Le trivellazioni in Adriatico: alcuni punti fermi e molte questioni aperte. Sentenza della Corte Costituzionale n. 17/2016

Claudia Sartoretti[1]

 

 

1. La sentenza con la quale il 19 gennaio la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum abrogativo presentata da nove Regioni in materia di trivellazioni in mare, costituisce un primo punto di approdo di una lunga e complessa vicenda giuridica riguardante l’impiego di idrocarburi in Italia[2].

Il quesito su cui la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi è solo una, innanzitutto, delle sei richieste referendarie che i Consigli regionali di Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise (e in un primo momento anche Abruzzo) avevano presentato e con le quali auspicavano di poter limitare la ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi nel territorio nazionale. Come è noto, solo il quesito della sentenza in esame è stato sottoposto al vaglio della Consulta: gli altri cinque quesiti, inizialmente dichiarati ammissibili dall’Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di Cassazione, sono stati invece, in un secondo momento, respinti dal medesimo per sopravvenute modifiche del Governo Renzi alle norme oggetto della richiesta referendaria.

Anche al fine di meglio comprendere il contenuto della decisione in esame appare dunque utile, in via preliminare, ripercorrere – seppur fugacemente e nelle linee essenziali – le tappe fondamentali che hanno condotto all’ammissione del solo sesto quesito referendario ed analizzare, più in generale, le ragioni che hanno spinto alcuni Consigli regionali ad intervenire attivamente nella lotta contro la ricerca e l’estrazione di petrolio e gas nei nostri mari.

La proposta referendaria avanzata dalle Regioni, ed articolata in sei quesiti, riguardava in un primo momento l’abrogazione dell’art. 35 del decreto-legge “Sviluppo” del 22 giugno 2012, n.83 (così come convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 e recante “Misure urgenti per la crescita del paese”), alcune parti dell’art. 38 del decreto-legge “Sblocca Italia” del 12 settembre 2014, n. 133 (convertito dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 e volto a introdurre “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive”) oltre ad alcune disposizioni contenute nel decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (in materia di semplificazione) e della legge 23 agosto 2004, n. 239 sul riordino del settore energetico.

Gli intenti delle Regioni promotrici dei referendum erano sostanzialmente quello, da un lato, di annullare le facilitazioni normative alle trivellazioni, e nella fattispecie la norma che consente di operare entro le dodici miglia dalle coste, dall’altro, di evitare un nuovo accentramento delle competenze nelle materie energetiche a favore dello Stato e a detrimento delle amministrazioni locali a cui le norme sopra citate avrebbero impedito di bloccare qualsivoglia progetto in tema di trivellazioni.

Più specificatamente, le richieste referendarie miravano a chiedere l’abrogazione (1) dell’art. 38, comma 1, del decreto “Sblocca Italia” là ove sanciva la strategicità, indifferibilità ed urgenza delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi; (2) del comma 1-bis del medesimo articolo che istituiva un “piano delle aree” finalizzato alla razionalizzazione delle attività di ricerca ed estrazione degli idrocarburi; (3) del comma 5 in ordine alla durata delle attività previste sulla base di un nuovo titolo concessorio unico; (4) dell’art. 57 del decreto-legge sulle semplificazioni con riferimento alle disposizioni per le infrastrutture strategiche ivi contenute e alla previsione dell’esercizio sostitutivo dello Stato con la procedura semplificata disciplinata dalla legge 23 agosto 2004, n. 239; (5) dell’art. 1, comma 8-bis, della stessa n. 239/2004 relativamente al ruolo degli enti territoriali e al rischio di un loro depotenziamento nelle competenze sulla definizione delle aree esplorative e sul rilascio dei titoli minerari; infine (6) dell’art. 35 del decreto “Sviluppo” in merito alla richiesta di ripristinare pienamente il divieto di qualunque attività di ricerca e estrazione di idrocarburi sia nelle aree marine protette che, in ogni caso, entro le dodici miglia dalle coste e dalle aree protette.

