei documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizio e di organizzazione di concorsi e procedure selettive.” (co. 88). Per tutte le altre funzioni non fondamentali, la legge n. 56/2014 enuncia dei principi e criteri che peraltro difficilmente possono risultare inderogabili per il legislatore : “individuazione dell’ambito territoriale ottimale di esercizio per ciascuna funzione; efficacia nello svolgimento delle funzioni fondamentali da parte dei comuni e delle unioni di comuni; sussistenza di riconosciute esigenze unitarie; adozione di forme di avvalimento e deleghe di esercizio tra gli enti territoriali coinvolti nel processo di riordino, mediante intese o convenzioni. Sono altresì valorizzate forme di esercizio associato di funzioni da parte di più enti locali, nonché le autonomie funzionali.” (co. 89)

Decisivo appare a questo punto il ruolo delle regioni. Per quanto riguarda la Regione Piemonte, il

disegno di legge regionale n. 86, presentato il 30 Dicembre 2014 “Principi per il riordino delle funzioni amministrative in attuazione della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di Comuni)” sostanzialmente realizza il riordino, confermando le attribuzioni vigente e prospettano solo in via eccezionale la “communalizzazione” si singole funzioni per via di ulteriori leggi di riordino.

L’intenzione della riforma di chiarire al più presto le funzioni e le competenze appare non realizzarsi attraverso gli strumenti predisposti.

In primo luogo, si potrebbe discutere se la stessa definizione legislativa delle funzioni fondamentali della Provincia si è ispirata al principio dell’”ambito territoriale ottimale”. Ad es., in materia ambientale si può ritenere con buone ragioni che l’ambito provinciale sia diventato “subottimale” da quando la provincia è governato dagli enti locali, spesso più inclini a trattare il territorio come proprietà da sfruttare che non come ambiente da tutelare. Unire peraltro in uno stesso ente le funzioni di tutela dell’ambiente con quelle di costruzione di strade significa rischiare di fare soccombere il primo interesse al secondo.

In secondo luogo si pone un problema di trasparenza. Ai sensi dell’art. 1, comma 91, della legge Delrio, “lo Stato e le regioni individuano in modo puntuale (!), mediante accordo sancito nella Conferenza unificata, le funzioni di cui al comma 89 oggetto del riordino e le relative competenze.” L’accordo sottoscritto tra Stato e regioni in sede di Conferenza unificata dell’11 settembre

2014, non individua le funzioni, ma solo una procedura per il riordino Regione per Regione, prevedendo al punto 13 l’istituzione di un Osservatorio nazionale e, presso ciascuna Regione, l’istituzione di Osservatori regionali composti secondo modalità definite da ciascuna regione in modo che sia comunque assicurata la presenza di ANCI ed UPI e dal sindaco della città metropolitana “come sedi di impulso e coordinamento per la ricognizione delle funzioni amministrative provinciali oggetto di riordino e per la conseguente formulazione di proposte concernenti la loro riallocazione presso il livello istituzionale più adeguato”. Nel caso della Regione Piemonte è stato inserito anche l’UNCEM e la Lega delle autonomie locali ed è stato concesso ai presidenti delle province di partecipare all’osservatorio regionale. L’atto istitutivo “da atto inoltre che le leggi regionali di attuazione dell’accordo sono approvate sentito l’Osservatorio regionale”, dimenticando che l’Accordo correttamente aveva preteso la partecipazione dei Consigli delle autonomie locali31. In ogni caso, la trasparenza delle funzioni potrà essere solo ottenuta da una legge regionale che contiene una preciso catalogo esauriente anche delle competenze.

In terzo luogo occorre osservare che, se il riconoscimento della provincia come ”area vasta” intermedia, superiore a quella comunale e inferiore a quella regionale, implica un principio di concentrazione di tutte le funzioni “intermedie”, resta aperta la delimitazione territoriale delle aree. L’abrogazione dell’art. 133 co. 1 Cost. sembrerebbe attribuire questa competenza alle regioni, sempre nel rispetto dei principi dettata dalla legge statale e quindi solo in un futuro incerto. Lasciando la riforma territoriale alle regioni si rischia peraltro di premiare le resistenze regionali alle riforme territoriali.

In attesa della riforma costituzionale, la Regione Piemonte ha cercato di anticipare la riforma territoriale con una norma, prevista nel già citato disegno di legge di attuazione della riforma Delrio che definisce ambiti territoriali tali da configurare quattro nuove macroprovince.

