Preclusa alle Regioni l’introduzione di un divieto generalizzato all’esercizio di un’attività economica (ovvero: la tutela della concorrenza “salva” Uberpop). Nota a Corte Costituzionale, sentenza 15 dicembre 2016, n. 265

Riccardo de Caria[1]

 

Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale è intervenuta sulla questione della sussistenza o meno della competenza regionale a disciplinare le modalità di offerta del servizio di trasporto pubblico non di linea (ovvero essenzialmente taxi e noleggio con conducente).

La Corte era stata chiamata a pronunciarsi per effetto di un ricorso in via principale promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, che riteneva che la regolamentazione di tale materia andasse ricondotta alla disciplina della concorrenza, spettante in via esclusiva allo Stato ex art. 117, comma 2, lettera e). I giudici delle leggi hanno accolto tale impostazione e per l’effetto dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge piemontese ritenuta in violazione di tale riparto di competenze.

 

1. La ricostruzione fattuale e normativa e le censure mosse dal Governo.

La disposizione oggetto di scrutinio da parte della Consulta era l’art. 1 della legge della Regione Piemonte 6 luglio 2015, n. 14, recante «Misure urgenti per il contrasto dell’abusivismo. Modifiche alla legge regionale 23 febbraio 1995, n. 24 (Legge generale sui servizi di trasporto pubblico non di linea su strada)».

Tale articolo, che costituiva il cuore della legge che lo conteneva – legge peraltro approvata in commissione in sede legislativa e dichiarata urgente ex art. 47 dello Statuto della Regione Piemonte – introduceva, nella legge regionale del 1995 sul trasporto pubblico non di linea, un art. 1-bis (Esclusività del servizio di trasporto), che stabiliva che il trasporto di persone a pagamento realizzato mediante chiamata di un autoveicolo, «con qualunque modalità effettuata», fosse riservato «esclusivamente» ai titolari di licenze taxi e noleggio con conducente (NCC), pena l’applicazione delle sanzioni previste dal codice della strada per quanti esercitano tali attività in assenza dei prescritti titoli autorizzativi.

Il Governo impugnò la disposizione testé riportata sotto due diversi profili, uno di carattere formale e uno sostanziale, se pur entrambi riconducibili all’art. 117 Cost. Quanto al primo, esso atteneva al contenuto della lettera e) del comma 2, e in particolare all’asserito sconfinamento da parte del legislatore regionale in una materia, la “tutela della concorrenza”, riservata alla competenza esclusiva dello Stato.

Tale violazione della competenza legislativa statale si sarebbe configurata nell’introduzione di un divieto effettivo e radicale di offerta sul territorio piemontese di alcuni servizi innovativi, quali “i trasporti con tricicli elettroassistiti, diffusi nei centri storici; il car sharing [… e] il «c.d. servizio Uber»”, senza lasciare spazio a forme di disciplina da parte dello Stato (o degli enti locali).

Come confermò indirettamente il comunicato stampa del Consiglio regionale del Piemonte relativo alla legge in questione, significativamente intitolato “Uber, il Piemonte dice no”, il vero obiettivo del legislatore regionale era per l’appunto l’ultimo di quelli elencati, ovvero appunto il servizio offerto dalla compagnia Uber, tramite le sue varie articolazioni societarie, non rilevanti in questa sede, che metteva in comunicazione, tramite apposita app per smartphone, dei soggetti privati disponibili a trasportare passeggeri da un luogo ad un altro, con il proprio veicolo, dietro corrispettivo.

Mette conto precisare che Uber offriva e offre anche altri servizi di trasporto di natura in parte diversa, alcuni anche tramite partner titolari di licenze NCC (in particolare, si ricorda il servizio UberBlack); ciò che la Regione Piemonte aveva inteso esplicitamente vietare con la legge n. 14/2015 – ritenendo, nella ricostruzione del ricorrente, che, “prima della modifica, l’elencazione di cui all’art. 1 della legge regionale n. 24 del 1995 pote[sse] essere interpretata come non tassativa” – era appunto il servizio ora descritto, alternativo e per molti versi concorrente rispetto ai taxi, e che l’azienda aveva denominato Uberpop (essenzialmente l’equivalente di UberX, in altri mercati).