Tutti e sei i quesiti, come si è già precisato, sono stati inizialmente ammessi dall’Ufficio centrale per il referendum, ma i primi cinque sono stati accantonati a seguito delle modifiche introdotte nella legge di stabilità dal Governo Renzi. Gli emendamenti inseriti nella legge di stabilità[3] del 2016 eliminano, infatti, il carattere strategico, di indifferibilità e urgenza delle c.d. attività upstream, riconoscendo alle stesse il solo carattere di pubblica utilità, che costituisce uno dei requisiti per l’emanazione del decreto di esproprio (modifica del comma 1 dell’art. 38 del d.l. 133/2014); abrogano la norma  che prevede l’emanazione, con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di un piano delle aree in cui sono consentite le c.d. attività upstream (abrogazione del comma 1-bis del medesimo art. 38); affermano che le attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi sono svolte con le modalità di cui alla legge n. 9/1991 (ossia secondo la vecchia forma di concessioni che prevede delle proroghe) oppure a seguito del rilascio di un titolo concessorio unico (modifica del comma 5 del medesimo art. 38) sulla base di un programma generale dei lavori articolato in una prima fase di ricerca della durata di sei anni (la quale però non è più prorogabile come invece previsto dalla legislazione previgente) a cui segue la fase della coltivazione della durata di 30 anni; eliminano le disposizioni vigenti che consentono la proroga della durata delle fasi succitate; sopprimono, per le infrastrutture energetiche strategiche, in caso di mancato raggiungimento delle intese con le Regioni, del richiamo al potere sostitutivo della Presidenza del Consiglio da esercitarsi (senza intesa con le regioni) ai sensi del comma 8-bis dell’articolo 1 della legge n. 239/2004.

L’unico quesito referendario che ha proseguito l’iter è dunque il sesto (finalizzato a chiedere il ripristino del divieto di svolgere attività di prospezione e coltivazione di idrocarburi in zone di mare entro dodici miglia marine), relativamente al quale l’Ufficio centrale per il referendum ha confermato la sussistenza dei requisiti necessari alla sua presentazione. Così è stato nonostante le modifiche normative apportate alle disposizioni oggetto della richiesta referendaria in questione, che hanno comunque posta la necessità di rivalutarne la legittimità alla luce degli emendamenti intervenuti nella disciplina che si intendeva abrogare.

L’art. 1, comma 239, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriannuale dello Stato, c.d. legge di Stabilità 2016) ha infatti disposto l’abrogazione dell’articolo 6, comma 17, secondo e terzo periodo, del d.lgs. 152/2006, (così come sostituito dall’art. 35, comma 1, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83) stabilendo, da una parte, il divieto di attività estrattive in mare entro le dodici miglia dalle linee costiere ed assicurando però, dall’altra, la durata dei titoli abilitativi già rilasciati per tutto il periodo di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale. In ragione, pertanto, della sopravvenienza normativa, l’Ufficio centrale per il referendum ha provveduto ad accertare se le modifiche introdotte imponessero di dichiarare che le operazioni referendarie non dovessero più avere corso (come avvenuto per gli altri cinque quesiti) ovvero se la richiesta referendaria non si fosse invece trasferita sulla nuova disposizione legislativa, qualora quest’ultima non avesse intaccato il contenuto normativo essenziale del precetto.

All’esito del raffronto fra la disciplina originaria e quella sopravvenuta, l’Ufficio centrale per il referendum ha osservato che lo ius superveniens ha introdotto «una modificazione della durata dei titoli abilitativi già rilasciati, commisurandola al periodo “di vita utile del giacimento”, prevedendo, quindi, una sostanziale proroga dei titoli abilitativi già rilasciati, ove “la vita utile del giacimento” non superi la durata stabilita nel titolo». In sostanza, la nuova disciplina non sembra modificare il contenuto normativo essenziale del precetto oggetto della richiesta referendaria ma lascia, anzi, invariato l’intento di fondo del legislatore.

Di qui la riformulazione del quesito da parte dell’Ufficio centrale con cui si chiede ora agli elettori di pronunciarsi sull’abrogazione dell’art. 6, comma 17, terzo periodo del decreto legislativo 3 aprile 2006 (c.d. Codice dell’ambiente), come sostituito dall’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 «limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”». Così rivista, la richiesta referendaria è stata sottoposta al controllo di ammissibilità da parte della Corte costituzionale, il cui esito è dato appunto dalla sentenza qui in esame.

Questa, in sintesi, la “vicenda giuridica” che, ad oggi, ha caratterizzato i quesiti sollevati dalle Regioni interessate ad arginare l’uso delle trivellazioni in mare. Una situazione complessa che ha visto, inoltre, di recente, sei Regioni fra le nove promotrici dei referendum sollevare davanti alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione nei confronti del Parlamento, del Presidente del Consiglio e dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione in relazione alle richieste referendarie inerenti alla pianificazione delle attività estrattive degli idrocarburi e alla prorogabilità dei titoli abilitativi a tali attività.

Il conflitto di attribuzioni è stato dichiarato inammissibile dalla Consulta (9 gennaio 2016), ma la “questione” trivellazioni sembra non chiudersi qua. In attesa di conoscere l’esito del referendum del 17 aprile sul sesto quesito, le Regioni Veneto e Puglia dovrebbero infatti depositare a breve due ricorsi di legittimità costituzionale sugli articoli della legge di Stabilità con cui sono stati elusi i quesiti sul Piano delle aree e la durata delle concessioni.

