Lo “strict scrutiny” del Consiglio di Stato sulle delibere di decadenza dei consiglieri comunali

Eugenio Tagliasacchi[1]

 

Con la recente sentenza n. 7431 del 20 febbraio 2017[2], il Consiglio di Stato è tornato ad occuparsi della decadenza dei consiglieri comunali per assenze alle sedute del consiglio. Si tratta di un tema particolarmente delicato, in quanto impone di tenere conto di due distinte esigenze: da un lato occorre assicurare il rispetto della rappresentanza politica della comunità territoriale e, dall’altro, si devono impedire intollerabili abusi, dovuti a disinteresse verso i doveri connessi alla carica ricoperta, ossia al munus publicum[3].

Come è facile intuire, le due esigenze menzionate si collocano in un rapporto di strutturale contrasto, poiché il rispetto della volontà espressa dal corpo elettorale dovrebbe tendenzialmente escludere che il Consiglio comunale possa, attraverso una propria delibera, dichiarare la decadenza dei consiglieri, laddove la necessità di reagire a possibili abusi postula la previsione di istituti idonei a determinare la cessazione dalla carica e la sostituzione del soggetto inadempiente[4].

Entrambi i profili ora presi in considerazione sono connessi alla cura dell’interesse pubblico generale, benché esso venga in rilievo da punti di vista diversi.

Ad essi si aggiunge, poi, un ulteriore elemento, connesso all’interesse privato: occorre infatti tenere in debito conto anche la situazione giuridica soggettiva riferibile al consigliere comunale interessato a conservare la propria carica.

La natura giuridica di tale posizione soggettiva va qualificata alla stregua di un interesse legittimo, poiché attiene all’esercizio del potere espressamente previsto, in attuazione della riserva di legge relativa, dall’art. 43 comma 4 del TUEL, a mente del quale lo statuto comunale deve stabilire “i casi di decadenza per la mancata partecipazione alle sedute e le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative”.

Si deve ritenere che il potere in esame sia di natura vincolata, poiché la legge richiede che lo statuto specifichi in quali casi l’assenza alle sedute comporti l’adozione della delibera di decadenza. Si tratta, dunque, di una competenza statutaria riservata, da intendersi però vincolata dalla necessità di consentire al consigliere di far valere le cause giustificative.

La natura vincolata del potere va letta come un opportuno presidio a garanzia del singolo consigliere e, in generale, della rappresentanza politica. Sarebbe, infatti, incompatibile con il doveroso rispetto del principio di uguaglianza e di parità di trattamento, nonché con la natura politica dell’incarico, la previsione di discrezionalità amministrativa in questo ambito, poiché attribuirebbe un’inammissibile facoltà di incidere sulle scelte dell’elettorato in difetto di rigorosi presupposti.

Se, dunque, il potere di dichiarare la decadenza del consigliere deve essere qualificato alla stregua di un potere amministrativo vincolato, ne consegue che la situazione giuridica sottostante va a sua volta considerata come interesse legittimo, in ossequio ai principi espressi dalla Corte Costituzionale nelle celebri sentenze del 2004[5] e del 2006[6].

Una conferma della natura di interesse legittimo della situazione vantata dal consigliere comunale può essere tratta anche in via analogica.

Si può infatti avere riguardo all’ormai consolidata giurisprudenza in materia di nomina e revoca degli assessori. Al riguardo, la tesi prevalente in giurisprudenza[7] ritiene che tali provvedimenti siano soggetti alla giurisdizione del Giudice Amministrativo, trattandosi di atti di alta amministrazione e non di atti politici[8]. Per analoghe ragioni, anche l’atto che dichiara la decadenza del consigliere comunale va dunque ricondotto alla giurisdizione amministrativa, con la determinante differenza che la revoca degli assessori è caratterizzata da un’ampia discrezionalità, laddove la decadenza dei consiglieri è espressione di un potere vincolato. Anche sul punto però non sono mancate autorevoli pronunce di senso diverso[9], fondate sul diritto soggettivo all’elettorato passivo.

