Principi e città nel Piemonte basso medievale

Luigi Provero[1]

Il lungo mutamento del secolo XI.

Lungo la seconda metà del secolo xi, il regno d’Italia subì profonde trasformazioni: la rottura della collaborazione strutturale tra Papato e Impero, il notevole indebolimento del dominio regio e lo stato di conflitto diffuso lasciò spazio a nuove forme di potere, a sperimentazioni politiche operate da protagonisti e in situazioni diverse. In Piemonte, questo si tradusse nel declino delle marche (i distretti pubblici definiti nel corso del X secolo) e nell’affermazione di comuni cittadini, signorie locali e principati territoriali.

Nella parte settentrionale della regione un momento di frattura importante fu rappresentato già nei primi anni dell’XI secolo dalla vicenda di Arduino, marchese di Ivrea (nulla aveva a che fare con gli Arduinici marchesi di Torino), che nel 1002 fu incoronato re d’Italia e fino al 1014 si oppose all’imperatore Enrico II. Fu l’esito di un’iniziativa in parte personale, la vicenda di un uomo probabilmente dotato di grande capacità di azione militare e politica; ma fu anche l’espressione di interi settori della società aristocratica italiana, in particolare del nord-ovest, che cercò di affermare una forma di controllo sulla corona italica e di sfuggire al dominio ormai consolidato dei re teutonici. La parabola di Arduino pose di fatto fine alla marca di Ivrea, che lasciò rapidamente spazio alle egemonie dei vescovi di Novara, Vercelli e Ivrea, e a importanti famiglie signorili, come i conti di Biandrate e del Canavese.

Le marche Aleramica e Obertenga (che comprendevano alcune parti del Piemonte meridionale) furono invece segnate dagli orientamenti delle famiglie marchionali, attente a valorizzare in prospettiva signorile i propri maggiori nuclei patrimoniali, interni ed esterni alla marca: così dagli Obertenghi discesero i marchesi Pallavicino, Malaspina ed Este (concentrati in aree marginali o del tutto esterne alla marca obertenga), mentre all’interno della marca si svilupparono poteri signorili e soprattutto due tra i maggiori comuni italiani, ovvero Milano e Genova. In parte analogo il caso della marca aleramica, dove lo sviluppo di un comune precoce e di un certo rilievo come Savona si accompagnò al deciso orientamento dei marchesi verso lo sviluppo di poteri signorili locali, concentrati soprattutto nelle aree appenniniche e collinari tra Piemonte e Liguria (marchesi del Carretto, di Ceva, di Clavesana, del Bosco, di Occimiano…). Ma le due maggiori realizzazioni politiche delle dinastie aleramiche, i marchesati di Saluzzo e del Monferrato, sono del tutto esterne alla marca, e il loro sviluppo è invece connesso al declino della circoscrizione più ampia e duratura, ovvero la marca arduinica di Torino.

Diversamente dalle altre dinastie marchionali, gli Arduinici fin dai primi anni dell’XI secolo sembrano orientati a un progetto di principato territoriale, ovvero al tentativo non di valorizzare singoli nuclei patrimoniali in prospettiva signorile, ma di trasformare l’intera marca in un dominio dinastico svincolato dal controllo regio. Questo non significò un’azione indifferenziata sull’intero territorio della marca, poiché i marchesi già lungo il secolo XI dovettero tener conto del crescere di poteri alternativi, come i vescovi di Torino e di Asti, le comunità cittadine e l’aristocrazia militare, che era sì in gran parte costituita da vassalli dei marchesi, ma non per questo era del tutto sottomessa alle loro esigenze. La stessa azione patrimoniale e politica dei marchesi appare diversificata, con un progressivo addensarsi in alcune aree (come la valle di Susa) in cui gli Arduinici seppero concentrare terre, chiese, clientele.

La delicata costruzione politico-dinastica fu messa alla prova alla morte del marchese Olderico Manfredi (1034) che, privo di figli maschi, lasciò come erede la figlia Adelaide, il cui potere assunse forme non prive di ambiguità, a metà tra due modelli di funzionamento:

– in un quadro di poteri di tipo “carolingio”, Adelaide non avrebbe avuto alcun diritto a controllare la marca, che il regno avrebbe assegnato a un altro funzionario;

– in un quadro pienamente principesco e dinastico, il potere sarebbe invece passato direttamente ad Adelaide per via ereditaria, come un qualunque elemento del patrimonio paterno.