 

2. Fatte queste premesse sulla serie di eventi che ha caratterizzato le richieste referendarie in materia di trivellazioni, si può ora esaminare più attentamente la sentenza della Corte costituzionale che ha accolto il sesto quesito.

Due in sostanza sono le questioni su cui la Corte si è pronunciata per poi giungere conclusivamente ad affermare l’ammissibilità del referendum in oggetto.

La prima di carattere “formale” riguarda l’obiezione sollevata dallo Stato e dalla Regione Abruzzo in merito alla legittimità del trasferimento del quesito disposto dall’Ufficio centrale per il referendum sul nuovo testo dell’art. 6, comma 17, secondo e terzo periodo del d.lgs n. 152/2006, così come modificato dalla legge di Stabilità 2016. Secondo la difesa dello Stato e della Regione Abruzzo, la nuova disciplina ha mutato il contenuto normativo essenziale del precetto oggetto della richiesta referendaria che conseguentemente non poteva essere trasferita nella nuova previsione legislativa.

La seconda questione riguarda invece il contenuto del nuovo quesito così come riformulato dall’Ufficio centrale del referendum. Per l’Avvocatura dello Stato la richiesta referendaria difetta di chiarezza ed omogeneità, poiché la sua ratio – quella di tutelare l’ambiente – sarebbe contraddetta dal fatto che l’abrogazione verte anche sull’inciso relativo alla salvaguardia degli standard ambientali. Inoltre, l’intervento legislativo che ha modificato il contenuto dell’art. 6 comma 17 non è – ancora a parere dello Stato – elusivo del quesito referendario originario ma risulta invece coerente con l’obiettivo perseguito da quest’ultimo di contemperare l’interesse pubblico all’approvvigionamento delle risorse energetiche con la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Con riferimento alla trasferibilità del quesito, la Corte costituzionale ha confermato la legittimità dell’operazione effettuata dall’Ufficio centrale per il referendum, dichiarando che la nuova disciplina non modifica invero il contenuto della disposizione oggetto del quesito referendario.

Secondo la Consulta, infatti, gli emendamenti apportati all’art. 6, comma 17, non esprimono un’intenzione del legislatore diversa da quella manifestata nel testo originario della suddetta norma. Come aveva già chiarito la stessa Corte nella sentenza n. 68 del 1978, «decisivo è il confronto fra i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, senza che occorra aver riguardo ai principi dell’intero ordinamento in cui questi si ritrovino inseriti». Se da tale confronto l’intenzione risulta «fondamentalmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio apportate dalle Camere, la corrispondente richiesta non può essere bloccata perché diversamente la sovranità del popolo (attivata da quell’iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza»[4].

La disposizione originaria imponeva, in particolare, il divieto di estrazione entro le 12 miglia dalle linee di costa «fatti salvi i procedimenti concessori di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge n. 9 del 1991 in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 29 giugno 2010 n. 128 ed i procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi, nonché l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla medesima data, anche ai fini della esecuzione delle attività di ricerca, sviluppo e coltivazione da autorizzare nell’ambito dei titoli stessi, delle eventuali relative proroghe e dei procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi».  Il successivo intervento legislativo finalizzato ad emendare l’art. 6, comma 17, sopra riportato non ha cambiato la sostanza della norma ivi contenuta, come si evince dal tenore letterale del nuovo precetto legislativo che pur confermando il divieto di trivellare in mare nell’ambito delle 12 miglia costiere, fa però salvi i titoli abilitativi già rilasciati per tutta la durata di vita utile del giacimento.

L’introduzione di una modificazione della durata delle concessioni precedentemente attribuite, che permette di proseguire le trivellazioni fino a quando il giacimento lo consenta, riconosce di fatto una proroga dei titoli abilitativi già assegnati, oltre la loro scadenza naturale. Ciò che ha indotto l’Ufficio centrale per il referendum a concludere che la nuova normativa non fosse tale da incidere sostanzialmente sul contenuto della disposizione oggetto del quesito referendario proposto da nove Regioni, e che pertanto, il referendum dovesse tenersi ugualmente, avendo ad oggetto il nuovo testo. Non tutti i dubbi e le perplessità che hanno indotto alcuni Consigli regionali a promuovere il referendum sul quesito originario paiono essere stati fugati dagli emendamenti apportati con la legge stabilità 2016. Le legittime preoccupazioni delle Regioni per la salvaguardia delle coste e per la tutela dell’ambiente sembrano infatti valere anche per il nuovo art. 6, comma 17, laddove viene “allungata” la vita dei titoli abilitativi, collegandoli – come si è già detto – non già alla loro scadenza ma all’esaurimento della vita utile del giacimento.

