Quale futuro del regionalismo?

Enzo Balboni1

Intervento svolto il 21 marzo 2014 nell’aula consiliare, in occasione della presentazione della rivista “Il Piemonte delle Autonomie”. Il testo, pur rivisto dall’autore per gli aspetti redazionali conserva, volutamente, il tono colloquiale proprio dell’iniziativa.

Sono lieto di proporre in quest’aula – che negli ultimi tempi è stata al centro di elementi di gossip, per altro non privi di fondamento – qualche riflessione sul senso che oggi conserva l’istituzione “regione”, affrontando, un po’ più in profondità, il tema del “regionalismo”, quale lo possiamo declinare ai giorni nostri. Cercherò di essere sintetico, ma chiaro e preciso (a costo di qualche semplificazione), affinché possiate seguire meglio il mio ragionamento.

L’intervento sarà diviso (come la Gallia di Giulio Cesare) in “partes tres” di differente estensione: la prima – molto breve – dedicata ad un’opinione sulla rivista che oggi si inaugura: “Il Piemonte delle Autonomie”, la seconda – per me la più rilevante – sulle ragioni del regionalismo, che è anche una delle articolazioni-rubriche stabili della rivista; la terza – sintetica e mobile – sullo stato dell’arte in questo momento (perché le cose cambiano di giorno in giorno) con riferimento alla riforma della Costituzione per quanto concerne il Senato, che sta per essere trasformato nel Senato delle regioni e delle autonomie nonché, conseguenzialmente, del Titolo V della Costituzione.

In merito alla rivista, ritengo importante sottolineare che appare fin dal primo numero uno strumento utile e di agevole fruizione. Ed il fatto che possa fungere anche da “ipertesto” è di grande utilità. Le citazioni, infatti, non sono realizzate come negli ordinari moduli accademici o scientifici, perché non ci si limita a citare il nome dell’autore, l’articolo e la pagina, (il canone per il dialogo e il confronto nel mondo scientifico e all’interno della comunità degli interpreti), ma si riportano sul video, ed immediatamente, i punti d’appoggio e le argomentazioni che fanno da supporto; e ciò risulta proficuo per chi deve farsi un’idea compiuta e immediata del contenuto e delle implicazioni di quello specifico passaggio argomentativo. Avendo sul proprio pc il testo presentato da “Il Piemonte delle Autonomie” è possibile risalire immediatamente alle fonti dirette – normative e non – e alle fonti derivate, ed è cosa utile.

La facilità di accesso alle informazioni consentita dagli strumenti telematici permette, in tal modo, di avere a disposizione non dico tutto, ma molto – ecco la mia prima osservazione positiva. Il fatto che qualcuno abbia già fatto per noi questo lavoro di cernita e di selezione aiuta considerevolmente.

Aggiungo però un caveat. Forse la massima astuzia della odierna società della comunicazione e della trasparenza “liquida” è gettare sui tavoli grandi quantità di notizie, alla rinfusa, dentro l’oceano dell’informazione. Queste si trasformano in byte, cinguettii ecc., in modo che, poi, chi deve trovare una strada all’interno del ginepraio che si crea, per togliere “il troppo e il vano”, fa molta fatica a districarsi e ad orientarsi. In questo senso, il fatto che lo staff accademico e del Consiglio regionale che si occupa della rivista abbia pre-selezionato i materiali rilevanti è già apprezzabile. Constato ed apprezzo poi, che forze nuove e giovani dell’aiutantato del Consiglio regionale2credano in questa iniziativa è forse dovuto al fatto che anche loro – come chi sta nel mondo accademico e scientifico e può osservare le cose un po’ più dall’alto – hanno percepito che in questi anni, in questi mesi, si gioca su tali vicende una partita forse decisiva circa il senso profondo del termine-concetto “autonomia”, in generale e di autonomia regionale, in particolare. Se così fosse saremmo ad un passaggio quasi epocale, ma l’averne consapevolezza aiuta.