Art. 3 (Esercizio in forma associata obbligatoria) 1. Le funzioni amministrative relative a:

a) organizzazione e controllo diretto del servizio idrico integrato;

b) organizzazione e controllo del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani;

c) autorizzazioni e concessioni relative alle attività estrattive;

d) autorizzazione e controllo in materia energetica;

e) gestione delle attività di formazione e orientamento professionale;

f) organizzazione del trasporto pubblico su gomma sono esercitate dalle province e dalla Città metropolitana con riferimento ai seguenti ambiti territoriali ottimali: 1) ambito 1: Novarese, Vercellese, Biellese e Verbano, Cusio, Ossola; 2) ambito 2: Astigiano e Alessandrino; 3) ambito 3: Cuneese; 4) ambito 4: Torinese, coincidente con il territorio della Città Metropolitana.

2. Per gli ambiti 1 e 2 le funzioni di cui al comma 1 sono esercitate dalle province obbligatoriamente in forma associata, secondo criteri, modalità e tempistiche stabiliti dalla Giunta regionale, previo parere della Conferenza Permanente Regione Autonomie locali.

3. I confini degli ambiti territoriali ottimali sono individuati con riferimento ai confini amministrativi delle province di riferimento. La eventuale parziale modificazione dei confini degli ambiti territoriali ottimali 1, 2 e 3 di cui al comma 1, è apportata con deliberazione della Giunta regionale, sentita la competente commissione consiliare, anche su istanza degli enti locali interessati.

4. Nel rispetto di quanto previsto all’ articolo 118 Costituzione, con successivi provvedimenti legislativi si provvede ad adeguare le specifiche normative di settore alle disposizioni di cui al presente articolo, anche con norme di abrogazione esplicita e di coordinamento.”

In sostanza, il riordino delle funzioni deve essere subordinato ad una riforma territoriale anticipata

da una legge regionale che prevede l’esercizio in forma associata obbligatorio delle principali funzioni non fondamentali delle province.

Le disposizioni finali della legge n. 56/2014 precisano infine che il livello provinciale e delle città metropolitane non costituisce ambito territoriale obbligatorio o di necessaria corrispondenza per l’organizzazione periferica dell’amministrazione statale e delle autonomie funzionali (co. 147). Questo vale peraltro anche per un’università come quella del Piemonte orientale che copre una area ben più vasta di quella delle province di Novara, Vercelli ed Alessandria, peraltro forse tropo poco cooperanti tra di loro a livello interprovinciale.

 

8. Il ruolo degli statuti nella ridefinizione della forma di governo.

Fino a quando vige l’attuale art. 114 co. 2 Cost., le Province sono “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Gli statuti provinciali sono fonti secondarie dotate finora di una riserva di competenza dettata dalla Costituzione, il cui rispetto è controllabile in sede di giudizio di costituzionalità delle leggi. Questa garanzia dell’autonomia statutaria rischia di essere violata se la legge disciplina non solo la materia elettorale e, per principi ulteriori, gli organi di governo e le funzioni dell’ente, ma produce anche norme troppo di dettaglio che andrebbero lasciate agli statuti stessi.

L’art. 1 co. 81 l. n. 56/2014 demanda al nuovo consiglio provinciale di svolgere “fino al 31 dicembre 2014 le funzioni relative ad atti preparatori e alle modifiche statutarie conseguenti alla presente legge; l’assemblea dei sindaci, su proposta del consiglio provinciale, approva le predette modifiche entro il 31 dicembre 2014.” È previsto l’esercizio di poteri sostitutivi in caso di inosservanza di questo termine ordinatorio qualora perdurasse fino al 30 giugno 2015. Entro la fine di febbraio 2015, ben poche amministrazioni provinciali hanno pubblicato il nuovo statuto, in Piemonte nessuna. Nelle province nelle quali non risulta terminata la procedura di adeguamento dello statuto si devono disapplicare le disposizioni tanto del T.U.E.L.32 quanto dello Statuto incompatibili con la legge sopravvenuta, in particolare tutte le norme relative alla giunta.

L’assemblea dei sindaci non potrà esercitare i propri poteri propositivi, consultivi e di controllo fino a quando non sono previsti dallo Statuto (art. 1 co. 56). Per il resto, le province inadempienti non saranno paralizzate. In effetti, per quanto diventino inattivi gli organi diversi da quelli indicati dalla legge, in particolare la Giunta e le articolazioni del Consiglio, anche la circolare ministeriale del 23. 10. 2014 ha chiarito che in attesa dello Statuto saranno il Presidente e il Consiglio, ognuno in base alle proprie competenze stabilite dalla legge n. 56/2014, a sovrintendere, indirizzare e controllare l’amministrazione.