Di qui la pronuncia favorevole della Corte circa la possibilità di trasferire il quesito referendario proposto dalle Regioni Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise sul testo dell’art. 6, comma, 17, secondo e terzo periodo, così come novellato dalla legge di Stabilità 2016.

Superato il problema della applicabilità dell’art. 39 della legge n. 352 del 1970, quale risulta dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 68/1978, la Consulta è poi intervenuta sulla mancanza di chiarezza, univocità e coerenza del nuovo quesito rilevata dall’Avvocatura dello Stato.

La richiesta referendaria riformulata dall’Ufficio centrale chiede agli elettori – come si è visto – di esprimersi sull’abrogazione del nuovo art. 6, comma, 17, del d.lgs. 152/2006 limitatamente alle seguenti parole: «per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale». Secondo la Consulta l’inciso relativo alla tutela dell’ecosistema non priverebbe di coerenza e chiarezza – come invece contestato dalla difesa statale – il nuovo quesito referendario e tanto meno disorienterebbe l’elettore sul fine ultimo della richiesta referendaria che resta quello di limitare le trivellazioni in mare e proteggere in questo modo l’ambiente dal rischio di inquinamento. I giudici costituzionali osservano infatti come «la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l’obiettivo […] del referendum va desunto […] esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento». A ciò si aggiunga l’importanza che assume «l’univocità del quesito e cioè l’evidenza del fine intrinseco dell’atto abrogativo dovendosi dalle stesse norme di cui si propone l’abrogazione trarre con chiarezza “una matrice razionalmente unitaria”, un criterio ispiratore fondamentalmente comune o un principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale».

Secondo la Corte costituzionale, il quesito referendario non comporta l’introduzione di una nuova e diversa disciplina, ma produce l’effetto di mera abrogazione della disposizione oggetto della richiesta referendaria riformulata, «in vista del chiaro ed univoco risultato di non consentire che il divieto stabilito nelle zone di mare in questione incontri deroghe ulteriori quanto alla durata dei titoli abilitativi già rilasciati».

L’abrogazione anche del richiamo alla salvaguardia ambientale non eluderebbe dunque il significato recondito del referendum in esame poiché – come precisa la Corte – la tutela dell’ecosistema è oggetto di una apposita disciplina normativa, anche di origine europea, che resterebbe salva a tutti gli effetti.

Appare d’altra parte discutibile a chi scrive anche l’osservazione dello Stato secondo cui la possibilità stessa che il giacimento possa essere sfruttato oltre la durata dei titoli abilitativi «è solo una mera ipotesi». Un’espressione questa che non solo pecca di “ingenuità”, ma ci rammenta ancora una volta l’importanza che assume la forma, quale barriera tra il forte e il debole – secondo le illuminanti e sempre attuali parole di Alexis de Tocqueville – tra chi governa e chi è governato, tanto più necessaria, quanto più lo Stato è attivo e potente e i privati «indolenti e imbelli». Comunque la si voglia infatti vedere, la formalizzazione della proroga dei titoli abilitativi consente che le trivellazioni per le quali sono già state rilasciate delle concessioni non abbiano una scadenza, permettendo in questo modo ai concessionari che intendano sfruttare un giacimento fino al suo esaurimento di poterlo legittimamente fare.

L’estensione, in luogo della limitazione, della durata dei titoli abilitativi già rilasciati alla data del 1° gennaio 2016 non sembra lasciare margini di dubbio circa l’intento del legislatore di tutelare – meglio, privilegiare – le attività estrattive di idrocarburi in mare, apparendo invece meno convincente la difesa dello Stato allorché ribadisce che le modifiche normative introdotte mirano a garantire la massima tutela delle aree marine e costiere protette.

L’esplicito riferimento agli standard di sicurezza e tutela ambientale nel cui rispetto le trivellazioni già autorizzate possono proseguire fino a che il giacimento lo consenta non è di per sé elemento sufficiente per ritenere che da parte dello Stato vi sia stata un’attenzione particolare per la questione ambientale. Se così fosse stato, la legge italiana avrebbe dovuto porre limiti maggiori all’attività di estrazione degli idrocarburi, anziché prorogare la durata dei titoli abilitativi già rilasciati. E questo in funzione soprattutto di una politica energetica che dovrebbe incrementare il settore delle rinnovabili, come l’Europa ci chiede ormai da tempo, piuttosto che continuare ad investire sull’utilizzo di fonti fossili.  