Dopo averci tanto girato attorno, alla fine – infatti – sono stati posti da taluni al centro dell’attenzione, e della discussione – anche con intenzioni apertamente “aggressive” – i concetti di autonomia, autogoverno e autoamministrazione.

Anche negli articoli lunghi e documentati che la stampa, la grande stampa, mette quasi quotidianamente in pagina – penso alle meritorie, per tanti versi (ma non per tutti i versi), inchieste della coppia antisprechi Rizzo-Stella, i quali hanno quasi sempre come bersaglio privilegiato le autonomie regionali. Per parte loro queste ultime, ad onor del vero molti guai se li sono cercati, ma l’aggressione di cui sono bersaglio ha un risvolto che innesta una declinazione e produce un risultato che ritengo per tale aspetto inaccettabile: quello di virare la rotta delle istituzioni verso l’accentramento e lo statalismo. Si tratta, ovviamente, di un problema di misura, ma il pericolo adesso esiste, concretamente. Potremmo chiamarlo, per stare al linguaggio dell’informatica, “statalismo di default”.

Nella misura in cui abbiamo fatto deperire, o faremo deperire se non riusciremo più a far innamorare le giovani generazioni all’idea di vedere come dato positivo le autonomie (al plurale) – che sono cosa essenzialmente diversa dal decentramento – avremo perduto un bene di cultura e, non ho difficoltà a dirlo, ideologico, a fronte di nessuna vera conquista sul terreno della praticabilità ed effettività democratica. Sono queste le conquiste alle quali sono legato anche personalmente: perché l’alternativa al deperimento, all’appassimento, all’umiliazione delle autonomie – siano esse comunali o regionali – produce come senso della direzione di marcia quello di procedere soltanto verso lo Stato, e dello Stato con la “S” maiuscola, fornito dei suoi organi ed enti che non esitano ad esibire e a praticarne l’autoritarietà, spesso solo autoreferenziale.

Vi faccio, adesso, una confessione di carattere personale, in grado di gettare luce sull’impostazione del mio pensiero su questo punto.

Appartengo a una scuola pubblicistica di diritto costituzionale e amministrativo – i miei maestri sono stato Feliciano Benvenuti, Umberto Pototschnig, Giorgio Berti e Giorgio Pastori: quella che mi permetto di chiamare la grande scuola pubblicistica dell’Università Cattolica – che ha motivato ed insegnato a scrivere la parola “stato” con la “s” minuscola3, sottolineando sempre e mettendo in primo piano la prevalente idea di vedere le istituzioni politico- territoriali come struttura al servizio della persona e del suo sviluppo spirituale e materiale.

Non dobbiamo mai dimenticare che lo stato, conosce la sua nascita storica soltanto ai primi del ‘500. Il primo a usare la parola stato nella prima riga de “Il Principe” è Nicolò Machiavelli (1513), ma il termine-concetto “stato”, che poi è immediatamente collegato all’idea e alla pratica degli stati nazione, nasce in un certo secolo e in un certo secolo morirà. Mi azzardo a pronosticare che nel prossimo secolo, lo stato – come l’abbiamo conosciuto per mezzo millennio – non ci sarà più. Adesso, anche gli stati soggetti di diritto internazionale, gli stati nazione, reggono, si avviluppano intorno a talune funzioni e si sostengono ancora con elementi formidabili nei rapporti internazionali e nelle reciproche relazioni esterne, ma sono già nella fase calante di deperimento. Questo non lo dico per ossequio alla teoria marxista dell’ineluttabile deperimento dello stato quando ci sarà l’avvento della società comunista (teoria che è stata superata dai fatti della storia, salvo che per gli spunti certamente intelligenti recati all’analisi sociologica ed economica), ma perché la configurazione dello stare insieme di persone e istituzioni dentro un contenitore che continua ad essere lo stato – ancora oggi lo stato nazione – ha avuto una sua necessità e utilità per cinque secoli, ma probabilmente non reggerà oltre il sec. XXI.