Così individuati i profili di interesse pubblico e privato che vengono in rilievo e le relative conseguenze in punto di giurisdizione, si può ora passare ad esaminare l’autentico punctum dolens del tema in esame, che, a differenza di quanto avviene per la revoca degli assessori, è rappresentato non tanto dalla questione di giurisdizione, quanto piuttosto, come già rilevato, dalla difficile ricerca di un punto di equilibrio tra il rispetto della scelta della rappresentanza politica espressa dalla comunità territoriale e l’osservanza dei doveri connessi al munus publicum.

La pronuncia in commento, inserendosi in questo contesto e confermando quanto affermato in precedenza dalla medesima sezione V del Consiglio di Stato[10], enuncia un preciso criterio di massima per interpretare le cause di decadenza. Tale criterio dovrà naturalmente essere declinato nelle specificità del caso concreto, con l’ovvia possibilità di rilevanti scostamenti e di pronunce sensibilmente divergenti, ma, ciononostante, l’affermazione di principio conserva intatto il suo valore di indirizzo per l’interprete.

A giudizio del Consiglio di Stato, poiché la decadenza comporta limitazioni all’esercizio di un munus publicum, le circostanze che la determinano vanno interpretate “restrittivamente e con estremo rigore” e, inoltre, si stabilisce che le assenze possono dare luogo a revoca solo quando mostrano “con ragionevole deduzione un atteggiamento di disinteresse per motivi futili o inadeguati rispetto agli impegni con l’incarico pubblico elettivo”.

Per queste stesse ragioni, gli aspetti garantistici della procedura devono invece essere valorizzati, al fine di evitare un uso distorto dell’istituto nei confronti delle minoranze politiche.

È quindi riservata particolare attenzione all’aspetto procedimentale, in quanto, da un lato, si afferma che non occorre che l’interessato debba fornire una giustificazione preventiva e, dall’altro, viene garantito il contraddittorio successivo, precisando un ulteriore e fondamentale limite: per poter dichiarare la decadenza, è necessario che la mancanza o l’inconferenza della giustificazione siano “obiettivamente gravi per assenza o estrema genericità e tali da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza dei motivi”.

Dopo aver illustrato le enunciazioni di principio espresse Consiglio di Stato, si può ora volgere l’attenzione al caso di specie, al fine di verificare il modo in cui quei principi astratti possano essere declinati in concreto.

Nel caso posto all’attenzione del Collegio, il ricorrente era stato eletto consigliere comunale nel comune di Caposele nella lista collegata al sindaco ed era stato assente a tre consecutive sedute del Consiglio.

Lo Statuto comunale, integrando la riserva statutaria posta dal già menzionato art. 43 Tuel, ai fini della decadenza faceva riferimento all’eventualità di assenze del consigliere alle sedute “per 3 volte consecutive, senza giustificato motivo”.

Pertanto, il Consiglio medesimo, con apposita delibera, aveva dichiarato la decadenza del ricorrente dalla carica di consigliere comunale, e con una successiva delibera consiliare era stata disposta la sua sostituzione. L’interessato aveva dunque proposto ricorso al TAR competente per ottenere l’annullamento della delibera in questione.

Il TAR Campania aveva però rigettato il ricorso ritenendo che le ragioni addotte dal ricorrente per giustificare le proprie assenze non fossero soddisfacenti. Proprio in ragione della rilevanza che le peculiarità del caso concreto assumono in questa materia, pare opportuno soffermarsi sulle giustificazioni addotte ex post dal consigliere.

Per la prima assenza il ricorrente si era limitato a esibire copia del biglietto aereo di ritorno da Timisoara a Roma, senza dare conto del motivo del viaggio, né della data della partenza e, soprattutto, senza dare indicazioni in merito alla comunicazione della convocazione del Consiglio comunale. Del tutto generiche, meramente ipotetiche, prive di prova e assolutmente non circostanziate apparivano altresì le giustificazioni circa l’impossibilità di presenziare alla suddetta seduta: i limiti di velocità, il traffico ed i ritardi burocratici all’arrivo in aeroporto per il ritiro dei bagagli.

Con riferimento alla seconda assenza, il Comune aveva contestato come la relativa convocazione fosse stata comunicata  ben sette giorni prima della partenza del ricorrente e che questi non aveva dato alcun elemento idoneo ad apprezzare l’indispensabilità del viaggio e l’impossibilità di differirlo.