 

3. Come è noto l’Unione Europea con la Direttiva 2009/29/CE ha approvato il c.d. pacchetto clima-energia con il quale ha stabilito per l’anno 2020 l’obiettivo di ridurre del 20% le emissioni di gas ad effetto serra, di attestare al 20% il risparmio energetico e di aumentare del 20% il consumo di fonti rinnovabili[5]. Questo prevede che l’Italia raggiunga entro il 2020 una riduzione dei consumi energetici totali del 20%, una riduzione delle emissioni di anidride carbonica della stessa percentuale, e che in generale il 17% del fabbisogno totale italiano sia coperto da fonti rinnovabili.

Un maggior ricorso all’energia prodotta da fonti rinnovabili è ritenuto infatti necessario dalle autorità europee, sia per ridurre le emissioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera, contrastare il cambiamento climatico e, migliorare, di conseguenza, la qualità dell’ambiente in cui viviamo; sia per garantire una maggior sicurezza degli approvvigionamenti energetici degli Stati, riducendo in questo modo la loro dipendenza dalle importazioni estere di combustibili fossili che costituiscono, a tutt’oggi, la fonte principale di produzione dell’elettricità.

E non è tutto.

Come è stato osservato, la produzione di energie rinnovabili contribuisce in misura significativa, al conseguimento di uno sviluppo sostenibile, obiettivo ancor più facilmente raggiungibile laddove il ricorso all’energia “pulita” fa perdere alla tutela ambientale quella connotazione oppositiva rispetto alla crescita economica che la contraddistingueva nella fase iniziale della sua affermazione.

Il ricorso a fonti di energia alternative consente infatti di perseguire, attraverso la riduzione delle emissioni di CO2 e il contrasto ai cambiamenti climatici che ne deriverebbe, un interesse non conflittuale ma comune a quello della tutela ambientale a migliorare la qualità della vita[6]. Il consolidamento di una politica energetica sostenibile viene a rappresentare un fattore importante nella garanzia stessa di un maggiore sviluppo economico ed una più elevata occupazione che deriverebbe dall’innovazione tecnologica conseguente l’impiego di fonti non convenzionali.

Va inoltre evidenziato come i benefici derivanti dall’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili sono apprezzabili soprattutto nel lungo periodo, ciò che permette di sottolinearne l’importanza per la tutela delle generazioni future prima ancora di quelle presenti, in perfetta coerenza con la concezione di politica ambientale improntata all’equità intergenerazionale, formalizzata nel Codice dell’ambiente[7].

Se dunque – come sottolinea l’Avvocatura dello Stato a difesa del nuovo art. 6, comma 17, secondo e terzo periodo del d.lgs. 152/2006 – la preoccupazione del legislatore è quella di assicurare il contemperamento dell’interesse pubblico all’approvvigionamento delle risorse energetiche con la protezione dell’ecosistema, diventa a fortiori necessario porre tutte le condizioni per favorire il passaggio dai combustibili fossili tradizionali alle fonti rinnovabili, anziché incentivare ancora, di fatto, il ricorso agli idrocarburi[8]. E a richiederlo è d’altra parte lo stesso principio di precauzione, vero e proprio asse portante della normativa ambientale a livello nazionale ed europeo, codificato allo scopo di assicurare una difesa forte dell’equilibrio ecologico contro attività inquinanti e ad elevato rischio d’incidente ambientale, come quelle connesse al ciclo di ricerca e produzione di idrocarburi.

Come già sottolineato, il rilievo della difesa dello Stato secondo cui il nuovo quesito sarebbe illegittimo poiché fa venir meno quella parte della disposizione che salvaguarda la tutela ambientale – conformemente agli artt. 41, secondo comma, e 32 della Costituzione – non può, in definitiva, che risultare infondato, nella misura in cui la richiesta referendaria, se approvata, limiterebbe l’uso dei combustibili fossili, favorendo al contrario le fonti ad energia rinnovabili e garantendo, in questo modo, una maggiore tutela dell’ambiente ed una basilare sicurezza energetica del paese.

Come è stato inoltre osservato dalla Corte costituzionale, l’abrogazione dell’esplicito riferimento alla protezione dell’ecosistema non comprometterebbe la centralità del valore “ambiente” nella questione riguardante le trivellazioni. La tutela ambientale resta infatti uno dei caposaldi principali della politica italiana come si desume dalle norme costituzionali, e segnatamente dall’art. 32 Cost. e dal novellato art. 117, comma 2, lett. s), e dalla apposita disciplina normativa nazionale ed europea sull’argomento.