A differenza dello stato, reggono invece sempre le comunità di popoli e di persone: le comunità che rendono presenti le popolazioni intorno e dentro le città – quelle che nel linguaggio dei cattolici si chiamano, con linguaggio antico, “comunità naturali” – che lo stato deve solo riconoscere perché ci sono già prima dello stato: la persona e, sul piano del territorio, il comune. A questo proposito Alexis de Tocqueville ha scritto ne “La democrazia in America” una frase tanto retorica quanto suggestiva: “I regni li hanno costruiti gli uomini, ma i comuni vengono direttamente dalle mani di Dio”.4

Tocqueville si riferisce ai comuni, cioè alla tipologia primaria delle comunità naturali politiche, mettendo a tema l’aggregarsi di persone per svolgere compiti pubblici e per amministrarsi da sé. Non a caso Tocqueville scrive queste parole quando incontra e studia concrete manifestazioni di democrazia in America, alle sue origini, e vede che è formata di comunità autosufficienti in cui la self-administration o il self-government sono l’elemento costitutivo. Il primo grande intellettuale europeo sbarcato nel Nuovo Mondo vede e ammira, da liberale qual è, l’accettazione del rischio, la volontà e il gusto di differenziarsi, di essere diversi dagli altri, di fare qualcosa in più rispetto a quello che la comunità vicina sperimenta e porta avanti. Apprezza, inoltre, che ogni comunità abbia l’orgoglio di bastare a se stessa cedendo all’entità maggiore – pur necessaria: negli USA alla Federazione – solo i compiti che richiedono un governo forte e stabile.

Non è facile, e soprattutto non è immediato, collocare anche la regione dentro questa scala ascendente che parte dalla persona, dal comune, come prima comunità naturale, della quale l’istituzione “Comune” è soltanto l’istituto legale e rappresentativo. Con frase tipica del linguaggio notarile potremmo parlare del comune come del legale rappresentante dei suoi cittadini. A tal proposito, mi piace ricordare, esprimendo forte adesione, l’articolo 2 della legge n. 142 del 1990 – la grande legge di riforma delle autonomie locali, che poi è stata sistemata e traslata nel Testo Unico n. 267 del 2000 (ivi all’art. 3). Sono parole che vanno meditate con riferimento alle popolazioni che sono insediate su un territorio.

Ci dice infatti la normativa vigente che le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome; ciò vale anche per la comunità provinciale – che però qualche dubbio lo lascia, rispetto alla sua naturalità ed irreformabilità. L’articolo prosegue stabilendo che il comune (e la provincia) rappresentano ciascuna la propria comunità, ne curano gli interessi e ne promuovono lo sviluppo.

La formula è talmente bella e onnicomprensiva da essere stata usata anche da talune regioni al momento della ridefinizione dei rispettivi Statuti. Ad es. la regione Lombardia ha così statuito nel suo primo articolo, novellato nel 2008: “La Lombardia è Regione autonoma della Repubblica italiana in armonia con la Costituzione e secondo i principi dello Statuto. Esprime e promuove in modo unitario gli interessi delle comunità che insistono sul suo territorio, nel rispetto dei principi dello stato di diritto, democratico e sociale.”

Il giorno in cui anche la comunità regionale riuscisse ad autoaffermarsi e a essere realmente accettata da tutti gli abitanti del suo territorio come una vera “comunità” diventerebbe anch’essa nei fatti autonoma, e in tal caso l’ente regione ne sarebbe il rappresentante legale, in grado di assumere le decisioni nei confronti di tutti.