L’offerta del servizio Uberpop, che aveva iniziato a riscuotere notevole successo presso i consumatori, era stata peraltro oggetto di un ricorso d’urgenza ex art. 700 cpc promosso da una serie di consorzi e cooperative taxi e loro sigle sindacali contro le varie società Uber, accolto parzialmente dal Tribunale di Milano con ordinanza del 25 maggio 2015 che, ravvisando in Uberpop un atto di concorrenza sleale nei confronti dei titolari di licenze taxi, aveva inibito su tutto il territorio nazionale l’erogazione di tale servizio.

Ritenendo evidentemente non sufficiente un tale pronunciamento che, sebbene confermato dal collegio in sede di reclamo con ordinanza del 2 luglio 2015, era pur sempre stato emanato soltanto in via cautelare, a scanso di equivoci il legislatore piemontese decise di esplicitare, per il proprio territorio, un divieto generalizzato all’offerta di servizi come appunto il controverso Uberpop.

Ma il Governo ritenne che tale scelta fosse preclusa alla Regione, esorbitando dalle sue competenze in materia di trasporto locale: con la legge impugnata, infatti, la Regione Piemonte aveva nei fatti eretto una barriera all’ingresso per nuovi operatori nel mercato del traporto pubblico non di linea, disciplinando le “modalità amministrative e tecniche dell’offerta dei servizi di trasporto”, così invadendo una materia, la “tutela della concorrenza”, di competenza esclusiva statale.

Venendo invece – più brevemente – al secondo profilo di censura sollevato dal governo, ovvero quello di carattere sostanziale, in questo caso veniva in rilievo il primo comma dell’art. 117, “nella parte in cui assoggetta la legislazione anche regionale al rispetto dei principi dell’ordinamento comunitario e al principio di concorrenza”. In altri termini, il Governo contestò la legge regionale anche nel merito, con riferimento al profilo di un’asserita violazione, da parte della Regione, dell’obbligo costituzionale al rispetto dei principi europei, tra cui appunto quello di concorrenza.

La legge piemontese avrebbe infatti introdotto un ostacolo allo sviluppo del mercato dei trasporti che, concretandosi in un divieto radicale, con rinuncia tout court a qualunque possibile forma di regolazione, sarebbe stato all’evidenza “ingiustificato e sproporzionato rispetto ad ogni possibile declinazione degli interessi pubblici sottesi alla disciplina del trasporto in questione”. Ne conseguiva, secondo l’impostazione del ricorrente, che, anche laddove il primo profilo non fosse stato accolto, comunque la legge regionale impugnata avrebbe dovuto ritenersi illegittima per via del suo contenuto, che, limitando la concorrenza ben oltre quanto “strettamente necessari[o] e concretamente idone[o] al perseguimento” di un interesse pubblico, violava un principio cardine dell’ordinamento dell’Unione europea, e così indirettamente l’art. 117, comma 1 Cost..

 

2. L’argomentazione difensiva della Regione.

La difesa della Regione si articolò in più punti, meritevoli di attenzione, che qui vengono enucleati per tema, secondo una linea di ragionamento in parte diversa da quella seguita dalla sentenza in commento.

A parte un cenno alla genericità del ricorso per omessa ricostruzione del “complessivo quadro normativo di riferimento”, che determinerebbe l’inammissibilità del ricorso sotto entrambi i profili sollevati (formale e sostanziale), in un primo ordine di considerazioni la Regione Piemonte sostenne essenzialmente l’assenza di contenuto giuridico innovativo nella disposizione censurata: essa sarebbe cioè stata analoga a quanto già ricavabile dalla normativa statale (e peraltro a quanto stabilito in leggi di altre Regioni, non impugnate dal governo, un argomento però di per sé non dirimente). La nuova disposizione piemontese si sarebbe cioè limitata “a riprodurre una disposizione già insita nella disciplina” nazionale, chiarendola e ribadendola.

Si tratta di un argomento giuridicamente insidiosa, perché nei fatti volta a degradare un atto normativo a mero rinforzo e commento dell’operato di un diverso legislatore, in violazione del principio generale di necessaria innovatività dell’atto normativo[2], nonché in sé contraddittoria, per almeno due motivi; in primis, non si comprenderebbero allora le ragioni di urgenza che si desumono dal procedimento seguito e attestate sin dall’intitolazione, che fa riferimento per l’appunto a “misure urgenti” per contrastare un fenomeno, “l’abusivismo”, per definizione di carattere emergenziale e bisognoso, nell’ottica del legislatore, di disposizioni nuove. In secondo luogo, è la stessa difesa regionale a ricordare l’annullamento da parte di diversi giudici di pace di sanzioni amministrative inflitte a driver Uberpop, pertanto non appare così incontroverso che la legislazione nazionale fosse già chiara nel vietare un servizio come Uberpop. In effetti, come si vedrà tra breve, tale tesi non incontrerà il favore della Corte.