Qui non successe nessuna delle due cose: il potere di fatto passò nelle mani di Adelaide, ma il titolo marchionale venne attribuito prima ai suoi mariti, poi ai suoi figli, infine al marito di una nipote. Il regno non poteva fare a meno di prendere atto della continuità dinastica arduinica, che trasmetteva di fatto il potere nelle mani di Adelaide; né quindi poteva pensare di imporre un marchese diverso, che si ponesse in concorrenza con il forte potere patrimoniale e dinastico di Adelaide; ma al contempo era ancora sufficientemente efficace un modello pubblico di potere, che prevedeva l’attribuzione delle funzioni marchionali a chi fosse in grado effettivamente di adempiere agli obblighi soprattutto militari, e quindi a escludere una successione in via femminile

La morte di Adelaide (1091) lasciò spazio ad alcune dinastie che potevano richiamarsi a una discendenza dagli Arduinici: i Savoia, prima di tutto, ovvero la famiglia nata dal primo matrimonio di Adelaide con l’umbertino Oddone, della famiglia dei conti di Maurienne; poi l’aleramico Bonifacio del Vasto, figlio di una sorella di Adelaide, da cui discenderanno i marchesi di Saluzzo e altre dinastie attive nei territori della marca di Torino. I Savoia e i marchesi del Vasto acquisirono settori più o meno ampi della marca, ma la loro affermazione segnò soprattutto un profondo cambiamento nella natura del potere: non erano più in alcun modo rappresentanti del regno, elementi locali di un ordinamento più ampio; erano invece pienamente signori e principi, titolari di un potere dinastico su base patrimoniale, privo in questo senso delle ambiguità della dominazione adelaidina.

 

Geografia dei comuni piemontesi.

Al contempo la morte di Adelaide permise un pieno sviluppo delle potenzialità politiche maturate nei decenni precedenti da forze cittadine e rurali. Se le basi di queste dominazioni erano state poste lungo l’XI secolo, la morte della contessa segnò un indubbio momento di svolta, con il crollo di un’intelaiatura istituzionale che, per quanto fragile, aveva fino ad allora conservato una certa efficacia nel coordinare e contenere le spinte centrifughe dei diversi poteri attivi nella marca. Con la fine dell’XI secolo anche in quest’area, come già in altri settori del Piemonte, i poteri e le polarità territoriali efficaci saranno prevalentemente quelle legate ai poteri locali e alle singole città: dinastie signorili, monasteri, vescovi, comuni.

Questo rende sostanzialmente impossibile delineare un quadro complessivo della realtà piemontese: da un lato il Piemonte partecipa di un processo generale del regno italico e di gran parte dell’Europa occidentale, senza che si possano identificare con sicurezza delle differenze regionali che contraddistinguano quest’area dal resto del regno; al contempo ogni villaggio e ogni signoria fanno storia a sé.

In linea generale, possiamo dire che le città piemontesi fin dai primi decenni del XII secolo parteciparono del grande processo di formazione dei comuni, la cui piena autonomia divenne il connotato peculiare del regno italico nel XII e XIII secolo. Se molti furono i comuni, le differenze furono profonde: da un lato abbiamo città come Torino e Ivrea, ricche di passato e di prestigio, ma povere di popolazione e di forza economica e militare, che divennero sì comuni autonomi, ma non espansero mai il proprio dominio molto al di là della cerchia delle mura. All’estremo opposto centri come Asti e Vercelli, tra le maggiori città del nord Italia: in questi casi l’addensamento demografico e la crescita economica e commerciale furono alla base di costruzioni politico-territoriali di grande ampiezza, dominazioni che assunsero un’ampiezza comparabile alle attuali province. Una realtà intermedia può essere rappresentata da Alba, città di medie dimensioni che affermò – ai danni del proprio vescovo e di molte famiglie signorili – un dominio importante sulla regione collinare circostante, ma dovette subire la costante e minacciosa concorrenza della più potente Asti.