Se non credessimo all’autonomia, al gusto, al piacere, al rischio di essere capaci di autoamministrarci e di autogovernarci – assumendoci anche le relative responsabilità – non riusciremmo a salvare nessuna delle istituzioni territoriali intermedie tra la persona e lo stato. Fatalmente ci rifugeremmo, allora, perché un luogo di sintesi e protezione è pur necessario, nell’unica collettività nazionale che invece non può essere considerata una comunità naturale, perché non è una comunità originaria e perenne ma storica, essendo una comunità che ha avuto un inizio e avrà una fine: lo stato, appunto.

Negli articoli di Rizzo, Stella e seguaci non si prende mai veramente di petto lo stato, le sue strutture, le sue burocrazie, ma vengono semmai illuminate di luce cruda le discrasie che riguardano alcune imprese o aziende autonome dello stato, fondamentalmente per denunciare l’eccesso degli stipendi e dei bonus dei loro dirigenti, nonché le ruberie e/o le malagestioni che spesso ci stanno sotto. Ma nessuno aguzza lo sguardo al punto di denunciare che l’impostazione accentrata, uniformistica e centralistica della cosa pubblica, egemonizzata dallo stato, produce spesso anche gravi danni, che resteranno nascosti fino a quando non riusciamo ad individuarne la causa scatenante.

Quando si svalutano le autonomie – inoltre – si deprezza anche un altro amplissimo settore di autonomie ulteriori rispetto a quelle territoriali, anch’esse presenti e vive nel nostro paese: alludo alle autonomie funzionali e alle autonomie sociali.

Le autonomie funzionali sono quel largo mondo di enti – università, grandi accademie (come l’accademia dei Lincei o della Crusca), ovvero gestori e rappresentanti di interessi economici, come le camere di commercio o gli ordini professionali. Tali soggetti, avendo la possibilità e il dovere di darsi un proprio statuto, costituiscono il grande tessuto autonomistico, le grandi siepi o i filari di alberi che consentono di vedere un panorama più verde e più mosso: meglio articolato di quanto non sia semplicemente il modello statalistico accentrato, che è quello che, sotto sotto, ci viene riproposto.

Perché – e termino questa parte dal contenuto più ideologico del mio intervento – i valori di una comunità comunale o regionale dovrebbero essere simili a quelli della comunità nazionale (io mantengo una certa ritrosia a chiamarla stato, e preferisco l’idea di comunità nazionale): la persona, l’eguaglianza e la giustizia, almeno nella versione di una certa, di una ragionevole equità dei rapporti sociali.

A tale proposito, in Italia le regioni esistono per una fortunata – se vogliamo considerarla così – serie di accadimenti, che hanno la loro origine ai primi del ‘900 nell’impostazione di un energico pretino siciliano di Caltagirone, Luigi Sturzo, e di un professore di diritto pubblico, Gaspare Ambrosini attivo nell’Assemblea costituente.

Chi si trovava all’opposizione del vecchio stato accentrato e soltanto liberale del primo ventennio del secolo – cioè i cattolici popolari di Sturzo e il partito socialista, che erano i due partiti dell’opposizione – ha dedicato a questo una grandissima attenzione ed importanza. Ad esempio: Luigi Sturzo diventa segretario del partito popolare nel 1919 e ne organizza il terzo congresso, ovviamente dai banchi dell’opposizione, nel 1921 a Venezia. Sapete come viene intitolata la relazione fondamentale, che è di 20 pagine ed è la relazione nella quale si discute la linea politica di un partito nazionale, che è uno dei partiti in crescita all’interno della società italiana? Si chiama “La Regione nella Nazione”. Sturzo aveva dunque una visione non stato – centrica. E di cosa si doveva occupare la regione? Egli afferma che si doveva occupare di tante cose, non decisive per le sorti dell’Italia ma utili per lo sviluppo delle sue popolazioni: ad esempio, di lavori pubblici, di scuole, industria e commercio, agricoltura, beneficenza – igiene, servizi statali delegati, ecc.5

Per fare un solido raffronto con i nostri tempi, le regioni avrebbero dovuto rivendicare con forza, addirittura con durezza, nei confronti dello stato, ad esempio, che quella competenza amministrativa materiale, compendiata nelle parole di conio antiquato “istruzione artigiana e professionale”, diventasse, in concreto, la possibilità di istituire una “scuola tecnica regionale” vera e propria, con sue risorse, suoi regolamenti, suo personale e suoi diplomi al compimento degli studi e dell’attività di preparazione ad un (alto) mestiere artigiano così come ad una professione.