A ciò si aggiunga il fatto che come molte altre situazioni giuridiche soggettive non espressamente codificate nella legge nazionale, anche il diritto alla tutela dell’ambiente ha trovato il suo espresso riconoscimento collocandosi sui rami alti di un sistema multilivello dove la garanzia dei diritti accordata dall’ordinamento interno si aggiunge a quella apprestata dall’ordinamento europeo.

L’inclusione nella richiesta di abrogazione del riferimento agli standard di salvaguardia dell’ecosistema non costituisce pertanto un fattore di rischio per una ridotta tutela ambientale. Le ragioni dell’ambiente continuerebbero, ugualmente, a farsi sentire nei procedimenti amministrativi finalizzati al rilascio dei permessi di trivellazione, poiché al di là dell’inciso dell’art. 6, comma 17, d.lgs 152/2006, sono i principi generali espressi nei trattati dell’Unione europea a imporne in primis il rispetto e la tutela[9].

 

4. La complessa questione delle trivellazioni in mare suggerisce infine un’ultima riflessione in merito alla ridotta o quasi assente partecipazione delle Regioni alla pianificazione e razionalizzazione delle scelte riguardanti la ricerca e l’estrazione degli idrocarburi. La riforma del Titolo V della Costituzione, attuata con la legge costituzionale n. 3/2001, ha posto, come noto, l’energia tra le materie a potestà legislativa concorrente, e così analogamente il “governo del territorio”. Tuttavia i recenti interventi legislativi – segnatamente il decreto Sblocca Italia – sembrano aver optato per un maggior accentramento delle decisioni relative al settore strategico in discussione nelle mani dello Stato, anticipando sostanzialmente la riforma costituzionale[10] ancora in discussione in Parlamento con la quale si intende ricondurre nella competenza esclusiva statale alcune materie concorrenti, fra le quali proprio l’energia e le infrastrutture strategiche.

La giurisprudenza costituzionale è sempre stata piuttosto costante nell’attribuire di fatto allo Stato una competenza pressoché esclusiva in materia di energia (ad esempio Corte cost. n. 224/2012; n. 99/2012; n. 308/2011; n. 107/2011; n. 168/2010; n. 6/2004; n. 303/2003) allo scopo di fronteggiare le esigenze di carattere unitario che spesso emergono in questo settore. Tuttavia, la Consulta ha sempre precisato che l’accentramento nelle mani statali è legittimo a condizione che l’esercizio delle funzioni relative sia fatto oggetto di un previo accordo con la Regione interessata[11].

Se, infatti, la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica, nel quadro dell’art. 5 della Costituzione, consente di derogare al cosiddetto limite del territorio, ciò non deve avvenire senza che siano stabiliti dei canali di cooperazione reali tra lo Stato e le Regioni, poiché solo così si può garantire il raggiungimento di un efficace multilevel system of governance, in piena sintonia con i principi costituzionali di leale collaborazione e sussidiarietà[12].

Il legislatore sembra invece orientato ad assicurare l’assoluto primato statale nella questione idrocarburi e più in generale in quella energetica. La legge di stabilità ha infatti modificato l’art. 6, comma 17, del codice ambientale abrogando quella parte della disposizione che prevedeva che le autorizzazioni a svolgere attività estrattive fossero previamente sottoposte a procedura di valutazione ambientale, sentito il parere degli enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle suddette attività.

Tutto questo lascia per certi versi aperta la questione dell’impiego degli idrocarburi in Italia e ancor più quella dell’opportunità di ricorrere a fonti rinnovabili come preziosa alternativa ai combustibili fossili. Aspetti, questi, di una problematica su cui forse proprio la voce dei territori potrebbe contribuire a dare una svolta consistente al settore energetico, là dove gli enti più vicini ai cittadini sarebbero meglio in grado di rappresentare i rischi per la salute, sismico-idrogeologico, di inquinamento dell’aria e dell’acqua, nonché i rischi per attività economiche quali pesca, agricoltura e turismo, che potrebbero derivare dalla estrazione del petrolio in determinate aree


 


[1] Professore aggregato di Diritto pubblico nell’Università di Torino.

 

[2] S.Vaccari, Le nuove disposizioni in tema di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e le problematiche giuridiche connesse, in Riv. Quadrim. di Dir. dell’Ambiente, 2/2015, pp. 48 e ss.

 

[3] Cfr. la sintesi del contenuto della legge di stabilità 2016 alla pagina web

 http://www.camera.it/temiap/2016/01/13/OCD177-1657.pdf.