I comuni espressero una straordinaria capacità di sperimentare in piena libertà i più vari strumenti politici per affermare il proprio dominio sul contado. Forti delle grandi concentrazioni di denaro (basti pensare alle attività commerciali e finanziarie delle grandi famiglie astigiane), in molti casi poterono semplicemente comprare castelli e diritti signorili, sfruttando la cronica fame di denaro delle dinastie aristocratiche. In altri casi si imposero con la forza, conquistarono o talvolta distrussero i castelli signorili. Ma il più delle volte si definirono dei compromessi: i signori restarono nei propri castelli, ma si riconobbero cittadini e sudditi dei comuni, e in cambio di somme talvolta ingenti di denaro misero le proprie forze al servizio dell’azione politica cittadina. Di fatto, occorre sottolineare soprattutto come l’espansione comunale non determinò mai la cancellazione del ceto signorile e aristocratico, che lungo tutto il tardo medioevo e l’età moderna continuò a costituire la struttura socialmente dominante delle campagne piemontesi, tanto che ancora nel XVIII secolo potremo trovare solidamente radicate nel territorio alcune dinastie che risalivano al secolo XII.

 

Villenove e centri minori.

Gli insediamenti medievali non possono però essere semplicemente divisi in città (socialmente articolate e politicamente attive) e villaggi (sottomessi ai poteri signorili e impegnati solo a limitarne la pressione). Esiste tutta una gradazione intermedia, che comprende grandi borghi e centri incastellati che – pur non essendo città vescovili – per articolazione sociale, vitalità economica e iniziativa politica non possono essere considerati semplici villaggi.

Il caso più evidente in Piemonte è quello di Chieri: era un castello del vescovo di Torino, che a partire dal XII secolo poté sfruttare la propria posizione su importanti itinerari stradali (e la debolezza economica di Torino) per sviluppare un’intensa attività finanziaria e produttiva, che fu il presupposto non solo per un arricchimento della società chierese, ma anche per il suo svincolarsi dal controllo vescovile e l’avvio di una vera politica di espansione sul territorio circostante. In modi del tutto analoghi alle maggiori città piemontesi (e con un’ampiezza territoriale non trascurabile) Chieri lungo il Duecento seguì una politica di sottomissione dei signori del contado, di acquisizione di diritti giurisdizionali e di fondazione di villenove, come Pecetto e Villastellone.

La fondazione di villenove – ovvero di villaggi nuovi – fu una delle azioni più incisive da parte delle città comunali. Ogni grande città comunale arrivò a fondare, tra XII e XIII secolo, decine di villenove, e in alcune aree la serie di fondazioni portò a un riassetto completo dell’insediamento e del popolamento: è in parte il caso del Vercellese, lo è sicuramente per l’Alessandrino (Nizza e la stessa Alessandria sono villenove) e per il Cuneese, dove nei primi decenni del Duecento la fondazione di Cuneo, Mondovì, Fossano, Cherasco e di alcuni centri minori riorganizzò complessivamente il popolamento e i quadri territoriali di un’area che lungo l’alto medioevo era del tutto priva di centri urbani.

Il processo non si arrestò qui: alcune villenove di quest’area, come Cuneo e Mondovì, diedero vita a sviluppi del tutto peculiari, fino a divenire centri di potere di un certo rilievo, in grado di agire sul territorio circostante e porsi in una prospettiva concorrenziale rispetto ai poteri locali circostanti. Fondate negli anni a cavallo tra XII e XIII secolo, consolidarono la propria autonomia nei decenni centrali del Duecento, quando non solo si svincolarono dal controllo dei poteri egemoni come il vescovo di Asti e i marchesi di Saluzzo, ma avviarono un’autonoma politica di espansione sul territorio, affermando ad esempio il proprio potere giurisdizionale sui villaggi vicini, o fondando alcune villenove (come Rocca de’ Baldi, fondata dal comune di Mondovì).

Villenove che fondano a loro volta villenove: lo specifico contesto territoriale (l’assenza di centri urbani) offrì a questi villaggi l’opportunità di sviluppare politiche territoriali che, sia pure in scala ridotta, riproducevano i comportamenti delle città maggiori. Mondovì nel caso di Rocca de’ Baldi operò in modo del tutto analogo a quello che Asti aveva fatto – alcuni decenni prima e su orizzonti territoriali molto più ampi – quando aveva promosso la nascita di Cuneo e della stessa Mondovì.

 

Prìncipi e territori.