La riforma statutaria potrà poi limitarsi alle modifiche delle norme diventate inapplicabili ed integrare le norme indispensabili per le procedure del nuovo organo dell’assemblea dei sindaci, ma può anche estendersi ad altre materie indicate dalla legge o tradizionalmente disciplinate dallo Statuto, in particolare

– le funzioni del Presidente e del Consiglio non attribuite dalla legge,

– “la costituzione di zone omogenee per specifiche funzioni, con organismi di coordinamento collegati agli organi provinciali” (co. 57)

– le modalità e i limiti delle deleghe nel rispetto del principio di collegialità del consiglio stesso (co. 66),

– l’articolazione interna del Consiglio in commissioni e gruppi e l’istituzione presso gli organi di organismi consultivi,

– le modalità di adunanza e deliberazione del Consiglio e, incluso il voto ponderato, dell’assemblea dei sindaci,

– le modalità di esercizio della funzione di controllo da parte del Consiglio e dei consiglieri, incluse interpellanze, interrogazioni, accesso rapido agli atti, inchieste amministrative, mozioni di censura

– l’organizzazione degli uffici e la gestione finanziaria e contabile,

– le forme di collaborazione con altre istituzioni

– le forme di trasparenza e partecipazione dei cittadini

– le finalità, i principi o valori e i simboli della comunità territoriale,

Le esperienze della prima generazione degli statuti insegnano che non deve essere sopravalutata la loro capacità di legittimazione istituzionale. Tuttavia, nella trasformazione attuale l’adeguamento degli statuti può essere un buon strumento di autodifesa dell’autonomia33. La riduzione della legittimazione democratica degli organi provinciali potrà essere parzialmente compensata da una rivalutazione degli strumenti di partecipazione della cittadinanza ad es. alla formazione dei bilanci, tramite petizioni e diritti di accesso, nuove forme di pubblicità delle riunioni di consiglio ed assemblea, di trasparenza dei procedimenti amministrativi, di assemblee dei cittadini, di sondaggi d’opinione elettronici o di referendum comunali sincronizzati. Lo statuto potrebbe infine garantire forme di controllo diretto dei consigli comunali sulle attività dei consiglieri.

Molto dipenderà già dalla procedura di formazione dello statuto che dovrebbe anch’esso parzialmente compensare la perdita di legittimazione democratica dell’organo deliberante. Nulla vieterebbe ai consigli comunali di deliberare atti di indirizzo in argomento.

Al momento della conclusione di queste osservazioni esistono solo alcuni studi sulle riforme degli statuti provinciali compiute ed in itinere, privilegiando per lo più sulle città metropolitane34. Va tuttavia anche segnalata l’esperienza della provincia di Asti. In seguito ad azione popolar, il Tribunale di Asti con decisione del 3 marzo 2015 ha dichiarato la decadenza del presidente della Provincia perché non si era incompatibile con la carica attributo al sindaco di e partecipare al Consiglio di Amministrazione della banca che svolgeva per l’ente territoriale il servizio di tesoreria.

I giudici osservano con acutezza: «La legge Delrio, pur introducendo significative modifiche all’ordinamento provinciale in tema di organi, funzioni e sistema elettorale, non ha infatti attuato una riforma organica e generale, non avendo disciplinato in modo esaustivo tutti gli aspetti concernenti il funzionamento dell’ente territoriale in questione».

 

9. La dieta dimagrante della “legge di (in)stabilità 2015” e il conseguente decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78 a fronte dell’art. 97 co. 1 Cost.

Last but not least, la riforma delle province è stata alimentata da una serie di “shock” di natura finanziaria. L’art. 1 della Legge 23 dicembre 2014, n. 190 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015) ha un aumento dei tagli globali alla spesa delle province (1), di vietare mutui, assunzioni e spese di “cultura politica” (2), di tagliare il 50 % del personale (3) e di imporre un riordino delle società partecipate (4), misure corredate da alcuni ammortizzatori sociali ed istituzionali.

(1) Ai sensi dell’art. 1 co. 418, “le province e le città metropolitane concorrono al contenimento della spesa pubblica attraverso una riduzione della spesa corrente di 1.000 milioni di euro per l’anno 2015, di 2.000 milioni di euro per l’anno 2016 e di 3.000 milioni di euro a decorrere dall’anno 2017.” Non sono gravate “le province che risultano in dissesto alla data del 15 ottobre 2014.” Nel 2014 si era già previsto un taglio pari a 340 milioni. La spesa corrente delle province nell’anno 2014 ammontava a 7.300 milioni di euro (dati SIOPE).

La “Relazione sulla gestione finanziaria per l’esercizio 2013 degli enti territoriali” della Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie del 29 dicembre 2014 parla di una “severa riduzione della spesa che ha consentito di assorbire tagli di risorse particolarmente incisivi: (…) una riduzione delle spese finali di oltre 1,3 miliardi, che ha consentito di assorbire la riduzione di oltre 561 milioni degli accertamenti del 2013 rispetto al 2012. (…) In tale situazione di precarietà finanziaria andrà valutato l’impatto delle nuove misure riduttive sulle risorse delle Province, annunciate dal disegno di legge di stabilità 2015, che potrebbe generare forti tensioni sugli equilibri finanziari, in particolare per gli enti strutturalmente più deboli, il cui numero tende a crescere all’interno del comparto.” Crescevano i debiti fuori bilancio riconosciuti, nel biennio considerato da 72,247 a 130,347 milioni nelle Province e da 576,963, con aumento percentuale dell’80% . 4 province erano in dissesto finanziario e altre dieci in bilico. Lo squilibrio totale delle province era di 34,562 milioni, con un’incidenza del 20,92% sulle entrate correnti, e pesa su ogni residente per 35,48 euro: “Complessivamente, la progressiva riduzione del numero di Province in equilibrio economico- finanziario, rispetto al 2012, dimostra un diffuso stato di sofferenza delle stesse, nell’attuale fase di transizione istituzionale, ai fini del mantenimento degli equilibri di bilancio.” 35.