 

[4] V., Corte cost., 16-17 maggio 1978, n. 68, in www.giurcost.org, in cui i giudici costituzionali elaborano quella che è stata definita la regola dell’“abrogazione sufficiente”, secondo la quale spetta all’Ufficio centrale per il referendum stabilire se l’abrogazione successiva all’avvio dell’iter referendario abbia uno spessore “sufficiente” per interrompere la procedura referendaria già iniziata. Qualora l’esito dell’esame è negativo, l’Ufficio della Cassazione ha il compito di riformulare il testo del quesito, “trasferendolo” alle sopravvenute norme abrogative. Per approfondimenti v., più recentemente, D. Baldazzi, La tormentata vicenda della normativa in materia nucleare: quando la legge non è “sufficiente” ad interferire con il potere referendario, in www.forumquadernicostituzionali.it, 15 aprile 2012.

 

[5] La strategia politica “Europa 2020”, attenta al rapporto tra i cambiamenti climatici e l’energia, rappresenta un volano fondamentale per lo sviluppo delle energie rinnovabili. L’attenzione che l’Ue presta verso questo tipo di fonti energetiche è stata sollecitata anche dal contesto internazionale, in particolare dalla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici di Rio de Janeiro del 1992 e dal successivo Protocollo di Kyoto del 1997, a cui l’Unione europea ha aderito nel 2002, che stabilisce la riduzione delle emissioni di gas di serra in modo flessibile, cioè in funzione dei diversi ordinamenti. In questa prospettiva, le istituzioni europee hanno voluto privilegiare una politica energetica basata per lo più su fonti rinnovabili, come si desume dall’approvazione della direttiva 2001/77/CE, relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità (27 settembre 2001), e più recentemente della direttiva 2009/28/CE che abroga modificandole, le direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE. Vedi per approfondimenti, R. Ferrara, The Smart City and the Green Economy in Europe: a Critical Approach, in Il Piemonte delle Autonomie, 2/2015; B. Pozzo (a cura di), Le politiche energetiche comunitarie. Un’analisi degli incentivi allo sviluppo delle fonti rinnovabili, Milano, 2009; A. Crosetti, R. Ferrara, F. Fracchia, N. Olivetti Rason, Diritto dell’ambiente, Laterza, Roma-Bari, 2008; L. Ferraro, Costituzione, tutela del paesaggio e fonti di energia rinnovabili, in www.forumquadernicostituzionali.it, 10 ottobre 2012.

 

[6] Sul punto v., fra gli altri, G. Rossi, A. Macchiati, La sfida dell’energia pulita. Rapporto Astrid, Bologna, 2009; G. Comporti, Energia e ambiente, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 182 e ss.

 

[7] Cfr., sul punto, R. Bifulco, Diritto e generazioni future. Problemi giuridici della responsabilità intergenerazionale, Franco Angeli, Milano, 2008; F. Fracchia, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della specie umana, Editoriale, Scientifica, Napoli, 2010. L’art. 3 quater del c.d. Codice dell’ambiente, introdotto dal d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 prevede che «ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future».

 

[8] La dottrina (cfr., ad esempio, V. Molaschi, Paesaggio versus ambiente: osservazioni alla luce della giurisprudenza in materia di realizzazione di impianti eolici, in Rivista giuridica dell’edilizia, n. 5-6, 2009, pp. 172 e ss.; F. de Leonardis, Paesaggio e attività produttive: il caso dell’energia eolica, in www.scienzegiuridiche.unipr.it/attualitagiuridiche; Id, Criteri di bilanciamento tra paesaggio e energia eolica, in Diritto amministrativo, n. 4, 2005, 899 ss.; L. Ferraro, op. cit.) e la giurisprudenza fanno osservare come il passaggio dai combustibili fossili alle fonti energetiche rinnovabili faccia invero entrare in gioco un nuovo bilanciamento fra l’interesse alla tutela dell’ambiente e quello alla salvaguardia del paesaggio.

V. Corte cost., 24-28 giugno, 2004, n.196 (www.giurcost.org) in cui si legge che «gli interessi coinvolti…nella tutela del paesaggio come “forma del territorio e dell’ambiente” impongono, in ragione della loro primazia, la necessità che essi debbano sempre essere presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni». La necessità del bilanciamento è condivisa anche da una parte della giurisprudenza amministrativa, secondo cui «alla concezione totalizzante dell’interesse paesaggistico…non può sostituirsi una nuova concezione totalizzante dell’interesse ambientale che ne postuli la tutela ad ogni costo»,…«sicché il conflitto tra tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente (e indirettamente della salute) non può essere risolto in forza di una nuova aprioristica gerarchia che inverte la scala di valori» (TAR Molise, sez. I, 8 aprile 2009, n.115 e sez. I, 8 marzo 2011; n.99; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 28 settembre 2005, n. 1671 e sez. II, 4 febbraio 2005, n. 150; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 22 luglio 2010, n. 16938 e sez. VII, 29 gennaio 2009, n. 530; TAR Toscana, sez. II, 14 ottobre 2009, n. 1536; Consiglio di Stato, sez.VI, 3 marzo 2011, n. 1366 e sez. VI, 23 maggio 2012, n. 3039, in www.giustizia-amministrativa.it).