In ogni caso, collegata a questo è la difesa nel merito della disposizione regionale (e di quelle statali richiamate), che si giustificherebbe in virtù dell’esigenza di tutela di “interessi pubblicistici quali non solo la mobilità e la libera circolazione delle persone, ma anche la tutela della loro salute e della sicurezza, in modo da garantire un servizio sicuro, anche in periodo e orari in cui la domanda è meno intensa”. In altri termini, la Regione Piemonte addusse, a sostegno della legittimità della normativa impugnata, le menzionate esigenze pubblicistiche, che giustificherebbero nella sua ricostruzione la limitazione alla libertà di iniziativa economica privata, legittimando l’istituzione di un “regime amministrato” in questo ambito, così come del resto in altri settori.

Secondo tale impostazione, il servizio Uberpop – dichiarato obiettivo di una legge nei fatti contra personam, nella fattispecie persona giuridica – “non solo non garantisce la sicurezza dei trasportati, ma nemmeno genera vantaggi per la collettività in termini di riduzione dell’inquinamento o del consumo energetico, stimolando al contrario l’uso dei mezzi privati, in contrasto con l’interesse pubblico alla programmazione e regolazione della mobilità e all’incentivazione dell’utilizzo dei mezzi pubblici”.

Nella materia del trasporto pubblico non di linea[3], peraltro, la limitazione dei diritti di cui all’art. 41 Cost. (che è profilo trascurato dalla difesa regionale), e in generale del principio di concorrenza, sarebbe particolarmente giustificabile anche alla luce di un dato testuale, ovvero la sua esclusione espressa “dal campo di applicazione di diversi interventi normativi di liberalizzazione”: su tutti, la direttiva servizi (cd. Bolkestein, 2006/123/CE), a cui sono conformi sul punto anche atti normativi italiani.

 

3. Il giudizio della Corte.

In primo luogo, la sentenza costituzionale affronta la questione di carattere sostanziale sollevata nel ricorso del governo, per dichiararla inammissibile. E ciò, sia perché la delibera del Consiglio dei ministri di autorizzazione del ricorso non conteneva questo profilo, sia per la ravvisata genericità del ricorso sul punto.

Quanto al profilo formale, invece, per il quale viene in primo luogo respinta l’analoga eccezione di inammissibilità per genericità sollevata dalla Regione, la Corte ritiene tale questione fondata. Viene in effetti ravvisato il carattere innovativo, e dunque pienamente normativo, della disposizione oggetto di censura, sulla base della considerazione che essa definiva “il novero dei soggetti abilitati a operare nel settore dei trasporti di persone”, e ciò “è decisivo ai fini della configurazione di un determinato settore di attività economica: si tratta di una scelta che impone un limite alla libertà di iniziativa economica individuale e incide sulla competizione tra operatori economici nel relativo mercato”.

Pertanto l’oggetto della legge in questione era necessariamente da ricondurre alla tutela della concorrenza, e dunque la Regione Piemonte aveva ecceduto la propria competenza nell’emanarla, violando la competenza esclusiva dello Stato, “che del resto riflette la dimensione (quanto meno) nazionale degli interessi coinvolti”.

La Corte peraltro, riprendendo sul punto analogo contenuto della ricordata ordinanza del tribunale di Milano in composizione collegiale (in sede di reclamo), nonché dell’Atto di segnalazione al Governo e al Parlamento sull’autotrasporto di persone non di linea: taxi, noleggio con conducente e servizi tecnologici per la mobilità dell’Autorità di Regolazione dei trasporti (maggio 2015), sceglie di includere comunque nella sentenza un invito al legislatore ad intervenire in materia, rispondendo alle esigenze di regolamentazione e di “inquadramento giuridico univoco e aggiornato” di un settore economico profondamente mutato per effetto dell’innovazione tecnologica.