La situazione viene aggravata dai ritardi del decreto di natura non regolamentare del Ministero dell’interno, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, da emanare entro il 15 febbraio 2015, cui spetta definire “l’ammontare della riduzione della spesa corrente che ciascun ente deve conseguire e del corrispondente versamento, tenendo conto anche della differenza tra spesa storica e fabbisogni standard.” (co. 418)

(2) Ai sensi dell’art. 1 co. 420, alle province è consentito solo più ricorrere a mutui per spese “rientranti nelle funzioni concernenti la gestione dell’edilizia scolastica36, la costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente, nonché la tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza.” A questo si aggiunge il blocco delle assunzioni, dei distacchi, dei contratti per i collaboratori degli organi di direzione politica, il divieto

“b) di effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza;

g) di attribuire incarichi di studio e consulenza.” L’intento della riduzione del costo della politica, di per sé lodevole, non giustifica tuttavia il taglio alle spese culturali, ad es. mostre di opere d’artista e convegni scientifici. Non sono vietati incarichi di ricerca scientifica e contributi a pubblicazioni scientifiche.

(3) Il provvedimento più dolente è l’obbligo di riduzione del personale (co. 421-428). La dotazione organica delle città metropolitane e delle province è rideterminata “ in misura pari alla spesa del personale di ruolo alla data di entrata in vigore della legge 7 aprile 2014, n. 56, ridotta rispettivamente, tenuto conto delle funzioni attribuite ai predetti enti dalla medesima legge 7 aprile 2014, n. 56, in misura pari al 30 e al 50 per cento e in misura pari al 30 per cento per le province, con territorio interamente montano e confinanti con Paesi stranieri, di cui all’articolo 1, comma 3, secondo periodo, della legge 7 aprile 2014, n. 56.” Le unità in esubero potrebbero essere, secondo

i calcoli governativi circa 15mila. Alcuni potrebbero passare ai centri per l’impiego riformati dal Jobs Act, altri del comma 429 che concede alle province “facoltà di finanziare i rapporti di lavoro a tempo indeterminato nonché di prorogare i contratti di lavoro a tempo determinato e i contratti di collaborazione coordinata e continuativa strettamente indispensabili per la realizzazione di attività di gestione dei fondi strutturali e di interventi da essi finanziati, a valere su piani e programmi nell’ambito dei fondi strutturali.” Il comma 530 garantisce infine che “il personale delle province eventualmente in esubero a seguito dei provvedimenti di attuazione della legge 7 aprile 2014, n. 56, e’ prioritariamente assegnato al Ministero della giustizia per lo svolgimento dei compiti correlati.” I costi di formazione collegati a questo trasferimento non sono preventivati. Altri infine sperano di essere assunti dalle regioni per svolgere le funzioni amministrative attribuite da queste ultime. La circolare del 30.1.2015, n. 1 del Ministero per la semplificazione e la p.a. con il Ministero per gli affari regionali e le autonomie “Linee guida in materia di attuazione delle disposizioni in materia di personale e di altri profili connessi al riordino delle funzioni delle province e delle città metropolitane. Articolo 1, commi da 418 a 430, della legge 23 dicembre 2014, n. 190” ha sottolineato che solo alla fine del 2016 si arriverà all’applicazione del comma 428 che prevede il ricorso a istituti contrattuali di solidarietà come il contratto a tempo parziale “al fine di ripartire tra tutto il personale rimasto in servizio nell’ente di area vasta (…) il valore finanziario del personale soprannumerario non ricollocato.”37.

(4) Il comma 612 dispone infine che i presidenti delle province “definiscono e approvano, entro il 31 marzo 2015, un piano operativo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, le modalità e i tempi di attuazione, nonché l’esposizione in dettaglio dei risparmi da conseguire“. Nel contesto della riforma del 56/2014, questo sarà un piano scritto da presidenti appena insediati, senza giunta, già gravati da altri compiti eccezionali come la riduzione del personale, e senza bilanci pluriennali certi.