L’Italia ha avuto, ed ancora ha bisogno, anzi fame, di tecnici intermedi, non necessariamente laureati nei gloriosi Politecnici, che siano come gli “ingegneri” forniti di un diploma da parte di una scuola organizzata da un Land della Germania. Tali tecnici, da noi, avrebbe potuto benissimo formarli e costruirli la regione, la quale avrebbe dovuto rivendicare, tra le proprie competenze esclusive, quella in materia di scuola tecnica. La dizione che sta in costituzione all’art. 117, novellato nel 2001, dove si parla di “istruzione e formazione professionale” è ancora troppo povera, risultando alla fine – pur con tutto il rispetto – squalificante. Perché non interessano più soltanto i parrucchieri, i saldatori, le dattilografe o le stenografe, specialmente in regioni avanzate come Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna ecc. Questo era un campo nel quale bisognava avere il coraggio di fondare, difendere e far avanzare delle scuole “alternative” rispetto alle scuole dello stato, ponendosi in competizione positiva con la scuola statale, la quale avrebbe potuto certamente restare, su un piano parallelo, con i suoi istituti tecnici statali. In Germania è così: lì tutta la scuola è regionale per il fatto che l’istruzione è tra le attribuzioni e le responsabilità dei Länder, compresa l’Università. Bisognava almeno rivendicare la scuola tecnica, che portasse a una qualche forma di specializzazione ingegneristica o di alto artigianato, ma raggiunti con un diploma specializzato e qualificato, ottenuto senza doversi affaticare sull’algebra perfetta, sull’analisi matematica e sulla geometria superiore: materie che vanno benissimo, anzi sono sacrosante, per i Politecnici. Questa poteva essere e ancora dovrebbe essere una delle competenze qualificanti della regione, così come lo sviluppo economico locale inteso nel senso migliore del termine, il marketing territoriale e le politiche attive del lavoro, ecc. Anche l’intersezione tra i trasporti nazionali e i trasporti locali, con i problemi della mobilità e del traffico, che poi sono di base provinciale o comunale e adesso di spettanza delle aree-città metropolitane, deve trovare nella regione il luogo adatto, adeguato, necessario, naturale della pianificazione delle infrastrutture e del controllo su una efficace gestione, da delegare appunto, per la gestione, alle città metropolitane e ai comuni, e alle loro aziende.

Ma perché una nuova mentalità riprenda a fiorire è necessario che ritorni nelle popolazioni una voglia di autonomia, composta di rischi che si debbono correre e di autogoverno da praticare, mettendosi continuamente, ma responsabilmente, in gioco. Dovrà nascere o riemergere l’impostazione di porsi, sanamente, in competizione con territori di altre regioni per mettersi alla fine in competizione virtuosa con lo stato, anche già solo al fine di usare meglio le materie e le funzioni, pur assai ridotte rispetto a quelle statali.

3. Una parte della rivista “Il Piemonte delle Autonomie” si occupa ovviamente di mettersi in relazione cronologica con il tema principale del dibattito di questi giorni, centrato sul superamento del bicameralismo perfetto e paritario.

Qual è lo status della situazione, oggi? Incertezze, aporie e confusioni regnano pressoché sovrane. A cominciare dalle bozze di disegni di legge costituzionali pubblicate nei giorni scorsi sul sito Internet del Governo6. Se andate sul sito www.governo.it trovate quello che convenzionalmente possiamo chiamare il primo testo, approvato dal Consiglio dei Ministri il 12 marzo, che contiene anche errori, sproporzioni ed eccessi, insieme a cose buone, che pure ci sono. Tuttavia, a mio parere, non si possono lanciare all’attenzione della opinione pubblica, degli studiosi e della comunità degli interpreti oggetti troppo imperfetti e salvarsi l’anima con l’avvertenza: “poi faremo meglio “.