 

4. Il quadro attuale, le questioni rimaste (inevitabilmente) aperte e le prospettive future, con particolare riferimento alla competenza regionale (e degli enti locali).

Un primo dato di rilievo nella sentenza in commento attiene all’ambito della competenza regionale in materia di concorrenza, specialmente per quanto riguarda la materia trattata. Da questo punto di vista, la sentenza in esame conferma la giurisprudenza costituzionale ampiamente consolidatasi in argomento. Come noto, la concorrenza viene ritenuta materia cosiddetta trasversale, con riferimento alla quale va cioè ravvisato “l’intendimento del legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese” (sentenza 13 gennaio 2004, n. 14), onde evitare differenze tra Regione e Regione. La materia “tutela della concorrenza” ha dunque una “natura funzionale […] e vale a legittimare l’intervento del legislatore statale anche su materie, sotto altri profili, di competenza regionale” (sentenza 15 novembre 2004, n. 345).

Un esempio puntuale è proprio la materia del traporto pubblico locale, di per sé rientrante nella competenza residuale regionale (sentenza 21 dicembre 2007, n. 452), ma con riferimento alla quale si ravvisano diversi ambiti riconducibili alla materia della concorrenza che invece sono riservati al legislatore statale, quali la definizione dei confini oggettivi e soggettivi di un dato mercato, le misure di apertura o consolidamento dell’apertura del medesimo, tramite l’abbattimento di barriere all’ingresso, e più in generale i “vincoli alle modalità di esercizio” delle attività economiche considerate.

Proprio con riferimento al trasporto viaggiatori mediante noleggio (di autobus), la sentenza 265/2016 richiama la precedente pronuncia del 17 febbraio 2016, n. 30, sempre relativa ad una disposizione di una legge regionale piemontese, anch’essa ritenuta illegittima. Quel caso riguardava il vincolo, previsto appunto nella legislazione piemontese, per cui le imprese di noleggio di autobus con conducente che volessero ­incrementare il proprio parco automezzi successivamente al rilascio dell’autorizzazione dovevano farlo esclusivamente con autobus nuovi.

Tale limite, che escludeva tout court gli autobus usati, era stato dichiarato illegittimo in un procedimento in via incidentale sollevato dal Tar Piemonte, nell’ambito di un ricorso di un’impresa che si era vista negare il nulla-osta all’auspicato incremento, per violazione degli articoli 3, 41 e per l’appunto 117, comma 2, lettera e), in presenza di una legge statale che non prevedeva tale vincolo.

La Corte aveva ravvisato anche in quell’occasione l’illegittimità della legislazione piemontese, ritenendo, con un principio ora ribadito nella sentenza in commento, che il fatto di restringere la libertà di esercizio di un’attività economica, determinando maggiori oneri per le imprese stabilite nella Regione interessata, e potenzialmente impedendo “l’espansione dell’attività” delle medesime e con essa “le possibilità di scelta da parte dei committenti (sentenze n. 47 del 2015 e n. 97 del 2014)”, rientrasse appieno nella materia “tutela della concorrenza”, di esclusiva riserva statale: anche nelle materie di competenza regionale residuale, dunque, la Regione deve attenersi al “rispetto del bilanciamento operato dal legislatore statale nella materia trasversale e prevalente, ad esso affidata in via esclusiva”, appunto della tutela della concorrenza”.

A maggior ragione, considerazioni di questo tipo rilevano necessariamente per definire i contorni della potestà regolamentare degli enti locali. Tale aspetto è stato oggetto di diverse pronunce giurisdizionali negli anni recenti, a seguito dell’adozione di atti comunali tendenzialmente volti alla restrizione delle opportunità di esercizio della propria attività da parte dei nuovi soggetti entrati sul mercato, o comunque comportanti barriere all’ingresso di tipo legale; in linea di massima, la giurisprudenza, in specie amministrativa, ne ha escluso la legittimità. Così, la sentenza del Tar Lazio, Roma, sez. II, 4 settembre 2012, n. 7516, annullò una disposizione della delibera dell’Assemblea Capitolina che imponeva una serie di obblighi ai titolari di licenza taxi o autorizzazione ncc; e l’ordinanza del Tar Lombardia, Milano, sez. I, 24 ottobre 2013, n. 1131, sospese l’efficacia di una determina dirigenziale del Comune di Milano che imponeva a tutti gli esercenti servizio pubblico di trasporto non di linea l’obbligo di attesa e financo ricezione della chiamata presso un’autorimessa e una sede entro il Comune medesimo (dal canto suo, il Comune di Torino aveva considerato l’adozione di ordinanza sindacale, ma tale strada non fu percorsa).