Al di là dell’osservazione che i provvedimenti colpiscono gli enti politicamente più deboli – segno forse più di debolezza che di forza – occorre innanzitutto osservare che la valutazione dell’impatto del mix dei quattro provvedimenti sulle risorse e il personale delle province esige un quadro completo delle funzioni che allo stato attuale è semplicemente sotto osservazione perché per nulla chiaro, il che rende assai difficile una gestione oculata e la progettazione di una nuova economia degli ente38. La legge di stabilità per il 2015 rischia poi di travolgere la legge n. 56/2014 che prevedeva dei trasferimenti di risorse e funzioni senza quantificare i costi dei trasferimenti e senza prospettare risparmi di spesa concreti.

I ricorsi e le questioni di costituzionalità che si preannunciano nel momento in cui si scrivono queste conclusioni lamenteranno probabilmente la linearità dei tagli, la mancanza di premi per le gestioni più virtuose anziché per gli enti dissestati, il mancato calcolo dei costi standard ecc.. Può essere conforme all’art. 119 co. 3 della Costituzione a norma del quale le risorse derivanti dalle risorse costituzionalmente garantite, incluse quelle a titolo di perequazione, devono consentire alle Province “di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite” ? Avrebbe la Corte costituzionale il coraggio e i mezzi conoscitivi per entrare nei dettagli dei conti che tale norma esige?

Il problema è stato infine affrontato dal decreto legge 19 giugno 2015, n. 78 “Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali”. In primo luogo offre una “rideterminazione obiettivi di patto di stabilità interno di Comuni, Province e Città metropolitane per gli anni 2015-2016 e ulteriori disposizioni concernenti il patto di stabilità interno)” che riduce la sanzione per gli sforamenti del patto di stabilità 2014 al 20% dell’importo di sforamento e comunque entro il 3% delle entrate correnti desunte dall’ultimo consuntivo (art. 1 co. 7). Inoltre sancisce il trasferimento del personale delle province in posizione di comando alla data del 31/12/2014 presso altre amministrazioni, previo consenso dell’interessato e verifica della capienza della dotazione organica e di altri limiti finanziari e di spesa (art. 4 co. 2). Si dispone il passaggio del personale della polizia provinciale nella polizia locale municipale, secondo le modalità e le procedure previste al comma 423, art. 1 della legge di stabilità 2015 (art. 5) e si rafforzano gli strumenti di sostegno della cassa depositi e prestiti (art. 7 e 8). Infine si promette un piano di rafforzamento dei servizi per l’impiego con la possibilità di partecipazione del Ministero del lavoro agli oneri di funzionamento nel limite di 70 milioni annui per gli anni 2015 e 2016, in misura proporzionale al personale a tempo indeterminato in servizio presso i centri per l’impiego (art. 12). Le valutazioni della Corte dei conti dovrebbero influenzare le scelte del parlamento in sede di conversione. All’inizio dell’estate 2015, la quasi totalità delle Province non ha ancora approvato un bilancio di previsione triennale, cioè non sembrano in grado di assicurarne l’equilibrio preteso dall’art. 97 co. 1 della Costituzione.

 

10. Osservazioni non conclusive.

Sembravano superate le proposte politiche radicali di soppressione delle province. Le vie della legislazione sono tuttavia notoriamente ambigue. Se in un primo tempo, i cittadini non sembravano aderire in maggioranza a tali proposte, la situazione futura potrebbe mutare. Non trattandosi più di enti visibili con personale contento, i cittadini potranno mobilitarsi per la resilienza, ma potrebbero anche concludere che non vale più la pena di prolungare inutilmente la vita ad istituzioni in crescente dissesto. Alcuni studi economici prospettavano un risparmio pari a quasi 4 miliardi di euro, di cui poco più di 2 di costo per il personale39. I tagli prospettati non sono lontani da questa cifra, ma prospettano una cura dimagrante non priva di rischi per la sopravvivenza della categoria.

Nessuno può fare profezie, ma si possono e si devono elaborare scenari di sviluppo e di resilienza. La trasformazione delle province in “forme associative” dei comuni, come un’unione obbligatoria di comuni governati dai sindaci, potrebbe fare pensare al modello tedesco della Kreisumlage, cioè del finanziamento tramite contributi da parte dei comuni fissati secondo aliquote pro capite approvate dall’assemblea dei sindaci. Il mantenimento di funzioni non fondamentali attribuite dalle regioni potrebbe portare la trasformazione anche verso una configurazione aggiuntiva delle province come enti di decentramento regionale da sostenere in base alla ricchezza delle regioni. Ma i comuni e le regioni non sembrano affatto disposti e pronti a fare la loro parte finanziaria. Anche i canali di comunicazione istituzionale del sistema si sono arresi a osservare se stessi, creando accanto ai CAL e alle conferenze regionali e statali delle autonomie degli “osservatori” che difficilmente sono presentabili come “cabine di regia”. La governance regionale e statale è stata piuttosto complicata anziché semplificata.