Vorrei esprimere in partenza – come credo tutti in quest’aula e in Italia – affetto e sostegno al tentativo del presidente del consiglio di cercare di “cambiare verso” al Paese, perché ne abbiamo assolutamente bisogno ed anche perché sappiamo che la conservazione e il gattopardismo italico hanno la scorza dura. Ma resto colpito dal fatto che, in una sede qualificata (la Direzione del partito di cui è segretario), il presidente del Consiglio butti lì dieci parole sulla composizione del Senato delle Autonomie, che poi diventa, in un modo assolutamente improprio, Assemblea delle Autonomie. Ma chiamiamolo senza incertezze Senato delle Regioni e delle Autonomie: togliamoci almeno questo dubbio nell’uso delle parole, ovvero manteniamo il nome attuale di Senato della Repubblica, se siamo conseguenti al messaggio inserito nel rinnovato art. 114 Cost. secondo il quale la Repubblica “è costituita” da Comuni, Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato, cosicché il Senato diventerebbe l’espressione di queste entità dichiarate addirittura costitutive (tolte, ovviamente, le province moriture).

Ripeto: non si può dire, senza poi aspettarsi aspre critiche, che “la composizione del Senato sarà formata dai 108 sindaci delle città capoluogo d’Italia e dai 21 presidenti di Regione, impreziosita da alcune presenze del campo culturale e scientifico per altissimi meriti della Patria”. No! Queste cose vanno fatte meglio e con maggiore ponderazione, ragionando e soppesando le alternative.

Infatti, se da una parte posso capire che, per lanciare un messaggio di grande semplificazione, si afferma: “eliminiamo la materia concorrente”, con la motivazione della tanta confusione e delle molte difficoltà nascenti dal fatto che le materie, le funzioni e i principi fossero un po’ dello stato e un po’ delle regioni, poi bisogna anche valutare l’effetto che fa!

Cosa significa, in concreto, l’eliminazione dell’intera categoria delle materie concorrenti? Porto solo un esempio: nella materia “ambiente”, già adesso in competenza esclusiva dello Stato, si era riusciti ad acquisire l’idea che l’ambiente fosse ancor prima di essere una materia, un valore da condividere in una dimensione trasversale e condivisa. Per la sua pregnanza, a mio avviso le Regioni non potrebbero esserne del tutto escluse. E mi fermo qui perché non è questo l’oggetto principale del mio intervento e perché si percepisce che la materia è ancora troppo fluida e magmatica.

Sarebbe poi istruttivo vedere in chiaro l’elenco delle competenze esclusive delle Regioni (che invece non c’è) perché anche le materie de quibus sono vaghe e di modesto respiro: oltre l’assistenza sanitaria e ospedaliera resta ben poco!

Un solo cenno a tre materie fra le tante, importanti e che adesso passerebbero alla competenza esclusiva statale: l’ordinamento degli enti locali, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e le norme generali sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (ivi comprese le regioni).

Noi non siamo gli Stati Uniti. L’Italia non è un paese federale: è un paese unitario ma non uniformistico, nel quale non si può far valere sempre la clausola di supremazia statale in tutte le materie, perché allora avremmo un’altra forma di stato, non autonomistica ma totalmente accentrata.

È importante, a questo proposito, che le colpe dei figli non ricadano sui padri.7

I nostri padri avevano istituito e creduto in una tipologia di regione dotata di un’autonomia solida, qualificata e partecipata, che fosse in grado di tenere il passo dei tempi aprendosi all’innovazione e a collaborazioni interne al tessuto regionale, prima fra tutte le relazioni con i propri enti locali, i comuni soprattutto.