Il quadro normativo che emerge da tali pronunce (la prima delle quali solleva pure una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Ue, che però si dichiarò incompetente al riguardo, C-419/12 e C-420/12; cfr. anche la sentenza, dello stesso giorno, nelle cause riunite C-162/12 e C-163/12) è estremamente complesso, con una normativa statale tuttora risalente al 1992 ma più di recente novellata in senso restrittivo, peraltro con controversi interventi di proroga dei termini per l’emanazione di decreti attuativi, ad oggi mai approvati.

La ricostruzione minuziosa di tale stratificato insieme di norme esula dagli scopi del presente lavoro, ma certamente la conseguenza ne è ad oggi l’inibitoria per il servizio Uberpop su tutto il territorio nazionale: la sentenza impugnata chiarisce come sia precluso alle Regioni un intervento normativo in materia (così come si è visto essere precluso ai Comuni un intervento di tipo regolamentare), tuttavia la legislazione nazionale è stata interpretata, in quello che è sinora il pronunciamento più importante in materia, quello del Tribunale di Milano, come ostativa al libero esercizio del servizio Uberpop (ad analoghe conclusioni è giunto il Tribunale di Torino, con sentenza del 1 marzo 2017, sez. I civ.).

Quella pronuncia, però, non pare aver affrontato in termini convincenti il tema dei profili di possibile illegittimità del contingentamento previsto dalla disciplina vigente “secondo i parametri costituzionali ed europei”[4]. Chiaramente, il principio di concorrenza non è assoluto e a propria volta privo di correttivi: la disciplina costituzionale consente, e financo impone al legislatore di introdurre limiti al libero svolgimento di attività economiche, essenzialmente al fine di perseguire l’utilità sociale, e tali limiti in definitiva fungono da restrizioni indirette anche ad un’applicazione generalizzata del principio di concorrenza.

Purtuttavia, per quanto non ogni quadro di disciplina di un’attività economica possa di per sé solo essere letto come ostacolo alla concorrenza, e dunque come limite ad essa di cui debba essere valutata la compatibilità costituzionale, appare comunque opportuno nello specifico interrogarsi, come accennavo, circa i possibili profili di illegittimità del contingentamento. Se venisse accolta (in ipotesi anche per effetto di un nuovo pronunciamento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, tradizionalmente incline a sostenere le ragioni dell’apertura di nuovi mercati e il superamento delle riserve), la tesi che vede nel contingentamento un limite questo sì vietato sarebbe in effetti idonea a superare l’argomento testuale dell’esclusione del trasporto non di linea dagli interventi a favore della concorrenza, nonché l’asserita necessità, sostenuta dalla Corte così come, si è visto, da altri soggetti, di un intervento normativo statale di chiarificazione, coordinamento e aggiornamento.

Qualora tale tesi venisse per l’appunto recepita in sede giurisdizionale, il legislatore statale non potrebbe che adeguarsi; un simile pronunciamento potrebbe giungere eventualmente dal giudice europeo, sinora sottrattosi alla decisione sul punto, ma davanti al quale pende una nuova importante questione pregiudiziale in un procedimento per concorrenza sleale questa volta spagnolo (C-434/15); oppure da una nuova sentenza dello stesso giudice delle leggi italiano, in questa vicenda impossibilitato a pronunciarsi sul punto per via dei limiti di oggetto del ricorso, ma davanti al quale potrebbe essere sollevata questione di legittimità in via incidentale della normativa nazionale vigente, come ad esempio aveva chiesto che venisse fatto Uber nel procedimento appositamente introdotto davanti al Tribunale di Torino e recentemente conclusosi con il rigetto di tale richiesta (sentenza 1 marzo 2017 sopra ricordata).