Il desiderio di una riforma amministrativa organica che anticipi quella costituzionale rischia di restare un mito incapace di gestire effettivamente l’area vasta come realtà40 . E il valore dell’autonomia provinciale rischia di ridursi a potenziale di risparmio, richiamo a una virtù paradossalmente più facile da pretendere dagli enti piccoli che non dalle amministrazioni grandi41. Si potrebbe concludere che allo stato attuale non è possibile stabilire con certezza che le province sono ancora “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione” (art. 114 co. 2 Cost.).

 

 

1 Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.

 

2 Lavoro d’equipe nell’ambito del DRASD con G. Boggero, L. Conte e D. Servetti, originato da un corso di formazione per l’Accademia delle autonomie tenuto a Vercelli in data 5 dicembre 2014. Le ultime aggiunte, specialmente il § 5, risalgono al mese di giugno 2015.

 

3 Il disegno di legge costituzionale per la soppressione delle province era stato approvato dal Consiglio dei ministri in data 5 luglio 2013, due giorni dopo la camera di consiglio della Corte costituzionale, depositata poi il 18 luglio 2013. Il d.d.l fu approvato in data 26 luglio 2013.

 

4 Articoli addizionali al trattato di Vienna 20 maggio 1815 sulla cessione degli stati di Genova a S. M. il Re di Sardegna. Art. 5°. Sarà stabilito in ciascun distretto d’Intendenza, un Consiglio Provinciale composto di 30 membri scelti fra i nobili di diverse classi sopra una lista di trecento più tassati in ciascun distretto. Essi saranno nominati la prima volta dal Re, e rinnovati per quinto ogni due anni. La sorte deciderà della sortita pel quinto dei primi quattro. L’organizzazione di questi Consigli sarà regolata da S. M. (…) Il Consiglio non potrà occuparsi che dei bisogni e reclamazioni dei Comuni dell’Intendenza per ciò che riguarda la loro amministrazione particolare, e potrà fare delle rappresentazioni a tale riguardo. (…)”.

 

5 Cfr. la ricostruzione della storia degli stati provinciali, ad inclusione del terzo stato, a partire dal XIII secolo nel Languedoc in A. Babeau, La province sous l’ancien régime, Paris 1894, 18ss. La riscoperta della storia premoderna fa eco con la rivalutazione della provincia come “corpo morale”, in Italia avvenuta nel 1889.

 

6 Cfr. soltanto P. Romanelli, p. Vaccari, T. Marchi, voce “Provincia” in: “Enciclopedia Italiana” (1935):” Nello stato pontificio la circoscrizione provinciale si va determinando nei secoli XIII e XIV ed è regolata nelle costituzioni egidiane: ogni provincia ha un rector con funzioni amministrative e giurisdizionali e un parlamento, istituto caratteristico dello Stato della Chiesa con funzioni legislative, finanziarie e amministrative. L’ordinamento provinciale della monarchia piemontese risale a remote origini, alla costituzione dei baliati, governi militari e giudiziarî, che avvenne in Savoia e al di qua delle Alpi in Val d’Aosta e Val di Susa, già nel Medioevo, mentre il Piemonte era diviso in comuni; ma anche qui nel secolo XVI la divisione è fatta per provincie.” Cfr. per le province napoletane E. Bacco, Il Regno di Napoli diviso in dodici province, nel quale brevemente si descrive la città di Napoli, con le cose più principali, provincie, città, e terre più illustri … Raccolta da Henrico Bacco Alemanno. Corretta, & ampliata dal sig. Cesare d’Eugenio. In Napoli : per Lazaro Scoriggio. Ad istanza di Pietro Antonio Sofia, 1620. Più ridotta invece la storia in A. Petracchi, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell’antico regime al chiudersi dell’età cavouriana (1770-1861), Venezia, 1962. Per le più recenti ricerche sul sette- e ottocento di F. Bonini, L’orizzonte politico-istituzionale vicino: la nascita delle circoscrizioni provinciali in Italia, in “Storia Amministrazione Costituzione”, 2003, 268ss; P. Aimo (a cura di), Le province dalle origini alla Costituzione, Milano, Quaderni ISAP, 2009.

 

7 G. Palombelli, L’evoluzione delle circoscrizioni provinciali dall’Unità d’Italia ad oggi, http://www.provincia.torino.gov.it/speciali/2012/convegno_pubblico/dwd/circoscrizioni_provinciali_palombelli_25gennaio2012.pdf.

 

8 Cfr. la disciplina della ripartizione della Prussia in province, distretti, circondari e comuni negli art. 104 cost. Prussia 1848, art. 105 cost. 1850.

 

9 U. Rattazzi, Discorso del 9 gennaio 1857 “Disposizioni intorno all’amministrazione provinciale”, cit. da C. Malandrino, Lineamenti dell’ordinamento politico di Urbano Rattazzi, Milano 2014, 44.

 

10 S. Mangiameli, La Provincia: dall’assemblea costituente alla riforma del Titolo V, http://www.issirfa.cnr.it/4583,908.html.