Appare interessante l’attenzione riservata dal TAR ad uno specifico parametro di valutazione: quello rappresentato dallo sforzo profuso dal consigliere per prevenire e/o superare la difficoltà che gli impediva di partecipare alla seduta, “siccome indicativo dell’importanza da lui attribuita al puntuale disimpegno delle responsabilità connesse all’investitura democratica nella carica consiliare”.

Infine, per ciò che concerne la terza assenza del ricorrente, viene in rilievo una sorta di “protesta politica”, volta a far venire meno il numero legale necessario per la validità della delibera consiliare. Tuttavia, al riguardo, il TAR evidenzia come il mancato assolvimento dell’onere di comunicazione dell’assenza sia incompatibile col “significato politico” della stessa, soprattutto considerato che il consigliere non aveva fornito indicazioni sul punto nemmeno in data successiva alla seduta, impedendo così all’amministrazione di valutare la “fondatezza, serietà e rilevanza del motivo”.

Il ricorrente ha proposto dunque appello al Consiglio di Stato, rilevando, a dimostrazione del suo impegno, che nei due quinquenni delle consiliature di cui aveva fatto parte era stato assente solo cinque volte.

Risulta estremamente significativo che il giudizio si estenda anche alla condotta generale del consigliere, senza essere concentrato esclusivamente negli stretti limiti rappresentati dalle ragioni dell’assenza alle sedute oggetto del giudizio. Pare quasi di poter dire, infatti, che per attribuire il significato corretto alle singole assenze, sia consentito spingere il sindacato giurisdizionale fino alla disamina dell’atteggiamento generale dell’interessato, per trarne elementi di valutazione della personalità dello stesso, idonei a desumere il suo impegno nell’assolvimento dei doveri connessi alla carica pubblica.

Il Consiglio di Stato, dopo aver richiamato sinteticamente gli approdi della giurisprudenza sopra ricordati, si sofferma in particolare sulla terza assenza.

Anche sul punto,  la Sezione V aveva già avuto modo di esprimersi, precisando che la protesta politica dichiarata a posteriori non integra una valida giustificazione delle assenze, essendo a tal fine necessario che le ragioni politiche della protesta siano in qualche modo esternate al Consiglio o rese pubbliche. In questo senso, dunque, aveva affermato che “è legittima la decadenza dalla carica di consigliere comunale per assenza ingiustificata, qualora la giustificazione addotta dall’interessato è talmente relegata alla sfera mentale soggettiva di colui che la adduce (come nel caso della protesta politica non altrimenti e non prima esternata), da impedire qualsiasi accertamento sulla fondatezza, serietà e rilevanza del motivo[11].

Il Consiglio di Stato riconosce che l’obiettivo di far mancare il numero legale risulta di “indubbio contenuto e rilievo politico” e “per sua natura, non preannunciabile ubblicamente, pena la sua stessa vanificazione”, ma gli scarsi elementi addotti dal ricorrente non appaiono sufficienti ad attribuire tale connotazione nel caso di specie.

Con riferimento alle prime due assenze, poi, il Collegio muove dalla considerazione della necessità di attenersi ai richiamati “criteri di restrittività ed estremo rigore” in quanto viene in rilievo una carica pubblica elettiva. L’esigenza di cautela si rivela ancora più stringente per la ragione che a pronunciare la decadenza dalla carica di consigliere comunale è il Consiglio comunale stesso, “in seno al quale non può escludersi l’influenza di valutazioni ultronee rispetto alla pura e semplice applicazione della legge e dello statuto”. Si tratta, in altre parole, del pericolo, già segnalato, che si verifichino abusi dell’istituto in questione.

In questo contesto, dunque, il Collegio decide di discostarsi dalla valutazione del TAR, sostenendo, quantomeno con riferimento alla seconda assenza, che gli elementi addotti dal ricorrente difettino del requisito della inconferenza e grave carenza necessario per considerare l’assenza del tutto ingiustificata, con la conseguenza che viene meno il presupposto richiesto dallo statuto per legittimare la decadenza, ossia quello delle tre assenze ingiustificate consecutive.

Vi è, tuttavia, spazio per una significativa considerazione incidentale, una decisa censura della condotta del ricorrente. Nella sentenza si legge, infatti, la seguente letterale espressione “pur deplorando che il ricorrente non abbia ritenuto, almeno nei due primi casi, di preannunciare assenze e motivazioni”.