In ogni caso, se ad oggi la declaratoria di illegittimità della legge regionale anti-concorrenziale ha scarso effetto pratico (essendo comunque Uberpop, per l’appunto, inibita in tutta Italia), qualora lo scenario ora descritto si materializzasse, il principio (ri)affermato da questa sentenza si rivelerebbe in tutta la sua rilevanza, precludendo alle Regioni la (re)introduzione al proprio interno di norme di tipo restrittivo, prima ancora che per il merito, per la questione formale dell’invasione della competenza statale. E va da sé che tale principio si estenderebbe peraltro anche a servizi diversi da Uberpop, come il ricordato UberBlack, oggetto anch’esso indirettamente di pronuncia restrittiva con la sentenza Tribunale di Milano (in funzione d’appello), sez. I, 6 luglio 2015, n. 8359, nonché in via generale di altro ricorso ex art. 700 c.p.c. davanti al Tribunale di Roma, che ha dapprima decretato la sospensione della stessa UberBlack (ordinanza 6 aprile 2017), poi sospendendo tale ordinanza in vista dell’imminente trattazione del reclamo.

Sin d’ora, comunque, è opportuno valutare alla luce della sentenza che si è esaminata proposte di legge come il ddl n. 173 dell’attuale X legislatura piemontese, Interventi di promozione della mobilità condivisa, contenente misure di varia natura per il sostegno di forme di trasporto sostenibile, che però finiscono con il tradursi anche in alcune restrizioni e divieti.

Come rilevato dal Settore Commissioni consiliari in sede di rilevazione dei nodi critici, “In ordine alla materia della tutela della concorrenza, si rammenta che, in base a consolidata giurisprudenza costituzionale, essa costituisce una delle leve della politica economica statale e che non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in un’accezione dinamica, di stampo comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali. La nozione “dinamica” e “trasversale” di tutela della concorrenza, propugnata dalla Corte Costituzionale, può trascendere l’ambito di competenza legislativa regionale e legittimare interventi dello Stato volti sia a promuovere, sia a proteggere l’assetto concorrenziale del mercato. D’altra parte le Regioni, nell’ambito delle proprie competenze legislative di tipo concorrente o residuale, hanno la potestà di adottare provvedimenti in grado di favorire la concorrenza, ammissibili a condizione che gli effetti delle stesse siano marginali e indiretti e non siano in contrasto con gli obiettivi delle norme statali che disciplinano il mercato, tutelano e promuovono la concorrenza”[5].

Occorrerà pertanto sempre sottoporre iniziative come quella ora ricordata ad attento scrutinio alla luce della giurisprudenza ricordata, confermata con la sentenza n. 265/2016, che dovrà quindi essere tenuta ben presente come punto di riferimento da tutti i legislatori regionali intenti a legiferare in materia potenzialmente attinente alla materia “tutela della concorrenza”, per rimanere entro gli stretti limiti tracciati dalla Corte costituzionale alla competenza regionale in questi ambiti.


 


[1] Dottore di ricerca in Diritto pubblico, Università di Torino – LLM, Public Law, London School of Economics and Political Science.

 

[2] Cfr. al riguardo G. Astuti, La nozione di legge nell’esperienza storico-giuridica, in Annali di storia del diritto, 1966-67, Giuffrè, Milano, p. 17, nonchéA. M. Sandulli, L’attività normativa della Pubblica Amministrazione, Jovene, Napoli, 1970, pp. 32 ss., entrambi ricordati in T. L. Rizzo, Le ragioni del diritto, Gangemi, Roma, 2006, p. 27.

 

[3] La sentenza sembra contenere un refuso al riguardo, nella prima frase del paragrafo 2.2. della parte in fatto, dove si parla di trasporti pubblici “di linea” come esclusi dall’ambito di applicazione di una serie di interventi, nazionali ed europei, di liberalizzazione (ma è evidente il richiamo, fatto in tutti gli altri punti della sentenza, ai servizi pubblici non di linea).

 

[4] Questa la tesi fatta propria da M. Delsignore, Il contingentamento dell’iniziativa economica privata. Il caso non unico delle farmacie aperte al pubblico,  Giuffrè, Milano, 2011, p. 193.

 

[5] Il documento (Analisi preventiva delle proposte di legge all’esame delle commissioni permanenti, N. proposta ddl n. 173, Interventi di promozione della mobilità sostenibile, Torino, 14 dicembre 2016, FP/SB/PP, disponibile su: http://serviziweb.csi.it/solverweb/IndexDocumentServlet?id=38321) richiama rispettivamente le sentenze 16 gennaio 2004, n. 16, 3 marzo 2006, n. 80, e 14 dicembre 2007, n. 430 (cfr. p. 5).