 

11 Cfr. ora sent. n. 50/2015: “Otto su dieci delle istituite Città metropolitane sono, peraltro, già nell’esercizio delle loro funzioni, e gli statuti di sei di queste sono già stati approvati alla data del 31 dicembre 2014.”

 

12 Art. 15 Statuto speciale della Regione Siciliana (1946): “Le circoscrizioni provinciali e gli organi ed enti pubblici che ne derivano sono soppressi nell’ambito della Regione siciliana. L’ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui comuni e sui liberi Consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria. Nel quadro di tali principi spetta alla Regione la legislazione esclusiva e l’esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo degli Enti locali”. La legge 29 marzo 2013 legge n. 7 (Norme transitorie per l’Istituzione dei liberi Consorzi comunali) prospetta che entro il 31 dicembre 2013 la Regione, con propria legge, in attuazione del suddetto art. 15 dello Statuto, “disciplina l’istituzione di governo di area vasta, in sostituzione delle Province regionali”. La successiva legge 24 marzo 2014, n. 8. disciplina la “Istituzione dei liberi Consorzi comunali e delle Città metropolitane” Catania, Messina e Palermo. Critico A. Piraino, Liberi consorzi e città metropolitane: allineare la normativa siciliana a quella nazionale,

 

13 Proposta di Legge Costituzionale approvata dal Consiglio regionale ai sensi dell’articolo 63, secondo comma, dello Statuto speciale nella seduta antimeridiana del 30 gennaio 2014.

 

14 G.F. Ferrari (a cura di), Il rilievo della provincia nel diritto comparato. Casi nazionali a confronto, Torino 2013. Da ultimo CEPLI, Comparative overview of Local Powers in the European Union, October 2014; http://www.cepli.eu/inside.php?key=54875a035774c.

 

16 Sulle rivendicazioni di maggiore autonomia della LGA cfr. da ultimo press release 19. 2. 2012: We can’t ignore the evidence that some of our great cities and regions are being held back by being denied the sort of autonomy enjoyed by their equivalents in Europe.” http://www.local.gov.uk/web/guest/media-releases/-/journal_content/56/10180/7024021/NEWS .

 

17 Cfr. il progetto “NOTRe” come terzo elemento della riforma che solo dopo il 2020 sarà seguita da una ricognizione dei suoi effetti sui dipartimenti, http://www.senat.fr/leg/pjl13-636.html.

 

19 Cf. L. Patruno, Istituzioni globali e autonomia, in: Il valore delle autonomie: territorio, potere, democrazia, Bergamo 6-7 giugno 2014, http://www.gruppodipisa.it/wp-content/uploads/2014/05/patruno_bergamo.pdf.

 

20 Su cui cfr. il contributo DRASD di G. Boggero, A. Patanè, Profili costituzionali del commissariamento delle Province nelle more di una riforma ordinamentale dell’ente intermedio, www.federalismi.it, n. 12 del 11/06/2014. Cfr. anche G. Boggero, I limiti costituzionali al riordino complessivo delle Province nella sentenza della Corte Costituzionale n. 220/2013, www. astrid.it (25 febbraio 2014).

 

21 Cfr. la nota di L. Conte e L. Geninatti Saté, L’incostituzionalità della “legge Delrio” nei ricorsi proposti dalle Regioni Campania, Puglia e Veneto, Il Piemonte delle autonomie, 1 (2014), n. 3 nonché F. Bassanini, Sulla riforma delle istituzioni locali e sulla legittimità costituzionale della elezione in secondo grado degli organi delle nuove Province, in: Astrid Rassegna n. 19/2013; C. Fusaro, Appunto in ordine alla questione delle Province, ivi,; E. Grosso, Possono gli organi di governo delle Province essere designati mediante elezioni “di secondo grado”, a Costituzione vigente?, ivi; F. Pizzetti, La riforma Delrio tra superabili problemi di costituzionalità e concreti obbiettivi di modernizzazione e flessibilizzazione del sistema degli enti territoriali, ivi; L. Vandelli, Sovranità e federalismo interno: l’autonomia territoriale all’epoca della crisi, in Le Regioni, 2012, p. 845 ss.; S. Staiano, Il ddl Delrio: considerazioni sul merito e sul metodo, in federalismi.it n. 1/2014; M. Cecchetti, Sui più evidenti profili di possibile illegittimità costituzionale del d.d.l. AS n. 1212 (Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle Unioni e fusioni di Comuni), in federalismi.it, n. 3/2014; Merloni, Sul destino delle funzioni di area vasta nella prospettiva di una riforma costituzionale del Titolo V, in Istituzioni del federalismo, n. 2/2014; da ultimo A. Spadaro, Le città metropolitane tra utopia e realtà, in federalismi.it, Osservatorio città metropolitane, n. 1/2015.