Una delle principali peculiarità del Piemonte nei secoli XII e XIII è la presenza di alcune grandi costruzioni territoriali che facevano capo non a città, come nella maggior parte del regno d’Italia, ma a dinastie discese da grandi ufficiali regi del X-XI secolo: si tratta della contea di Savoia e dei marchesati di Monferrato e Saluzzo. Sono quelli che gli storici definiscono principati territoriali, costruzioni dinastiche più ampie delle normali signorie rurali, ma soprattutto in grado di coordinare al proprio interno molte signorie minori. Strutture analoghe si trovano in molti regni d’Europa, ma anche in Italia la trama delle dominazioni comunali lasciò spazio ad ampie costruzioni dinastiche, come gli Aldobrandeschi e i Guidi in Toscana, o gli Este e i Pallavicino in Emilia.

In pratica i principi agivano in modo per molti versi analogo ai comuni cittadini contemporanei, imponendo la propria egemonia sull’aristocrazia signorile tramite un’azione di ricomposizione e di coordinamento dei nuclei di potere presenti sul territorio, al cui interno fu centrale la politica di investiture feudali, per cui i signori locali si riconoscevano vassalli del principe. Si costituì così una rete di terre e luoghi che il principe controllava indirettamente ma efficacemente.

Il consolidarsi territoriale del potere principesco non cancellò mai un suo dominante carattere dinastico: il dominio dei Savoia, dei Saluzzo e dei Monferrato non fu mai pienamente un territorio riconosciuto e delimitato in modo chiaro, ma fu piuttosto l’insieme delle persone, delle terre e dei diritti che a vario titolo facevano capo al principe, con tutte le incoerenze e discontinuità territoriali connesse a un processo di costruzione del potere per accumulo, che riuniva ove possibile giurisdizioni signorili autonome. Segno importante di questo carattere è la costante debolezza di quelli che possiamo identificare come i centri del potere principesco, ovvero Chambéry, Saluzzo e Chivasso, che non divennero in questa fase vere capitali, ma piuttosto residenze preferenziali dei principi. Il centro del principato era il principe: solo secondariamente e indirettamente questi borghi fortificati assunsero alcune delle funzioni di un capoluogo. Nonostante questi dati comuni, le differenze tra i tre principati territoriali sono rilevanti, e possono essere poste in luce considerando separatamente le tre vicende.

 

I Conti di Savoia.

I Savoia si definirono come dinastia nei decenni centrali del secolo XI, in seguito al matrimonio tra Adelaide (titolare di fatto della marca di Torino) e Oddone (della famiglia comitale borgognona che gli storici chiamano Umbertini). Il matrimonio non comportò l’unione dei due dominii dinastici, che rimasero anzi nettamente distinti sia sotto Oddone, sia sotto i suoi figli. La proiezione piemontese degli Umbertini/Savoia poté attuarsi pienamente solo dopo la morte di Adelaide, nel 1091, quando tuttavia i conti non poterono rivendicare un completo controllo dell’eredità adelaidina: rientrarono invece nella dura lotta che in quegli anni segnò la spartizione della marca tra le diverse dinastie che si richiamavano ad Adelaide e i molti poteri cittadini e rurali che si erano sviluppati nei territori della marca.

In questa fase i Savoia poterono acquisire di fatto solo il controllo della Valle di Susa, che andava ad aggiungersi alla Valle d’Aosta, già compresa nel regno di Borgogna e già nel secolo precedente assorbita nell’egemonia sabauda. Il controllo sabaudo della Valle di Susa era solido e pressoché indiscusso, poiché solo allo sbocco della valle i conti si trovavano di fronte alla minacciosa concorrenza del vescovo di Torino e delle famiglie signorili a lui legate. La valle garantiva quindi ai conti un sicuro controllo del valico del Moncenisio, che era probabilmente il più importante valico delle Alpi occidentali. A buon diritto quindi l’anonimo cronista di Laon poteva scrivere, a proposito di Umberto III, che “dalla sua terra, chi fosse forte potrebbe imporre la propria giustizia all’Italia e alla Borgogna, perché non può esserci ingresso o uscita a nessuno dei due regni, se non attraverso la sua terra”, osservazione tanto più valida se si considera il contemporaneo robusto controllo sabaudo della Valle d’Aosta.