Non vorrei essere apparso troppo antistatalista, ma di questi tempi, in cui tutto quello che sembra venire dallo stato risulta buono perché utile o necessario e tutto quello che viene dalle autonomie appare gravato da una maledizione intrinseca, mi è sembrato un caveat da esprimere ad alta voce.

Se la rivista “Il Piemonte delle Autonomie”, con la forza del ragionamento e potendo possibilmente, ma necessariamente, indossare “abiti virtuosi” e mostrare “buone pratiche” nell’uso dell’autonomia concorrerà ad aggiungere un mestolo di sabbia sul piatto della bilancia che pesa l’incremento e la qualificazione complessiva delle autonomie – possibilmente al plurale – avrà fatto un buon lavoro.

Post Scriptum

Nel non breve tempo intercorso tra la presentazione della Rivista ed oggi, molte cose sono cambiate in relazione al punto 3, dunque sulla riforma del bicameralismo (quasi nulla, invece, si è detto e si è discusso sul nuovo Titolo V).

Rilevo, in estrema sintesi, che il progetto è migliorato già nella versione del 31 marzo e ultimamente in quella ufficiale, stampata e numerata col n. 1429 A.S., firmata da Renzi e Boschi e comunicato alla Presidenza del Senato l’8 aprile scorso.

Ma anche quest’ultima è solo una versione, per così dire in progress essendo in corso il tentativo, difficile, di assemblare in essa i contenuti, in partenza molto difformi, della c.d. proposta Chiti, nonché altri apporti da parte della “maggioranza per le riforme” (che comprende Forza Italia), ma anche da un partito dell’opposizione, la Lega rappresentata dal senatore Calderoli. Seguirà poi la discussione in Commissione e, a partire dai primi di luglio, l’avvio della discussione in Aula; ma il percorso trattandosi di una importante revisione costituzionale sappiamo già che sarà lungo e non semplice.

A suo tempo, la rivista avrà modo di commentare il divenire delle cose, su uno dei prossimi numeri. Nel frattempo restano, a mio modo di vedere, valide le ragioni del “regionalismo”, pur a fronte di una oggettiva diminutio (anzi direi proprio dimidiatio) di tutto il comparto composto dal Senato delle Autonomie, anche se alla fine dovesse ritornare alla denominazione originale Senato della Repubblica, e nuovo Titolo V.

A quel punto si tratterà di vedere se i protagonisti delle nostre istituzioni riterranno ancora sussistenti le vere ragioni di un pluralismo istituzionale autonomistico (e.b. 25.06.14).

1 Professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

2 Il termine “aiutantato” non è plebeo, come potrebbe apparire a prima lettura, ma nobile, perché allude a coloro che prestano l’opera necessaria allo svolgimento di un servizio pubblico elevato, di carattere intellettuale e professionale. Nella terminologia classica potremmo renderlo con “diaconato”.

 

3 Salvo il fatto che, qualche volta, essendo lo stesso lemma uguale al participio passato del verbo “essere”, c’è qualche difficoltà a usare o a scrivere sempre la parola stato con la “s” minuscola…

 

4 A de Tocqueville, La democrazia in America, I vol., 1835, parte I, cap. V; trad. it. di S. Furlati nel volume a cura di M. Tesini, Città Aperta, Troina 2005, p. 68.

 

5 L. SURZO, Opere scelte, vol. V. Riforme e indirizzi politici (a cura di N. Andreatta), la Regione, Laterza, Roma – Bari, 1992 pp. 35 – 7.

 

6 Tutta questa parte va letta come pronunciata il 21 marzo scorso quando della riforma c’era solo un abbozzo, colmo di difetti. Nelle settimane successive le cose, per fortuna, sono migliorate, ma l’Autore … non poteva saperlo.

 

7 Cit. il mio intervento sul FORUM, pubblicato con lo stesso titolo nel marzo 2014:
http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/temi_attualita/riforme/0016_balboni.pdf.