In conclusione, sembra si possa affermare come le divergenti valutazioni del TAR e del Consiglio di Stato siano il sintomo più evidente dell’estrema liquidità dei concetti e dei criteri che governano la materia in esame, che rendono indispensabile un approccio casistico, attento alle peculiarità del singolo caso.

Allo stesso tempo, deve però essere parimenti sottolineato l’atteggiamento di estrema cautela manifestato dal Consiglio di Stato, che tende a sottoporre le delibere di decadenza a quello che potrebbe essere definito come una sorta di “strict scrutiny”.

 

 


 


[1] Dottorando di ricerca presso l’Università del Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”.

 

[3] Per un’analisi più approfondita dell‘istituto cfr. STADERINI, Diritto degli enti locali, Padova, 1986.

 

[4] Tra i precedenti in materia di decadenza dei consiglieri comunali si segnalano anche TAR Sicilia, Sez. I, 16 aprile 2010, n. 5377; TAR Puglia Bari, 7 novembre 2006, n. 3903; TAR Lombardia, Sez. Brescia, 10 aprile 2006 n. 383; TAR Emilia Romagna – Bologna, Sezione II, 7 aprile 2004, n. 485.

 

[5] Corte Cost., 6 luglio 2004, n. 204, in Giur. it., 2004, p. 2255; in Foro it., 2004, I, 2594; in Giust. civ., 2004, I, p. 2207, con nota di M. A. Sandulli e C. Delle Donne; in Dir. proc. amm., 2004, p. 799 con nota di A. Angeletti, V. Cerulli Irelli, R. Villata.

 

[6] Corte Cost. 11 maggio 2006, n. 191, in Foro it., 2006, 6, p. 1625 con nota di A. Travi; in Dir. proc. amm., 2006, 4, 1005, con nota di S. Malinconico, M. Allena.

 

[7] Consiglio di Stato, sez. V, 10 luglio 2012,  n. 4057, in Foro amm., 2012, 7-8, p. 1968; TAR Bari, sez. I, 13 gennaio 2015,  n. 34; TAR Firenze, sez. I, 23 settembre 2014,  n. 1443.

 

[8] Secondo la definizione corrente sono considerati atti politici i provvedimenti che, per la loro causa obiettiva, attengono a superiori esigenze di ordine generale riferentisi alla direzione suprema dello stato nella sua unità e che hanno lo scopo di tutelare, in situazioni contingenti, gli interessi della collettività e le istituzioni fondamentali dello stato.

 

[9] Cass., s.u., 4 maggio 2004, n. 8469, secondo cui “in materia di contenzioso elettorale amministrativo, compreso quello relativo ai consigli delle Comunità montane (nella specie, della Comunità montana “Basso Sinni”, il cui statuto, approvato con la l. reg. Basilicata 2 gennaio 2003 n. 3, rinvia alle norme del d.lg. n. 267 del 2000, della legge n. 154 del 1981 e del d.P.R. n. 570 del 1960, e succ. modif.), sono devolute al giudice amministrativo le controversie in tema di operazioni elettorali, mentre spetta al giudice ordinario la cognizione delle controversie concernenti l’ineleggibilità, le decadenze e le incompatibilità; nè la giurisdizione del giudice ordinario trova limitazioni o deroghe per il caso in cui la questione di eleggibilità venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento del consiglio sulla convalida degli eletti, o di impugnazione dell’atto di proclamazione, o di impugnazione del provvedimento di decadenza, perché anche in tali ipotesi la decisione verte non sull’annullamento dell’atto amministrativo, bensì sul diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato attivo o passivo“. (Enunciando il principio di cui in massima, le S.U. hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario in un caso nel quale la controversia era stata promossa da un consigliere comunale, designato dal Comune a far parte del consiglio della Comunità montata “Basso Sinni”, per far valere il proprio diritto soggettivo a conservare la carica di consigliere comunitario contro la mancata convalida, da parte della detta comunità, della designazione-elezione operata dal Comune).

 

[10] Consiglio di Stato, Sezione V, 9 ottobre 2007, n. 5277.

[11] Consiglio di Stato, Sezione V, 29 novembre 2004, n. 7761.