La questione dei transiti (soprattutto commerciali) attraverso il Moncenisio si impose al centro dell’azione sabauda in Piemonte fin dal 1098, quando il trattato tra Umberto II e Asti aveva garantito ai mercanti astigiani il libero transito per i domini sabaudi. Ma in seguito anche l’attenzione dei Savoia per i pedaggi e la loro cura nel controllare e tenere in efficienza l’ospizio del Moncenisio mettono in luce la loro consapevolezza del valore politico ed economico del controllo delle strade, e quindi l’esigenza di gestire al meglio tutte le attrezzature che potevano garantire il loro uso regolare. Lungo tutto il basso medioevo le garanzie relative ai transiti commerciali furono sempre centrali in tutti gli accordi politici stipulati dai Savoia con vari poteri piemontesi.

I Savoia quindi, pur all’interno di una lenta espansione in ambito piemontese, a lungo si qualificarono prima di tutto come uno stato di passo, una dominazione alpina che trovava gran parte della propria forza nel controllo di valichi e percorsi stradali. E ancora in pieno Duecento la dominazione sabauda era in massima parte una dominazione transalpina, con ridotte seppur importanti appendici in ambito italiano; così il centro del dominio era Chambéry, e tale rimase anche dopo la conquista di Torino nel 1280, che non comportò in alcun modo né l’attribuzione alla città di funzioni di capoluogo, né uno spostamento rilevante verso l’Italia degli equilibri interni alla contea sabauda.

L’indubbio sviluppo della dominazione sabauda lungo il Duecento fu in parte un ampliamento territoriale (e la conquista di Torino fu solo il momento più vistoso di questa espansione), ma fu soprattutto un consolidamento degli strumenti di governo, con un crescente apparato di funzionari (sia a corte, sia a governare i territori periferici) e un nuovo uso delle scritture amministrative, come i conti di castellania, ovvero i rendiconti finanziari che ogni anno i castellani dovevano inviare al principe per riferire delle somme acquisite e spese. Ma nonostante questa crescita nella qualità del potere, il dominio sabaudo restò nel Duecento essenzialmente un grande coordinamento di poteri locali, su cui il principe poteva far valere la propria egemonia e il monopolio di alcuni diritti, ma di cui doveva riconoscere il forte radicamento locale.

A maggior ragione questo si può dire degli altri due principati territoriali piemontesi che, al di là delle differenze dimensionali, appaiono sicuramente meno evoluti per quanto riguarda le strutture di governo, l’apparato funzionariale e i meccanismi amministrativi.

 

I marchesi di Saluzzo.

Anche per la dinastia dei marchesi di Saluzzo un momento di svolta è rappresentato dalla morte della contessa Adelaide, nel 1091. Occorre partire dalla vicenda del marchese Bonifacio del Vasto, figlio di una sorella di Adelaide: alla morte della contessa, Bonifacio entrò nel conflitto per la successione, partecipando quindi alla spartizione della marca di Torino. A partire dai beni paterni concentrati tra Savona e la vicina area appenninica, il marchese acquisì patrimonio e poteri in larga parte del Piemonte meridionale, tra le Langhe, gli Appennini e il Saluzzese. Da questo nucleo familiare e patrimoniale si ramificarono una serie di dinastie, che si spartirono il patrimonio di Bonifacio e diedero vita a egemonie locali: sono i marchesi del Carretto, di Ceva, di Clavesana, di Busca e di Saluzzo.

Questi ultimi in particolare, a partire dagli ultimi decenni del secolo XII, avviarono una trasformazione del proprio potere, che sempre più assunse le forme di un principato territoriale, sia per l’ampiezza della dominazione, sia per la capacità di attrarre nella propria clientela vassallatica le famiglie signorili attive nel territorio compreso tra le valli alpine e la pianura tra Saluzzo e Borgo San Dalmazzo. Era un territorio ancora debolmente popolato (per quanto in crescita) e soprattutto privo di città: è questo un dato comune a tutti i principati territoriali della regione, che non furono in grado di concentrare risorse tali da porre sotto il proprio controllo le città comunali, ricche e politicamente forti. Solo alla fine del Duecento, come abbiamo visto, i Savoia imposero il proprio stabile controllo su Torino, che era peraltro una delle città più piccole e meno potenti della regione; e solo temporaneamente, negli stessi anni, Guglielmo di Monferrato si impose su molte città piemontesi, come vedremo tra poco.