 

22 Cfr. l’appello del 11 ottobre 2013 firmato da numerosi costituzionalisti su http://www.provincia.torino.gov.it/speciali/2013/abolire_province/dwd/appello_costituzionalisti.pdf.

 

23 Sentenza n. 3035 del 19/12/2014.

 

24 Cf. in proposito anche G. Boggero, La conformità della riforma delle Province alla Carta europea dell’autonomia locale, in www.federalismi.it n. 20/2012.

 

25 Cf. oltre alla nota di L. Conte in questa rivista i primi commenti su http://www.federalismi.it/ di A. Sterpa, F. Grandi, F. Fabrizzi, M. de Donno; G. Salerno, La sentenza n. 50 del 2015: argomentazioni efficientistiche o neo-centralismo repubblicano di impronta statalistica?; M. Barbero, E. Vigato, Il sindaco di diritto e l’elezione a suffragio universale e diretto nelle città metropolitane; A. Lucarelli, La sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2015. Considerazioni in merito all’istituzione delle città metropolitane, A. Sterpa, Un ‘giudizio in movimento’: la Corte costituzionale tra attuazione dell’oggetto e variazione del parametro del giudizio. Inoltre A Spadaro, La sentenza cost. n. 50/2015. Una novità rilevante: talvolta la democrazia è un optional, http://www.rivistaaic.it/la-sentenza-cost-n-50-2015-una-novita-rilevante-talvolta-la-democrazia-un-optional.html; L. Vandelli, La legge “Delrio” all’esame della Corte: ma non meritava una motivazione più accurata? http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/05/vandelli.pd.

 

26 Cfr. dall’abbondantissima letteratura soltanto oltre ai classici di S. Romano e M.S. Giannini le monografie risalenti di G. Berti, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Padova 1969; F. Pizzetti, Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Milano 1979.

 

27 “p) ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane; disposizioni di principio sulle forme associative dei comuni”.

 

28 Cfr. con riferimento ai comprensori già U. Pototschnig, Per una nuova legislazione comunale e provinciale, Le Regioni 1975, 1073ss.; ora S. Mangiameli (a cura di), Province e funzioni di area vasta : dal processo storico di formazione alla ristrutturazione istituzionale, Roma, 2012.

 

29 “85. Le province di cui ai commi da 51 a 53, quali enti con funzioni di area vasta, esercitano le seguenti funzioni fondamentali: a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza; b) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente; c) programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale; d) raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; e) gestione dell’edilizia scolastica; f) controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale.”

 

30 Cfr. F. Merloni, Sul destino delle funzioni di area vasta nella prospettiva di una riforma costituzionale del Titolo V, in: Le istituzioni del federalismo 2014, 215ss.

 

31 Cfr. Deliberazione della Giunta Regionale 13 ottobre 2014, n. 2 – 406. Articolo 1, comma 91, Legge 56/2014. Accordo Stato-Regioni sancito in Conferenza unificata dell’11/09/2014. Istituzione dell’Osservatorio regionale in materia di riordino delle funzioni e dei compiti amministrativi agli Enti locali.http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2014/42/attach/dgr_00406_440_13102014.pdf.

 

32 Cfr. in tal senso l’ultimo punto della circolare ministeriale del 23. 10. 2014.

 

33 Uno dei primi esempi è il nuovo statuto della provincia di Monza-Brienza http://www.provincia.mb.it/conosci_provincia/statuto/statuto.html.

 

34 Cf. M. Orlando, A. Poggi, Aggiornamenti sulla Città Metropolitana di Torino (21.2.2015), http://federalismi.it/.

 

35 Delibera n. 29/2014/SEZAUT/FRG e Relazione.

 

36 L’art. 1 comma 467 consente “ai fini della verifica del rispetto del patto di stabilità interno” di considerare “nel limite massimo di 50 milioni di euro per l’anno 2015 e 50 milioni di euro per l’anno 2016, le spese sostenute dalle province e dalle città metropolitane per interventi di edilizia scolastica.”.

 

38 Per la situazione piemontese cfr. il lodevole sforzo chiarificatore di M. Orlando, L’attuazione in Piemonte della legge 56/2014: il riordino delle funzioni delle province, in Politiche Piemonte, n. 31/2014,http://www.politichepiemonte.it/site/index.php?option=com_content&view=article&id=431%3Alattuazione-in-piemonte-della-legge-562014-il-riordino-delle-funzioni-delle-province&catid=73%3Afinanza-locale&Itemid=94

 

40 C. Tubertini, Area vasta e non solo: il sistema locale alla prova delle riforme, Istituzioni del federalismo 2014, 197ss.

 

41 Più in generale cfr. B. Pezzini, Il principio costituzionale dell’autonomia locale e le sue regole, in: Associazione Gruppo di Pisa, Il valore delle autonomie: territorio, potere, democrazia, Bergamo 6-7 giugno 2014.