 

[9] Si pensi all’Atto Unico Europeo del 1987 che inserisce nel Trattato Comunitario un vero e proprio Titolo dedicato all’ambiente, conferendo così a tale politica una base giuridica formale e fissando allo stesso tempo tre obiettivi principali in materia: tutela dell’ambiente, protezione della salute umana, utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Successivamente, il Trattato sull’Unione Europea del ‘92 (Trattato di Maastricht), riconosce tra i compiti della Comunità la “crescita sostenibile e non inflazionistica e che rispetti l’ambiente”, affermando all’art.130 R, paragrafo 2, che “le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre politiche comunitarie”. Con il Trattato di Maastricht viene inoltre per la prima volta codificato il principio di precauzione accanto a quello di prevenzione dell’inquinatore-pagatore. Più recentemente, il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, dedica alla protezione dell’ecosistema il Titolo XX (artt. 191-193) in cui stabilisce, nello specifico, i seguenti obiettivi: tutela e miglioramento dell’ambiente, protezione della salute umana, utilizzazione accorta delle risorse naturali, promozione di misure internazionali in campo ambientale, soprattutto contro il cambiamento climatico. L’art.191 precisa inoltre che la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione, e si fonda sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”, in base al quale è l’inquinatore a dover sostenere il costo dell’inquinamento, senza che questo ricada genericamente sulle collettività. La letteratura sull’argomento è molto vasta, ma per una prima ricostruzione della normativa europea in materia ambientale, si veda ex multis, R. Ferrara, M.A. Sandulli (dir. da), Trattato di diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2014; E.A. Carnevale, P. Carrozza, G. Cerrina Feroni, G.F. Ferrari, G. Morbidelli, R. Orrù, Verso una politica energetica integrata: le energie rinnovabili nel prisma della comparazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014; P. Dell’Anno, E. Picozza, Trattato di diritto dell’ambiente, Cedam, Padova, 2012 M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Riv. Quadr. Dir dell’ambiente, 1-2/2012, pp. 62 e ss.; S. Grassi, Problemi di diritto costituzionale dell’ambiente, Milano, 2012; M. Mazzamuto, Diritto dell’ambiente e sistema comunitario delle libertà economiche, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2009, pp.1571 e ss.; M. Chiti, G. Greco, Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè, Milano, 2007; G. Cordini, P. Fois, S. Marchisio, Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, Giappichelli, Torino, 2005; L. Krämer, Manuale di diritto comunitario per l’ambiente, Giappichelli, Torino, 2002.

 

[10] Per un prima analisi dei possibili effetti della riforma costituzionale in itinere, cfr. A. Sterpa, Le riforme costituzionali e legislative del 2014: quale futuro per la multilevel governance dell’ambiente?, in www.federalismi.it, 19 novembre 2014.

 

[11] Sul punto, v., fra gli altri, G.F. Ferrari (a cura di), Energie rinnovabili e finanza locale, Carocci, Roma, 2015; G. Cerrina Feroni, Contesto e prospettive delle energie rinnovabili in Italia: tra diritto e politica, in www.federalismi.it, 25 giugno 2014;  C. Pellegrino, Costituzione, energia, idrocarburi. Dalla delegificazione alla Intesa quale strumento costituzionale, in www.forumquadernicostituzionali, 6 ottobre 2015; C. Vivani, Ambiente ed Energia, in R. Ferrara, M.A. Sandulli (dir. da), Trattato di diritto dell’ambiente cit., pp. 503 e ss.

 

[12] Si osservi come recentemente la Corte costituzionale – con sentenza dell’11 marzo 2015, n.58 in www.giurcost.org – abbia introdotto il principio della “prevalenza” come giustificazione a possibili interferenze da parte dello Stato in ambiti formalmente attribuiti alla potestà concorrente delle Regioni. Il principio – ha precisato la Consulta – interverrebbe ogniqualvolta l’azione unitaria dello Stato risulti giustificata dalla necessità di garantire livelli adeguati e non riducibili di tutela ambientale su tutto il territorio nazionale suddetto assicurerebbe. Più specificatamente, i giudici costituzionali hanno evidenziato che la riserva di legge statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. va applicata nell’accezione che consenta di preservare il bene giuridico «ambiente» dai possibili effetti distorsivi derivanti da vincoli imposti in modo differenziato in ciascuna Regione.