Progressivamente, tra XII e XIII secolo, i Saluzzo affermarono la propria superiorità su dinastie e comunità del territorio, dove però dovettero subire la pesante concorrenza delle villenove di Cuneo, Mondovì e Fossano, che riuscirono non solo a tutelare un’ampia autonomia politica, ma avviarono un’azione di sottomissione del territorio circostante, che in diverse fasi indebolì in modo importante il potere marchionale. Privi di città e minacciati dalla crescita delle vicine villenove, i marchesi promossero lo sviluppo di Saluzzo, che negli ultimi decenni del Duecento assunse nuova consistenza urbanistica e nuove funzioni politiche, non solo come residenza privilegiata dei marchesi, ma anche come centro politico del marchesato.

 

I marchesi di Monferrato.

Se per i Savoia e i Saluzzo disponiamo degli archivi marchionali (confluiti in tempi e modi diversi nell’attuale Archivio di Stato di Torino), l’archivio medievale dei Monferrato è andato del tutto disperso o distrutto, tanto che appare assai difficile ricostruire i funzionamenti interni di quello che in alcuni periodi fu il maggiore potere dinastico del Piemonte. E’ una dinastia assai visibile in tutti i conflitti regionali, direttamente legata all’impero, efficacemente legata a molte altre famiglie, sede di una corte culturalmente prestigiosa; eppure fatichiamo a leggere la struttura interna del marchesato.

Anche i Monferrato discendevano dagli Aleramici, da quel ramo della famiglia che piuttosto precocemente si era concentrato sui nuclei patrimoniali posti al di fuori della marca aleramica, nell’area collinare a sud del Po; su queste terre la dinastia aveva avviato un progetto politico di orientamento signorile, che poté ottenere particolare compattezza grazie sia alla sottomissione delle dinastie signorili locali, sia all’assenza di città, in questo territorio incuneato tra le dominazioni di Asti e Vercelli.

Si può probabilmente cogliere nel potere dei Monferrato una struttura duplice: da un lato un nucleo centrale di beni posti sotto il diretto controllo dei marchesi, nell’area tra Vercelli, Asti e Casale; dall’altro una clientela vassallatica vastissima, che coinvolgeva gran parte delle famiglie aristocratiche del Piemonte meridionale, e che garantiva quindi ai marchesi solidarietà e appoggio militare che andavano ben al di là dell’area di effettivo controllo. Così i Monferrato divennero un interlocutore costante e spesso un nemico per molte forze attive in diverse aree del Piemonte, e in particolare per le grandi città comunali.

 

La signoria di Guglielmo VII di Monferrato.

Il conflitto con le città fu quindi una costante della storia dei Monferrato, che non solo si difesero dalla pressione egemonica dei maggiori comuni, ma in diverse fasi cercarono di imporre la propria egemonia sulle città. Questo risultato sembrò raggiunto in una breve fase alla fine del Duecento, sotto Guglielmo VII, che nel giro di pochi anni seppe imporre il proprio potere, in varie forme, su molte città del Piemonte e della Lombardia. Già nel 1276 aveva preso sotto il proprio dominio Torino, ma fu soprattutto nel 1278 che concentrò rapidamente nelle proprie mani un potere enorme: divenne signore e capitano della guerra di Vercelli; capitano della guerra di Alessandria, tramite la quale impose il proprio controllo su Acqui; poi capitano della città e del distretto di Tortona, capitano di Casale, signore di Ivrea, capitano di Pavia e di Milano.

La sua posizione all’interno delle singole città era però piuttosto diversificata: era signore della città, senza specifiche funzioni ad Acqui e Ivrea; in molti altri comuni era un capitano della guerra con funzioni militari ma anche giurisdizionali, che si sovrapponeva alle precedenti cariche comunali; a Milano infine Guglielmo, come capitano della guerra, conviveva con la signoria del vescovo Ottone Visconti, che aveva da poco cacciato i Torriani, in precedenza signori della città. Questa carica “dittatoriale” di Guglielmo era probabilmente vista dal Visconti come un fatto temporaneo, strumentale alla difficile situazione di conflittualità con i Torriani; ma Guglielmo puntava invece a porsi come arbitro, garante della pace interna, per poi insignorirsi della città, ai danni sia dei Visconti sia dei Torriani.

La signoria di Guglielmo fu parte di un processo più ampio: fin dai decenni centrali del Duecento in tutta l’Italia settentrionale si stavano sperimentando forme di coordinamento delle città comunali, di superamento del particolarismo cittadino. Così figure come Ezzelino da Romano e Oberto Pallavicino furono in grado di raccogliere attorno a sé numerose città e dinastie signorili, in ampie dominazioni che fallirono tutte nel giro di qualche decennio. Il marchese di Monferrato riprese quindi modelli di comportamento analoghi, richiamandosi allo stesso tempo alle solidarietà che nei decenni precedenti avevano unito gli appartenenti alla stessa parte politica attraverso diverse città: Guglielmo si presentò come campione della parte ghibellina, grande oppositore del disegno di egemonia guelfa che trovava nel papato e in Carlo d’Angiò i principali promotori.

Rispetto a Ezzelino e Oberto, Guglielmo poteva fruire di un elemento in più: un marchesato, un dominio territoriale che, per quanto frammentato, si raccoglieva attorno a un nucleo centrale abbastanza compatto nelle colline del Monferrato. E proprio attorno a questo nucleo si trovavano le città che più solidamente Guglielmo arrivò a dominare, con forme di vera e propria signoria: Ivrea, Vercelli, Acqui, Alessandria e Tortona, costituirono una corona di città attorno al Monferrato, le basi più solide di una rete che solo a tratti e in modo ben più labile coinvolse le città lombarde come Milano e Pavia.

Ma la debolezza del potere di Guglielmo fu l’assenza di un vero centro: il capoluogo tradizionale del marchesato, Chivasso, ovviamente non poteva avere la forza economica e istituzionale delle grandi città, quella capacità di attrazione che nel secolo successivo avrà Milano per i Visconti. È vero che in questi anni il marchese riuscì a imporre il proprio dominio anche su Casale, ma solo nel secolo seguente questo borgo divenne capitale del marchesato, e in ogni caso si trattava appunto di un borgo, non certo di un rilevante centro urbano. La vera lacuna nel potere dei Monferrato era il mancato controllo di Asti: non a caso la politica monferrina del XII e XIII secolo si era volta a lungo al tentativo di circondare Asti e inglobarla nel marchesato, per farne centro del potere marchionale. La mancata sottomissione di Asti segnò il declino del potere monferrina.

Negli anni successivi, Guglielmo strinse relazioni amichevoli in molti regni d’Europa, dalla Castiglia a Bisanzio; ma nel nord Italia si costituì una minacciosa lega anti-monferrina, che tra 1287 e 1288 arrivò a comprendere i comuni di Asti, Milano, Pavia, Brescia, Cremona, Piacenza e Genova, oltre ai conti di Savoia. Prima che si arrivasse a uno scontro campale risolutivo, il 20 agosto del 1290 Guglielmo fu catturato ad Alessandria, e trascorse in prigione gli ultimi due anni della sua vita, fino alla morte giunta il 6 febbraio 1292.

La cattura di Guglielmo segnò l’immediato crollo del suo dominio, costruito in gran parte sulle personali capacità del marchese di coordinare politicamente e militarmente una realtà tanto eterogenea. Così le città della Lombardia e del Piemonte orientale, come Pavia, Novara, Vercelli, Alessandria e Tortona, entrarono nell’ambito di egemonia di Milano. Il comune di Asti espanse il proprio dominio nel Monferrato, mentre il conte di Savoia faceva altrettanto nel Torinese.

 

Bibliografia.

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Cartografia del Monferrato: geografia, spazi interni e confini in un piccolo Stato italiano tra medioevo e ottocento, a c. di B.A. Raviola, Milano 2007

L. Provero, Dai marchesi del Vasto ai primi marchesi di Saluzzo. Sviluppi signorili entro quadri pubblici (XI-XII secolo), Torino 1992

G. Sergi, Potere e territorio lungo la strada di Francia. Da Chambéry a Torino fra X e XIII secolo, Napoli 1981

G. Sergi, I confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Torino 1995


 


[1]Professore associato di Storia medievale presso l’Università di Torino, Dipartimento di Studi storici.